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SEPOLTO VIVO - Sottoterra, sotto il terrore

29/6/2014

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Tafofobia. Chiedete cosa significhi al mio defunto prozio.
Come in ogni lugubre tradizione famigliare che si rispetti, ho anch’io un prozio che fece scalpore per le sue macabre paure. Tafofobia, appunto. Il poveretto temeva di essere sepolto vivo e per questo lasciò scritto nel testamento che “Prima dell’inumazione desiderava che il suo cuore venisse trafitto con uno spillone da capelli” (lasciando in dotazione persino lo spillone). Volete sapere come andò a finire?
Ve lo racconto dopo, perché un nebbioso cimitero di campagna ci attende e lì una distesa di tombe sbilenche accoglie un esiguo gruppo di uomini dai soprabiti scuri. Fra loro c’è Guy Carrell (Ray Milland) intento ad assistere alla riesumazione della salma di suo padre. Scoprirà un corpo scomposto in una posa di terrore e un coperchio graffiato furiosamente. Sì, il vecchio Carrell è stato sepolto vivo, e noi non ci troviamo dentro un cimitero qualsiasi, ma siamo immersi nel genio sregolato e ombroso di Edgar Allan Poe.
Tafofobia, appunto. Cavalcante tafofobia per Guy Carrell, non più giovane e sempre inquieto, costretto a convivere con la sua divorante ossessione, a eclissare i tormenti in una fialetta di laudano scalciando via gli affetti e vivendo da ostaggio nel grande palazzo di famiglia. Perché l’arrivo della morte, per un Carrell, può chiamarsi “catalessi” e trascinare nelle profondità della terra da vivi per un soffocante risveglio nel buio, come è toccato al vecchio capofamiglia.
Il maniero gotico dei Carrell - candele rosso sangue, tendaggi opprimenti, vecchi pianoforti e una cripta sotterranea per i corpi degli antenati – è ormai più freddo di una tomba. Guy divide le giornate con una sorella autoritaria e solo la visita della sua amata Emily (Hazel Court) lo scuote dai soliti, funebri pensieri. Decide su due piedi di sposarla e lei, una bellezza di gusto preraffaellita dalle fluenti ciocche rosse e dalla pelle screziata di efelidi, è pronta a prendersi cura di lui. Sradicando dal suo cuore le angosce che lo colgono ogni notte, le distorte fantasie che lo riportano con la mente nel piccolo cimitero dietro casa dove i becchini fischiettano una ballata scozzese, dove la terra attende ansimando l’arrivo di una nuova preda. Viva.
La vita di Carrell è un’agonia; Emily ne divide il peso affrontando notti insonni, crisi e collassi, strane peregrinazioni notturne sotto il temporale, incubi. Ma Guy vive per perfezionare un piano ed Emily non può fermarlo.
