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SABRINA - Abiti eleganti

22/8/2016

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Non posso certo parlare di delusione, forse soltanto di un timido disincanto. Di un sorriso per me stessa. Di un senso di cambiamento che ha sempre l’ultima parola.
Sabrina, fra tutti i film vintage visti in questi anni, è quello che più mi ricorda la magica eccitazione di una vita fa: ero una bambina quando vedevo la splendida Audrey Hepburn scivolare nel giardino e spiare il suo amato, fra le siepi, inarcando il collo da cigno. Una scena magica che subito rimanda all’atmosfera dell’intero film, a quel senso di purezza e candore che appartiene a Sabrina – povera, innocente, sognante Sabrina – e la consacra a eterno splendore.
A quei tempi ero rapita dalla favola ed è una sensazione che rammento molto bene. Anni dopo, capitando davanti alla stessa favola, sorrido di me stessa. E non posso certo parlare di delusione, forse è solo un timido disincanto per davvero.
Romanticismo senza compromessi in questa vicenda eccessiva, parigina e americana, dolcissima, in effetti un po’ stucchevole che Wilder regala a un pubblico chiaramente più femminile che maschile.
Sabrina ha un cruccio ed è quello a emozionare le bambine di ogni epoca: si è invaghita del giovane Larrabee, ma lui ha per le mani qualche bionda mozzafiato e non la considera nemmeno per errore. Per questa giovane e già molto intensa Audrey Hepburn, castigata in abiti sempliciotti, ogni scusa è buona per scivolare in giardino durante le feste dei padroni di casa. Lei, figlia dell’autista dei Larrabee, può vedere le meraviglie solo da lontano: le va a cercare con i grandi occhi lucenti fra le foglie, nel buio, godendo della musica che arriva a ondate e sognando ad occhi aperti mentre altri – quegli adulti, eleganti, sconosciuti altri – festeggiano dietro una vetrata. 
Sabrina non è invitata al ballo e ci sono poche possibilità che il rampollo David Larrabee (un affascinante William Holden, perfetto nel ruolo del cascamorto) si accorga della testolina arruffata che lo spia giorno e notte. Una Cenerentola con il cuore stretto e piccino, così infelice da arrivare persino a tentare il suicidio per amore, con drammaticità vera e risultati fallimentari. A sventare la sua teatrale uscita di scena è il fratello maggiore di David, Larry, interpretato da un tenebroso Humphrey Bogart, a suo agio nella parte dell'uomo d’affari di poche parole. È radicalmente diverso e ben contrapposto alla disarmante leggerezza del fratello minore; i due personaggi maschili denotano indubbio talento e sanno palleggiare con sapienza dialoghi vivaci. Così c’è David, figliol prodigo tutto sorrisi e galanterie. E Larry, imbronciato e tutto preso dagli impegni di lavoro.
