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L'ANNIVERSARIO - L'occhio del tiranno

24/8/2015

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Della mia predilezione per Bette Davis non si è mai fatto mistero, ma riscoprirla in ruoli taglienti che la vedono non più nel fiore negli anni è per me un’avventura sempre nuova. Nel 1968 la Davis che appare sullo schermo è una consumata attrice nell’accezione positiva del termine; ruggente e sicura, riesce a tenere in piedi un film dalla prima all’ultima scena e pare che lo faccia con il minimo sforzo. Forse perché il ruolo della tremenda mamma Taggart che rende indimenticabile L’anniversario le casca addosso come un abito alla moda: feroci le sue risate, irresistibile il suo cinismo, galoppante la sua malvagità. Se una famosa canzone esaltava “gli occhi di Bette Davis”, qui l’occhio è uno solo e fa per due.
La signora Taggart è guercia, il suo unico occhio è perennemente spalancato fra rabbia e stupore passando attraverso finte gentilezze. Il marito “amatissimo” è morto dieci anni prima, ma la vedova ci tiene a ricordarlo ogni anno con una festa di anniversario matrimoniale che riunisca a casa i tre adorati figli. Si fa festa attorno a un defunto che resta imprigionato in un ritratto; ci pensa la moglie a parlare al posto suo. La casa appare soffocante con i sacri cimeli di famiglia in vetrina, i pappagalli impagliati in giardino, numerose lampade e molti gloriosi oggetti di dubbio gusto ai quali mamma Taggart non può rinunciare.
Tutto è dunque pronto per celebrare la festa più sinistra dell’anno e i tre devoti figlioli si affrettano a radunarsi a casa dove il vecchio tiranno monocolo li aspetta: quest’anno, tuttavia, alcuni di loro hanno un chiaro proposito, annunciare a mamma che intendono affrancarsi agguantando la propria indipendenza.
I tre figli Taggart, tenuti per la collottola dalla madre che è anche il loro inflessibile datore di lavoro presso la ditta edile di famiglia, non sono certamente tipi ordinari. Il maggiore, Henry (James Cossins), è un timido bambinone che proprio non sa resistere al richiamo della lingerie femminile e la ruba spesso dai fili del bucato altrui per poi indossarla compiaciuto. Terence detto Terry (Jack Hedley) ha sposato contro la volontà materna Karen (Sheila Hancock) e con lei ha fatto cinque figli nella speranza che ognuno di loro fosse un passo verso l’indipendenza: circondato da urlanti marmocchi è ora un uomo senza polso perseguitato da ricatti morali materni radicati nel passato. Infine Tom (Christian Roberts) è un sadico egoista che ha deciso di portare l’ignara ed eterea fidanzata Shirley (Elaine Taylor) a casa di mamma per annunciare un imminente matrimonio. Così, mentre Tom fantastica di sposare la sua dolce e terrorizzata Shirley, Terence e la moglie sono pronti ad annunciare la partenza per il Canada, luogo dove sperano di trasferirsi per sottrarsi all’egemonia perfida di Mrs Taggart.
 
