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LA PISTA DEGLI ELEFANTI - L'ira dei padroni

5/6/2013

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Ci sono telefonate che preferiremmo non ricevere mai.
“Pronto? Avanzato?” l’uomo all’altro capo ha il tono allegro di un tuttofare di campagna: mi aspetto che proponga di riverniciarmi il bagno a prezzi modici da un momento all’altro.
“Sì, sono io”.
“Avanzato, bene! Mi dica, il suo appartamento è in vendita?”
Lo dice con un entusiasmo disarmante, come se mi avesse appena invitata a ballare la polka: quasi quasi mi dispiace dirgli di no.
“No… questa è casa mia… cioè… non è in vendita”.
“Non la vende? Ah peccato!” è evidente che sperasse di fare tombola “Perché casa sua una volta era mia, la sua famiglia l’ha comprata negli anni cinquanta, ma in origine era mia. Allora, è sicura che non me la vende?”
“Sì, sono sicura”. Esito un istante, decido di sfilarmi i guanti e maneggiare l’acquirente in modo più diretto: “La casa è mia e resterà mia”.
Con un garbato “grazie e arrivederci” che suona come “se ti vedo, ti sparo a vista”, il misterioso padrone del passato scompare dal mio telefono e dalla mia vita.
Veniamo a un dilemma: cosa abbiamo in comune Liz Taylor e io, oltre all’appartenenza allo stesso genere sessuale?
Per raccontarvelo devo addentrarmi in La Pista degli elefanti, un film che mi fa sentire grata al Technicolor (vi assicuro che è un raro evento), perché disegna i fulgidi contorni di un incubo per una fresca sposina di nome Rosie (Liz Taylor).
L’amore scalpita impaziente sin dalle prime scene, quando incontriamo Rosie al lavoro, in una minuscola e antiquata biblioteca circolante così verosimile da lasciarci addosso l’impressione di aver odorato pagine ingiallite. Lì viene raggiunta da John Wiley (Peter Finch), luce dei suoi occhi e uomo da sposare su due piedi, segreto fidanzato che è entrato un giorno in negozio in cerca di libri e ha trovato i lineamenti polposi e delicati di una libraia speciale. E, come in ogni idillio che si rispetti, c’è quello scomodo “però” che smorza l’euforia già in partenza. 
John vive a Ceylon, dove si occupa della piantagione di tè del padre: se Rosie lo sposa deve fare le valigie e diventare la moglie del padrone della piantagione. Credete che un trasferimento possa ostacolare il cuore irriverente di una giovane libraia? Vi sbagliate. Ad accompagnare il viaggio c’è un gioco suadente di scene dove il bianco dei vestiti esalta la bellezza scura e lucente di Rosie. John, al suo fianco, le mostra la sconfinata piantagione, i vasti spazi verdi di una cornice che più volte ci farà sospirare ammirati. 
Decine di persone lavorano nei campi, il padrone è riverito da tutti, una grande villa esotica e nivea attende la coppia di sposini. Non c’è uno scomodo “però”. O forse sì: è il muro di cinta sorvegliato costantemente da guardiani, una muraglia invalicabile che sembra mutilare il territorio per rendere la villa l’equivalente di una rocca inespugnabile. 
Qualche perplessità inizia a oscillare nel violaceo incanto degli occhi di Rosie. John, il nuovo e rassicurante maritino, le mostra il primo e inquietante tassello di una storia di gusto antico, ancestrale. Il muro è stato costruito per volere del padre di John, il vecchio e burbero proprietario della piantagione. La barriera fu eretta per impedire alle carovane di elefanti di calpestare il giardino e la villa stessa: difatti, il reame del vecchio Wiley pone le sue fondamenta proprio su quella che anticamente era “la pista degli elefanti”, il sentiero che conduceva i pachidermi a una vicina fonte d’acqua. 
Come vuole il detto, la memoria non manca a quelle creature, ed essi rivendicano ancora il loro antico possesso, attentando alla sicurezza della casa e fuggendo solo di fronte alle fiaccole dei guardiani. Insomma, “il padrone di casa vuole dire la sua”, e immagino che ora vi balzi alla mente quello strano vecchietto che mi ha telefonato. 
Rosie ha un problema analogo al mio: vive in una splendida casa costruita nel punto sbagliato, insidiata da bestioni arrabbiati e – peggio – da un fantasma ingombrante. Quel temuto e adorato suocero ancora vivo e presente nei reverenti discorsi dei suoi servitori di fiducia, aleggiante nella sua blindata stanza da letto intatta e addirittura sepolto in giardino sotto un solenne monumento funebre che sbircia dalle finestre come una sentinella importuna. 
I tremendi mormorii del passato invadono la vita di Rosie, mentre il suo amore per John sembra avviarsi verso un naufragio certo. John si rivela poco più di un bambino; lo dimostra da subito con festicciole alcoliche e chiassose, del tutto noncurante della moglie: tirannico, capriccioso e pericolosamente avvezzo alla bottiglia. Un mostro di rancore represso, schiavizzato dallo spettro del padre e condannato a non eguagliarlo mai per via della sua inettitudine. 
Si entra così nel vivo di un dramma dalle atmosfere speziate e contorte, dove Rosie lotta con ferocia per affermare un briciolo della propria autorità. Il suocero onnipresente, gli elefanti, il marito dai modi brutali: ci sono troppi padroni di casa in quel paradiso a Ceylon. E mentre le vendicative creature del passato marciano lungo la pista che non intendono cedere all’uomo, un principe nuovo dal cuore sincero entra nella vita di Rosie.
Avventuroso, pieno di colori fiammeggianti, ottimo osservatore del tessuto sociale, questo film inebria per la diversità magistralmente accostata dei suoi aromi. Meno affascinanti sono le telefonate del mio “vecchietto del passato”. Ma ben venga il vecchietto, se l’alternativa è la marcia letale e inesorabile di secoli di storia. 
Secoli di storia assetata che vuole tornare alla fonte.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: Elephant Walk
Anno: 1954
Durata: 103'
Regia: William Dieterle
Sceneggiatura: Robert Standish
Fotografia: Loyal Griggs
Montaggio: George Tomasini
Attori principali: Elizabeth Taylor, Dana Andrews, Peter Finch

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