Al centro c’è l’incompresa Sabrina e il suo bisogno di lasciare i panni di bambinetta goffa per sbocciare in una splendida donna: un viaggio a Parigi per frequentare una scuola di cucina sembra offrirle l’occasione per mutare in farfalla.
La parentesi parigina mi piacque molto anni fa e riconfermo massima preferenza per quel passaggio del film dove un eccentrico cuoco, con tanto di torre Eiffel che ammicca alla finestra e baffetti impomatati, dà istruzioni agli aspiranti chef della scuola d’alta cucina. Scuola che Sabrina frequenta con passi falsi e incertezze, con piccoli pasticci e soufflé che si sgonfiano all’improvviso. Tuttavia, consigliata saggiamente da un anziano gentiluomo divenuto suo amico, la sfortunata figlia di autista cambia pelle.
Genesi di una favola: un brutto anatroccolo capita nella città più chic del mondo e rivoluziona la propria immagine. Quando l’insipida Sabrina torna a Long Island è una signorina di classe e David, puntualissimo, cade nella tenera trappola del suo fascino studiato. Sarà lui ad aggiudicarsi il suo cuore? O forse l’ombroso fratello Larry, sotto la maschera corrucciata di Bogart, è il vero principe azzurro?
Una commedia romantica che delizia per la leggerezza della trama, che si riguarda a distanza di anni senza smettere di sorridere per l’abilità di Billy Wilder nell’accostare personaggi diversi e dare spazio alle loro speranze. Saranno gli abiti eleganti comprati a Parigi a garantire a Sabrina l’ambito titolo di “donna”? Sarà il taglio di capelli alla moda ad assicurarle l’amore?
Il disincanto scalcia per rispondere.
Wilder incaricò la Hepburn di cercare abiti adeguati al film, previe dritte di Edith Head. L’attrice comprò i modelli suggeriti nelle boutique parigine, da Balenciaga ad Hubert de Givenchy, una carrellata di magnifici abiti che hanno emozionato generazioni di ragazze “figlie di autista”. Anche oggi, vedendo la Hepburn fasciata dal vestito bianco di organza ricamata, sfugge alle labbra un sospiro. “Che bello, come le dona”. Nel 1955 un Premio Oscar per i migliori vestiti ricompensa la Hepburn (e Wilder) per la scelta azzeccata del guardaroba.
Così, davanti a Sabrina, tanti anni dopo, si chiede al disincanto di tenere la bocca chiusa ancora per un po’. Quel tanto che basta a credere alla strana, zuccherosa, spiritosa vicenda della figlia d’autista vestita di organza.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: Sabrina
Anno: 1954
Durata: 113'
Regia: Billy Wilder
Soggetto: dal lavoro teatrale “Sabrina Fair” di Samuel A. Taylor
Sceneggiatura: Samuel A. Taylor, Billy Wilder, Ernest Lehman
Fotografia: Charles Lang
Musiche: Frederick Hollander
Costumi: Edith Head e (non accreditato) Hubert de Givenchy
Attori:: Audrey Hepburn, Humphrey Bogart, William Holden, Walter Hampden, Martha Hyer