Accompagnata dalle note di “The Anniversary Song”, la divina e terribile signora Taggart ha in serbo un programma serale imbevuto d’odio e vivacità. Dalle varie esibizioni dei figli chiamati a intrattenerla, agli interrogatori serrati alle nuore, non mancheranno incidenti diplomatici, ricatti crudeli, fuochi d’artificio, l’intervento della polizia, bugie, canti stonati, bizzarri rituali e macabri ritrovamenti. E tutto questo soltanto per onorare una sacra e asfissiante regola: i figli appartengono alla mamma, tanto che “sarebbe bello impagliarli e metterli in vetrina fra le cose più preziose; questo è amore”. In un’autentica esplosione di vetriolo, Bette Davis affida all’unico occhio su schermo il compito di dialogare col pubblico e vi riesce egregiamente. Ci si cala di botto in un’atmosfera grottesca dove i nefandi segreti di famiglia sono dietro l’angolo e non c’è limite alle perversioni: l’humour nero di mamma fa a fette i presenti e i suoi tiri mancini sono malvagi sopra ogni immaginazione. 
Si rimane dunque appesi a un quesito: riusciranno i tre infelici bamboccioni a voltare le spalle alla madre entro la fine della festa? E ne uscirà viva la povera Shirley, fidanzatina di Tom, arrivata a casa per la prima volta e subito assalita dalla furia cieca della futura suocera?
I colpi bassi non mancano in questo film che Roy Ward Baker porta sullo schermo basandosi sull’opera teatrale di Bill MacIlwraight; un capolavoro venefico ed elettrico che prende il pubblico a schiaffi. Qui non si ha pietà per nessuno. Il bagno di sangue materno è una golosa occasione per vedere la Davis all’apice del proprio carisma, tutta nervi e carattere, risate gracchianti a bocca spalancata, perennemente scossa da una gestualità ipnotica. Cattiva, cattivissima, non c’è in lei un barlume di candore. Pare prendere il peggio da ogni mostro sacro che ha impersonato: la natura dispettosa di Baby Jane Hudson, la civetteria della signora Skeffington, l’arguzia di Regina Hubbard Giddens. In questo film ci sono tutte le terribili donne di Bette Davis.
Alla festa di anniversario di Mrs Taggart è meglio non mancare. Ma armatevi di coraggio perché questa è la belva più scatenata che vi siate mai trovati davanti, in tanti anni di amore per Bette.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: The Anniversary
Anno: 1968
Durata: 95'
Regia: Roy Ward Baker
Soggetto: dalla commedia di Bill MacIlwraith
Fotografia: Harry Waxman
Musiche: Philip Martell
Attori: Bette Davis, James Cossins, Sheila Hancock, Jack Hedley, Christian Roberts

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PARADISO PROIBITO - Pietà per Mademoiselle

5/6/2014

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Adesso me ne pento, sebbene con riprovevole ritardo. Ricordo quella professoressa giovane e goffa che un giorno entrò in classe con l’assurda pretesa di calamitare la nostra attenzione. Fu un massacro. Giocammo con i suoi nervi sino a sfinirla, con la crudeltà che è concessa soltanto ai bambini. In un attimo scatenammo l’inferno fra i banchi.
Ciò che si presenta agli occhi di Mademoiselle Henriette Deluzy – Desportes (una giovane Bette Davis) è poco dissimile da quell’inferno. Professoressa di francese in un istituto femminile, affronta la sua prima lezione con nervosismo e titubanza. Fra le alunne c’è un fitto vociferare attorno alla pallida e austera insegnante: qualcuna ha riconosciuto quel viso per troppo tempo comparso sui giornali francesi associato alla parola “delitto”.