Egli vuole prendere in contropiede la catalessi. A tale scopo segue il flusso incontrollato della sua fobia e costruisce un vero mausoleo in giardino: lì posiziona la bara che un giorno dovrà accoglierlo e tutte le comodità necessarie a un morto che ritorna. Dispositivi per spalancare la bara, cibo, musica, scale e cancelli automatici, dinamite, vie di fuga ingegnose e un grande calice di veleno per porre fine allo strazio, se necessario. Guy non ha nessuna intenzione di sembrare morto ed è strangolato dai suoi sinistri ragionamenti; lascia sfiorire la bella moglie e rifiuta l’aiuto di Miles, l’amico medico.
Un horror atipico che trae linfa letteraria da Poe e incontra il gusto di Roger Corman, maestro indiscusso del genere. Al posto del consueto Vincent Price, protagonista dei primi due film della serie basata sui racconti dello scrittore (I vivi e i morti e Il pozzo e il pendolo), troviamo un Ray Milland meno incisivo ma squisitamente preparato, e capace di sostenere una prova brillante nei panni del paranoico dai memorabili picchi d’ira.
Le atmosfere pesanti e polverose del gotico vecchio stampo aleggiano perenni nei grandi saloni dalla tappezzeria sbiadita, nei vermigli cangianti, nei velluti neri, nei rintocchi di un vecchio pendolo, negli incarnati di porcellana e nell’alito di brume che serpeggia fra le lapidi. Lo scenario è quello dell’horror, ma il complotto in primo piano rivela note noir inaspettate. 
Nessuno spettro, nessun demone, solo il girone infernale di una mente che va in pezzi: una lunga sequenza onirica giocata su evanescenze verdi e violacee diviene quintessenza del terrore, mostrando Guy alle prese con il suo mal funzionante mausoleo. Topi, vermi, scale recise, cancelli sbarrati, sepolcri che innalzano candelabri e tele di ragno all’indifferenza del mondo esterno in un trionfo di maestria per Corman, abituato a film dal basso budget e dall’effetto garantito. 
Il motivetto scozzese diventa così la più martellante e insopportabile delle nenie, penetrando da ogni spiffero, riecheggiando nel vento e adattandosi a funebre marcia di strumenti a fiato. Quel pugno di note ci rincorre ovunque, come la promessa che finiremo lì, sotto la terra e lontano dai vivi, a elemosinare ossigeno mentre il buio si apre e si richiude sopra di noi: un pensiero che perseguitò lo stesso Poe e anche il meno noto prozio della sottoscritta. 
A proposito, volete sapere che ne fu dello spillone? Fu riposto e mai utilizzato. Mia nonna si accertò che il corpo del prozio fosse cadavere toccandogli le mani. “Un morto si riconosce”, assicura lei.
Già, tafofobia, un morto si riconosce.
Chiedetelo al mio prozio.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: The Premature Burial
Anno: 1962
Durata: 81'
Regia: Roger Corman
Soggetto: Edgar Allan Poe
Sceneggiatura:Charles Beaumont, Ray Russell
Fotografia: Floyd Crosby
Montaggio: Ronald Sinclair
Musiche: Les Baxter Ronald Stein
Attori: Ray Milland, Heather Angel, Hazel Court, Alan Napier, Richard Ney