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L'ASSO NELLA MANICA - Benvenuti al luna park

27/7/2015

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Se non avete simpatia per i giornalisti, aspettate di conoscere Chuck Tatum. Se vi è capitato di generalizzare scagliandovi contro l’intera categoria, direzionate il vostro disprezzo verso un solo uomo. Chuck Tatum, appunto. Un personaggio forgiato da Billy Wilder al preciso scopo di suscitare in voi le più amare riflessioni, la sintesi inquietante della sete di gloria, della disonestà, della totale assenza di deontologia. Vi farà male, questo giornalista.
Siamo nella cittadina di Albuquerque, un fortunato angolo di mondo dove indiani e messicani convivono in quella che appare come una noia confortante. Nessuna stranezza, nessun avvenimento, un piccolo centro che sorge non lontano dalle montagne e dove ancora si respira la magia delle leggende dei nativi. C’è un piccolo giornale, ad Albuquerque, il suo direttore con le bretelle e i modi pacati, la giornalista avanti con gli anni che dispensa consigli per la pulizia della casa, un fotografo in erba e un quadretto a punto croce appeso al muro che recita “Dite la verità”. Questa è l’unica regola del giornale e il quadro è lì per volere del capo.
Quasi per ironia premonitrice, è proprio su quel quadretto che si posano gli occhi di Chuck Tatum (Kirk Douglas) appena arrivato in città e deciso a rimediare un posto. Ha lavorato a New York, a Detroit, è stato la penna di punta di molti quotidiani prestigiosi, ha assaporato la celebrità e ha tutta la sfrontatezza che occorre a un innato maestro dello sciacallaggio. Eppure è sceso da un pullman ed è finito nella redazione del giornale di Albuquerque: l’amore per la bottiglia e per le donne gli hanno fatto velocemente perdere prestigio. Adesso è lì per risorgere, per rimettersi in gioco. 
Uno come Tatum non chiede una possibilità, la estorce. Con le sue squisite doti da oratore convince il direttore del giornale in pochi minuti e prende posto alla sua nuova scrivania. Ma bastano pochi giorni per sbattere il muso contro una gran brutta realtà: Albuquerque non è New York.
Tatum non è il tipo che scrive articoli sulle sagre paesane, ma passando in rassegna gli eventi del posto nota da subito una certa penuria di grandi scoop. Quasi sul punto di impazzire, accetta controvoglia di partecipare a una caccia al serpente poco fuori città. La speranza è che qualcuno si faccia male e la sua macchina da scrivere possa ricominciare a triturare e risputare paroloni sensazionalistici. 
Al suo arrivo nella zona delle montagne, in quello che appare come un deserto desolato e arroventato dal sole, fa tuttavia una scoperta: una notizia ci sarebbe, ben più drammatica di un gruppo di uomini che inseguono un serpente. Leo Minosa, un uomo del posto, è sceso in una vecchia caverna alla ricerca di cimeli indiani quando è stato sorpreso da una frana. Le pietre l’hanno intrappolato. Leo è un uomo robusto e in salute, ma ha bisogno d’aiuto per uscire dai meandri della montagna sacra ai nativi. Sono troppi elementi, uno più intrigante dell’altro. La maledizione della montagna, l’uomo intrappolato nel buio, le ore forse contate. Non occorre altro, c’è la materia prima per ricavarci un articolo coi fiocchi.
Tatum si arrampica fino alla caverna e comunica con Leo attraverso una stretta apertura fra le rocce, simpatizza con lui, fa un paio di battute, gli propone persino di cantare assieme una canzone. E poi gli promette di portarlo fuori da quella tetra cripta. Ma ci vorrà pazienza. Molta pazienza. Forse giorni. Questo gli dice Tatum mentre la sua mente corre all’edizione straordinaria che uscirà di lì a poco. Puntellando il tunnel d’ingresso l’uomo vedrebbe la luce del sole in meno di venti ore, ma venti ore sono poche per servire ai lettori una notizia bomba a puntate. Così Wilder ci chiede di invertire il senso di marcia dei pensieri: non dobbiamo chiederci “Quando uscirà Leo?”, bensì “Come fare per tenerlo lì sotto il più possibile?”.
Tatum si accorda con lo sceriffo, uomo notoriamente corrotto, e opta per un’operazione di soccorso tanto scenografica quanto superflua. Si potrebbe trivellare la montagna con una perforatrice, il che assicurerebbe giorni e giorni di lavoro. A sostenere il giornalista in questo piano criminale e impietoso c’è Lorraine (Jan Sterling), la frustrata e perfida moglie di Leo, condannata a una vita dietro il bancone di una stazione di servizio a incartare panini. Tatum si infilerà prontamente sotto le sue lenzuola.
Wilder fotografa il pellegrinaggio della morte: turisti, curiosi e guardoni, invitati al macabro luna park delle montagne indiane. Fa di Tatum un capolavoro di meschinità, mettendo il dito nella piaga della società contemporanea. Un film brillante, a tratti ironico ma tagliente: la morte aleggia dall’inizio alla fine, è quasi una presenza tangibile fra i sussurri indiani delle montagne e le esultanze delle redazioni giornalistiche.
Quando abbasserà la sua falce, lo scoop sarà finito.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: Ace in the Hole
Anno: 1951
Durata: 111'
Regia: Billy Wilder
Sceneggiatura: Billy Wilder
Fotografia: Charles Lang
Montaggio: Arthur Schmidt
Musiche: Hugo Friedhofer
Attori: Kirk Douglas, Jan Sterling, Robert Arthur, Porter Hall, Ray Teal

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LA PORTA D'ORO - Il gigolò innamorato