Sarà proprio l’affranta Mademoiselle, nel suo fasciante abito nero, a scendere dalla cattedra per impartire alle alunne una lezione del tutto nuova. Racconterà loro la storia di una governante, soffiando vita in un lungo flash back fiabesco meravigliosamente illustrato da una Francia in costume di metà ottocento. Proprio lei, Mademoiselle Deluzy, è la protagonista di questo doloroso ricordo: praticamente sola al mondo e avvezza a cibarsi delle “briciole della felicità altrui”, ha dedicato i propri anni migliori ai figli di ricche famiglie. Una donna materna, leale, severa all’occorrenza, pacata e capace di riassettare non solo le stanze di una casa, ma le ferite profonde fra genitori e figli. Assunta dal Duca e la Duchessa di Praslin, varca le soglie del loro monumentale maniero lasciandosi alle spalle i sussurri premonitori del vecchio tuttofare di famiglia: “non vorrà entrare lì dentro, vero?”.
Scompare, quella figurina tremante, nell’abbraccio dorato di una dimora opprimente. Isabelle, Berthe, Louise e il piccolo, triste Raynald saranno affidati a lei: la circonderanno con il loro entusiasmo infantile, rivelando poco a poco un campionario di lacune affettive. Il Duca di Praslin (un Charles Boyer tanto impetuoso quanto represso) adora i propri figli. 
Non si può dire altrettanto della Duchessa - Barbara O’Neil, in una fantastica prova recitativa - che si rivela un personaggio tentacolare, ibrido di pessime pulsioni umane capace di infangare ogni passaggio del film. Ossessionata dalla gelosia nei confronti del marito, anaffettiva coi figli, vendicativa e umorale, abile nell’ordire complotti. Una donna dai nervi disastrati che tiene in pugno lo spettatore con i suoi colpi di testa, contrapposta all’innocente e garbata Mademoiselle Deluzy, quell’imprevedibile Bette Davis che ancora una volta riesce a saltare con profitto da ruoli nerissimi a icone di bontà d’animo.
Mentre i piccoli Praslin si stringono ansiosi attorno alla nuova compagna di giochi eleggendola a madre adottiva, il Duca non può fare a meno di stringere con lei una rischiosa complicità. Complicità che dilaga nella passione, seppur rimanendo sospesa in quel gioco di sguardi e sospiri che il codice Hays impose al cinema. Mentre un amore represso e frustrato divampa fra i due, la Duchessa sfodera l’invidia più corrosiva. Vero simulacro dell’odio coniugale è la veduta esterna della villa: la stanza della Duchessa dalla luce sempre accesa così come quella del Duca e fra loro il corridoio perennemente buio. Quel corridoio è il terreno incolto dove un odio conclamato ha piantato bandiera. Alla finestra dirimpetto il viso preoccupato della Deluzy segue i movimenti dietro le tende e cerca di domare l’incendio di un amore inconfessabile.
La tragedia è molto vicina, e seminerà orme di sangue.
Un film di muri che bisbigliano e tradimenti sottili: i servitori, la stampa francese, addirittura il Re sembrano figure imbevute d’odio e incapaci di gratitudine. Coloro che invece hanno il coraggio di amare in questo serraglio di mostri (il Duca, la governante e i bambini), pagheranno un atroce prezzo al destino. Tratto da un romanzo della Field e ispirato a un caso di cronaca nera, il lunghissimo sguardo melò di Anatole Litvak (novantadue minuti, mai noiosi) pone l’accento sul legame fra la governante e i piccoli Praslin, addolcendo il sapore di uno scandalo inaccettabile per l’epoca. 
La commozione sopraggiunge spesso in punta di piedi per lo spettatore, specie innanzi ai distacchi che porteranno la Deluzy lontana dalla Francia e condannata a coltivare per sempre l’inesaudibile desiderio di una famiglia. Porterà addosso la croce della dedizione e le cicatrici di un amore negato, sussurrato, maledetto e demolito dall’opinione pubblica. Passerà attraverso il carcere e la povertà, tenendo stretto il ricordo di una sfera di vetro e l’ultimo sguardo di un moribondo. Torneranno a lei in un bisbiglio della memoria le buone parole alle quali non diede peso - “non vorrà entrare lì dentro, vero?” - e sarà troppo tardi.
Darà infine una lezione indimenticabile, quella della tolleranza.
Quella che a suo tempo avremmo dovuto apprendere anche noi, bambini terribili.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection

