Siamo nella cittadina di Albuquerque, un fortunato angolo di mondo dove indiani e messicani convivono in quella che appare come una noia confortante. Nessuna stranezza, nessun avvenimento, un piccolo centro che sorge non lontano dalle montagne e dove ancora si respira la magia delle leggende dei nativi. C’è un piccolo giornale, ad Albuquerque, il suo direttore con le bretelle e i modi pacati, la giornalista avanti con gli anni che dispensa consigli per la pulizia della casa, un fotografo in erba e un quadretto a punto croce appeso al muro che recita “Dite la verità”. Questa è l’unica regola del giornale e il quadro è lì per volere del capo.
Quasi per ironia premonitrice, è proprio su quel quadretto che si posano gli occhi di Chuck Tatum (Kirk Douglas) appena arrivato in città e deciso a rimediare un posto. Ha lavorato a New York, a Detroit, è stato la penna di punta di molti quotidiani prestigiosi, ha assaporato la celebrità e ha tutta la sfrontatezza che occorre a un innato maestro dello sciacallaggio. Eppure è sceso da un pullman ed è finito nella redazione del giornale di Albuquerque: l’amore per la bottiglia e per le donne gli hanno fatto velocemente perdere prestigio. Adesso è lì per risorgere, per rimettersi in gioco.
Uno come Tatum non chiede una possibilità, la estorce. Con le sue squisite doti da oratore convince il direttore del giornale in pochi minuti e prende posto alla sua nuova scrivania. Ma bastano pochi giorni per sbattere il muso contro una gran brutta realtà: Albuquerque non è New York.
Tatum non è il tipo che scrive articoli sulle sagre paesane, ma passando in rassegna gli eventi del posto nota da subito una certa penuria di grandi scoop. Quasi sul punto di impazzire, accetta controvoglia di partecipare a una caccia al serpente poco fuori città. La speranza è che qualcuno si faccia male e la sua macchina da scrivere possa ricominciare a triturare e risputare paroloni sensazionalistici.
Al suo arrivo nella zona delle montagne, in quello che appare come un deserto desolato e arroventato dal sole, fa tuttavia una scoperta: una notizia ci sarebbe, ben più drammatica di un gruppo di uomini che inseguono un serpente. Leo Minosa, un uomo del posto, è sceso in una vecchia caverna alla ricerca di cimeli indiani quando è stato sorpreso da una frana. Le pietre l’hanno intrappolato. Leo è un uomo robusto e in salute, ma ha bisogno d’aiuto per uscire dai meandri della montagna sacra ai nativi. Sono troppi elementi, uno più intrigante dell’altro. La maledizione della montagna, l’uomo intrappolato nel buio, le ore forse contate. Non occorre altro, c’è la materia prima per ricavarci un articolo coi fiocchi.
Tatum si arrampica fino alla caverna e comunica con Leo attraverso una stretta apertura fra le rocce, simpatizza con lui, fa un paio di battute, gli propone persino di cantare assieme una canzone. E poi gli promette di portarlo fuori da quella tetra cripta. Ma ci vorrà pazienza. Molta pazienza. Forse giorni. Questo gli dice Tatum mentre la sua mente corre all’edizione straordinaria che uscirà di lì a poco. Puntellando il tunnel d’ingresso l’uomo vedrebbe la luce del sole in meno di venti ore, ma venti ore sono poche per servire ai lettori una notizia bomba a puntate. Così Wilder ci chiede di invertire il senso di marcia dei pensieri: non dobbiamo chiederci “Quando uscirà Leo?”, bensì “Come fare per tenerlo lì sotto il più possibile?”.
Tatum si accorda con lo sceriffo, uomo notoriamente corrotto, e opta per un’operazione di soccorso tanto scenografica quanto superflua. Si potrebbe trivellare la montagna con una perforatrice, il che assicurerebbe giorni e giorni di lavoro. A sostenere il giornalista in questo piano criminale e impietoso c’è Lorraine (Jan Sterling), la frustrata e perfida moglie di Leo, condannata a una vita dietro il bancone di una stazione di servizio a incartare panini. Tatum si infilerà prontamente sotto le sue lenzuola.
Wilder fotografa il pellegrinaggio della morte: turisti, curiosi e guardoni, invitati al macabro luna park delle montagne indiane. Fa di Tatum un capolavoro di meschinità, mettendo il dito nella piaga della società contemporanea. Un film brillante, a tratti ironico ma tagliente: la morte aleggia dall’inizio alla fine, è quasi una presenza tangibile fra i sussurri indiani delle montagne e le esultanze delle redazioni giornalistiche.
Quando abbasserà la sua falce, lo scoop sarà finito.
Maria Silvia Avanzato
Sezione di riferimento: Vintage Collection
Scheda tecnica
Titolo originale: Ace in the Hole
Anno: 1951
Durata: 111'
Regia: Billy Wilder
Sceneggiatura: Billy Wilder
Fotografia: Charles Lang
Montaggio: Arthur Schmidt
Musiche: Hugo Friedhofer
Attori: Kirk Douglas, Jan Sterling, Robert Arthur, Porter Hall, Ray Teal