27/12/2014

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Non so dire quando sia iniziata, questa stagione dei matrimoni; so soltanto che un giorno ho visto amici e conoscenti sommersi dall’invasione dei fiori d’arancio. Mi adeguo, cerco scarpe comode e abiti in tinta, presenzio ai matrimoni sempre più spesso, sempre più stupita.
Proprio un improvvisato matrimonio messicano è il cardine de La porta d’oro, ma entriamo in questo film sbirciando nello spioncino: in un riuscito esempio di “cinema nel cinema”, conosciamo già dalle prime scene un nervoso Charles Boyer, entrato di straforo negli studi Paramount per chiedere un colloquio con un regista. Mitchell Leisen, appunto, l’uomo dietro la macchina da presa, ora in scena nei panni di un collega. E cosa può desiderare uno come Boyer (Georges Iscovescu, nel film) se non raccontare la sua storia a qualcuno che possa farne buon uso sullo schermo?
Così Iscovescu si mette seduto e racconta al regista la sua incredibile storia: ci accompagna in un Messico di frontiera, caliginoso e arroventato, lì dove sorge la misera e infernale pensione Esperanza, lì dove gli immigrati si ammassano in piccole stanze in attesa di un permesso per entrare nel grande sogno americano. Perché è possibile entrarvi, se si è armati di pazienza e si è pronti a superare quel misterioso cancello di confine da tutti detto “la porta d’oro”. Ma l’attesa è lunga.
La vita nella modesta pensione sta stretta al bel rumeno Georges Iscovescu (abituato a fare la bella vita in Europa come gigolò); la porta d’oro è tragicamente blindata per lui, fino al fortunato incontro in un locale, sulle note suadenti de la Cumparsita, con la terribile Anita Dixon: sua compagna di danza e di antichi raggiri, Anita è una Paulette Goddard sanguigna e subdola, una maliziosa gatta bianca. 
Lei ha oltrepassato la porta d’oro facendosi furba: ha sposato un pollo americano e ha chiesto il divorzio appena ottenuta la cittadinanza. Eccoci quindi alle prese con la famigerata carta verde, quella che nel tempo ha ispirato scrittori e registi, il nuovo chiodo fisso per l’affascinante Iscovescu. Approfittando dei festeggiamenti del quattro luglio, l’uomo si aggira a caccia di una moglie americana. E proprio quando è sul punto di arrendersi, dopo una giornata di tentativi demenziali, in una squisita atmosfera di commedia si trova davanti Miss Brown (Olivia De Havilland). Timida, pudica, dolcissima e imbranata maestrina in gita con la classe, goffa autista alla guida di un pullman carico di piccole pesti. 
Lei, così innocente e così pura, è un bersaglio che fa gola al crudele Iscovescu. L’uomo non impiega molto a sabotare il pullman assicurandosi una notte per corteggiare la maestrina. Certo, c’è una sola notte a disposizione, ma Iscovescu intende sfoderare le sue migliori carte e con un tipetto come Miss Brown occorre poesia, romanticismo, stucchevoli commenti e sguardi da cane bastonato.
La tattica funziona, prima dell’alba il cuore della timorosa maestrina si spalanca davanti all’uomo appena conosciuto: momento ideale per una proposta di matrimonio, con l’aurora in cielo e il silenzio per le vie del paesello messicano.
Al “sì, lo voglio” di Miss Brown segue un grande, terribile, divertentissimo inganno. Precipitiamo con i protagonisti nei profumi e negli intensi colori del folklore messicano. La loro breve e strampalata luna di miele ha in serbo per noi la solennità delle candele di una piccola cappella, la leggenda di un albero di rusticani che svela il destino di un amore, tessuti ricamati per schermarsi dal sole, canti e balli tipici di un popolo che affronta la miseria con la vivacità della tradizione. Un affascinante tuffo nel cuore di Miss Brown, dove ogni progetto è un roseo manifesto d’amore, dove ogni desiderio è paurosamente sussurrato e dove le piccole disavventure di un viaggio sono dolci imprese da raccontare ai figli che verranno. 
La De Havilland sostiene da sola, con la propria recitazione, un cast di per sé stellare e si riconferma adorabile e spiccatamente tagliata per i ruoli tremolanti, pacati e ingenui. Suo contrappeso è il cupo e ammiccante Charles Boyer, a sua volta molto indicato per i ruoli da malvagio rubacuori. Questa strampalata e spassosa antitesi fra i due diviene il pregio della coppia e mentre l’auto dei novelli sposini sbanda su strade sterrate di un Messico sconosciuto anche alle cartine stradali, lo spinoso avventuriero europeo inizia a cedere sotto i colpi di leggiadria della mogliettina americana. L’amore è alla porta, la porta è d’oro.
Un film dall’intrigante struttura circolare. Leisen, definito successivamente da Billy Wilder “un vetrinista”, a causa di uno screzio, sa guidare con sapienza un cast prezioso e svela la vita degradata degli immigrati. Mescola dramma e commedia in un'opera irresistibile, elegante e fluida, avvalendosi di uno sceneggiatore d’eccellenza, lo stesso Wilder (qui autore di film altrui per l’ultima volta).
Bugie, promesse e colpi di scena: non sono mai stata invitata a un matrimonio più sensazionale di questo.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: Hold Back the Dawn
Anno: 1941
Durata: 116'
Regia: Mitchell Leisen
Soggetto: Ketti Frings
Sceneggiatura: Billy Wilder, Charles Brackett
Fotografia: Leo Tover
Musiche: Victor Young
Attori: Charles Boyer, Olivia de Havilland, Paulette Goddard, Victor Francen, Walter Abel

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