Scheda tecnica

Titolo originale: All This, and Heaven Too
Anno: 1940
Durata: 141'
Regia: Anatole Litvak
Sceneggiatura: Casey Robinson
Fotografia: Ernest Haller
Musiche: Max Steiner
Attori: Bette Davis, Charles Boyer, Jeffrey Lynn, Barbara O'Neil

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IL PREZZO DELL'INGANNO - Sinfonia di un tradimento

9/12/2013

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In principio volevo suonare l’arpa, poi ho ripiegato su un flauto irlandese. Comodo, leggero, economico, irlandese. Oramai è da un anno che i vicini di casa convivono con i miei sfiatati lamenti celtici. Qualcuno mi ha fermata sulle scale per chiedermi il motivo di un gesto così disperato: soffiare (male) in un tubetto di latta, per giunta nel cuore della notte. Ebbene, mia nonna è stonata come una campana e non ha mai avuto orecchio, ma mi assicura che “quando suono sembro un allegro pastorello”. Alla fine ciò che conta è avere un pubblico. E io continuo a soffiare.
Di musica parla anche questo film che vede protagonista Bette Davis (e il suo mostruoso talento che fa di lei – permettetemelo - la mia attrice preferita), giovanissima e immersa nel complesso ruolo di Christine Radcliffe.
Christine è una pianista; la vediamo salire frettolosamente lo scalone dell’università sino a raggiungere la grande sala dove il violoncellista Karel Novak (Paul Henreid) sta tenendo un concerto. L’atmosfera è suggestiva, il pubblico tace ipnotizzato, il violoncellista raccoglie i meritati applausi. Più tardi, raccoglie il bacio d’amore di Christine: si sono appena ritrovati dopo gli anni di separazione imposti dalla guerra. Lui la chiama con il nomignolo di un tempo, lei gli mostra le mani libere da fedi nuziali e nulla sembra cambiato.
Artisti che passeggiano lungo il marciapiede, abbracciati teneramente come la prima volta, nel letargo della New York notturna. Christine vive in un attico, a differenza di tanti squattrinati artisti locali. Non si respira il senso di sopravvivenza tutta bohemienne che permette a ogni piccola isola di restare a galla in un dopoguerra distratto verso i giovani talenti, ma un’aria di ricercata eleganza: Christine ha scelto preziosi arredamenti per il suo nido, i due guardano il cielo stellato dal rifugio di vetro dell’attico, decidono su due piedi di sposarsi e i loro cuori battono all’unisono.
Per un attimo.
Durante i festeggiamenti per le nozze, fra un pianoforte e una bottiglia di bollicine, Alexander Hollenius (Claude Rains) irrompe nella stanza con un ghigno sarcastico sul viso. Grande compositore, temuto da tutti e noto per la sua esuberanza, molto più anziano di Christine. Si rivolge a quest’ultima con velenose insinuazioni e la prende in giro platealmente. Hollenius conosce bene Christine e per questo si diverte a metterla in ridicolo: apparteneva a lui prima che rincontrasse casualmente Novak e lo sposasse nel giro di tre giorni.
Il triangolo è servito, nella sua accezione più urticante e fastidiosa. Hollenius, seccante e importuno, offre lavoro allo sposino Novak e ordisce un grande inganno al sapore di fiele. Il giovane violoncellista vacilla sotto serrate umiliazioni mentre la volitiva Christine, incauta sposa del perdente, tenta disperatamente di salvarlo dai tentacoli del crudele predecessore.
La sonata della possessione s’impone sulle delicate sinfonie di sottofondo, il bianco e nero è denso e deciso, inquietante e nutrito di contrasti. La Davis è una bambolina pericolosa, vittima e colpevole, astuto topolino finito in trappola. Un magnifico Claude Reins impersona l’eccentrico Hollenius, possessivo e vanitoso compositore forte della sua fama e capace di sottilissimi giochi di parole, fra sadismo e ironia. Incolore e debole è invece Karel Novak, lo speranzoso violoncellista innamorato. 
Alcune scene sono un vero monumento alla tortura psicologica: fra tutte eccelle quella della cena al ristorante dove un apparentemente pacifico Hollenius invita i giovani sposi prima di un concerto, li mette seduti comodamente e poi li esaspera con la scelta delle portate. Dialoghi come bombe a mano mentre l’occhio segue spasmodico l’orologio e Hollenius, beato e pacioso, crea una parentesi di quasi sei minuti fra perfidia e comicità. 
L’amore sgomita per sopravvivere in questo film dalle atmosfere plumbee e venefiche e soccombe puntualmente, la gelosia bestiale sfiora vertiginosa quota, gli interni opprimenti costruiti su tende, lampade e maestosi pianoforti diventano irrespirabile scenario per nevrotici eccessi. Un film che esagera con pennellate di dramma e cela tagliole a ogni passo, portandoci talvolta a simpatizzare con il vecchio amante tradito, furba carogna dai modi pomposi. Rapper gioca con lunghi dialoghi collerici e mai noiosi, ammaestra gli scatti d’ira e lascia il pubblico appeso alla traboccante e morbosa psicologia dei personaggi. Un nerissimo one woman movie con una Davis ribelle e un Rains viperino, in cui lo scrupoloso Irving Rapper non tralascia nemmeno una nota del pentagramma. 
C’è una squisita abbondanza di strategie, complotti, ricatti e segreti: quanto basta per farci posare il nostro piccolo flauto incompreso e tacere ammirati davanti al grande Hollenius. Al suo concerto suonato con gli artigli, alla sua orchestra di bugie ben camuffate e al suo disperato finale. Andante sì, ma non allegro.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: Deception
Anno: 1946
Durata: 110'
Regia: Irving Rapper
Sceneggiatura: John Collier, Joseph Than, Louis Verneuil
Fotografia: Ernest Haller
Musiche: Erich Wolfgang Korngold
Attori: Bette Davis, Paul Henreid, Claude Rains, John Abbott

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