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L'ALTALENA DI VELLUTO ROSSO - Il caso White

18/3/2014

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Capita poi che alle sei del mattino io scenda dal letto con lo spirito di un topino di biblioteca. A tenermi sveglia è una donna di nome Evelyn Nesbit, ragazza di una bellezza folgorante che sembra dilagare fuori da ogni sua datata fotografia. Viene voglia di interrogarsi innanzi a quel volto, tanto che la visione de L’altalena di velluto rosso non basta a saziare la curiosità e allora leggo, indago, mi interrogo, ripercorro il caso White.
Siamo infatti di fronte a un film che analizza un caso di cronaca realmente accaduto; Evelyn ha contribuito alla sua stesura in quanto ispiratrice del delitto. In un certo senso siamo di fronte alla confessione di una donna molto vicina all’assassino. E questo basta a trascinarci in un tripudio di colori cangianti posti a paravento su una storia torbida, fra stacchetti musicali alla Ziegfeld e cappellini con la piuma.
New York, primi del Novecento, sfogliamo i giornali al contrario e torniamo lì. Un ristorante esclusivo ha appena accolto Stanford White, il principe degli architetti. Lui è la mente vulcanica che abbellisce il palcoscenico newyorchese con edifici grandiosi. Ha una moglie affezionata, è un bell’uomo il cui sguardo è affidato all’azzurro perforante degli occhi di Ray Milland, ha il rispetto di tutti. Fatta eccezione per Harry Thaw, il suo eterno rivale. Un ragazzo nervoso e violento deciso a dominare la scena sociale cittadina, abituato allo sperpero e viziato fino al midollo. Farley Granger è perfetto per la parte, conferisce a Thaw tutta l’imprudente frenesia del suo caratteraccio. L’architetto sorridente e garbato seduto al tavolo, il giovane arricchito dai modi villani seduto poco distante: punzecchiarsi è all’ordine del giorno.
Ma a seminare tempesta fra i due saranno un paio di occhi celesti su un incarnato delicatissimo e una cascata di riccioli scuri tutt’attorno. Evelyn Nesbit (Joan Collins), figlia di una sarta di scena, la ragazza che viene da Pittsburgh e non ha mai perfezionato talento e maniere. Ha un dente scheggiato ma sorride a bocca chiusa, e cerca ingaggi come ballerina e modella mostrando le gambe senza protestare. Pur non godendo dei modi di una gran signora, la sua bellezza non passa inosservata e l’architetto White (devoto alla moglie solo in presenza della stessa) mette gli occhi su di lei. Così Evelyn riceve un invito a entrare in un negozio di giocattoli dove una segreta porticina sul retro immette nel reame segreto dell’architetto più stimato di New York: una magica trappola di drappeggi rosso sangue dove cibo e bicchieri di bollicine ravvivano gli angoli. Qui l’attraente architetto può ricevere belle ragazze al riparo da sguardi indiscreti. 
Vero culmine di meraviglia del suo nido privato è una stanza posta in cima alle scale, dove ondeggia un’altalena di velluto rosso fissata al soffitto. Un balocco sospeso fra ingenuità e seduzione, giocattolo dell’erotismo. Anche Evelyn è invitata a salire per frullare in aria lasciando che la gonna si sollevi e regali all’architetto uno spettacolo di grazia, eros e movimento (le cronache dell’epoca parlano di molte ragazze passate per quell’altalena, a quanto pare svestite).
Così, nella stanza dei giochi, nasce una passione divorante fra la ballerina di Pittsburgh e l’imperatore dell’estetismo, dipinta nel film non come “una delle tante scappatelle”, bensì come un amore totalizzante e irrefrenabile che porta Evelyn a compromettersi (accettando tuttavia di buon grado regali, denaro e quel piccolo intervento al dente scheggiato che la madre sarta non avrebbe potuto permettersi). 
Gli amanti si muovono nell’ombra e lo stesso fa Henry Thaw, deciso a strappare al rivale la sua pupilla. Thaw, un cocainomane sadico e ossessivo, corteggia invano la bella Evelyn e coglie la palla al balzo quando la storia d’amore con White finisce bruscamente. L’architetto, temendo di compromettere ancora più la ballerina e la propria immagine, decide infatti di pagarle gli studi in un collegio (all’epoca dei fatti la Nesbit aveva sedici anni, White quarantasette) confidando in un lontana dagli occhi lontana dal cuore. Occasione appetitosa per Thaw che offrirà a Evelyn un viaggio in Europa, mano pesante, violente dichiarazioni di un amore malato e un’asfissiante proposta di matrimonio. Ci sono le basi per un delitto a sangue freddo, ma volutamente mi fermo qui perché starà a voi scoprire chi per primo premerà il grilletto.
Lo sguardo di Richard Fleischer sul chiacchierato caso di cronaca nera è tutto imperniato attorno alla misteriosa Evelyn Nesbit. Innamorata sì, ma anche disposta ad accettare denaro. Leale sì, ma anche pronta a mentire. Certamente vittima, ma anche ispiratrice di una storia che porterà “un uomo sotto le margherite, un altro in manicomio”.
“Chi era Evelyn Nesbit?” avremo voglia di chiederci, a visione conclusa. Ogni lettura sul caso ci darà sempre la stessa risposta: era la ragazza dell’altalena di velluto rosso.
Forse ha soltanto volato troppo in alto. E di certo la caduta è stata rovinosa.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: The Girl in the Red Velvet Swing
Anno: 1955
Durata: 109 min
Regia: Richard Fleischer
Sceneggiatura: Walter Reisch, Charles Brackett
Fotografia: Milton R. Krasner (con il nome Milton Krasner)
Musiche: Lionel Newman, Leigh Harline
Attori: Ray Milland, Joan Collins, Farley Granger, Luther Adler, Cornelia Otis Skinner

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