ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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GEMMA BOVERY - Insostenibile leggerezza dell'essere

27/1/2015

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Basta la grazia imprevista di un sorriso intelligente a far volare via gli strati di tedio depositati negli anni. Così, tra fantasie e profumi di campagna, in Normandia si rompe il ritmo quotidiano nell’ultima riuscita commedia francese diretta da Anne Fontaine (regista di Nathalie, Coco avant Chanel, La fille de Monaco e Two Mothers), che adatta la graphic novel della cartonista britannica Posy Simmonds.
Toni drammatici e sensuali, ironici e gustosi come il pane: «Toccarlo è toccare la terra, la crosta originale da cui è uscita la vita: niente è più naturale e più utile del pane»; un’attività rilassante che aiuta Martin Joubert a rimuovere i brutti pensieri, ma allo stesso tempo lo spinge verso un torpore che lo avvolgerà per anni. Intellettuale parigino ritiratosi nel suo paese natale per portare avanti l’attività del padre come panettiere, cerca di trovare l’equilibrio e la serenità, ma il sopraggiungere dei nuovi vicini lo scuote dalla sua routine quotidiana. Ciò che colpisce oltremodo Martin è l’assonanza tra il nome dei nuovi vicini e i protagonisti del romanzo Madame Bovary: Gemma Bovery e suo marito Charlie riecheggiano Emma Bovary e Charles non solo nei nomi ma anche caratterialmente. In lei, soprattutto, si ritrova il senso di noia e l’abbandono all’adulterio del personaggio creato da Gustave Flaubert.
Martin osserva cosa accade intorno a sé con uno sguardo curioso, a metà tra un regista e uno scrittore, ed è infatti per mezzo di esso che si dirama l’intreccio: dal punto di vista di un uomo devastato dalla noia che, come un regista che ha appena gridato “azione!”, vuole guidare le sue “creature” intromettendosi nelle loro vite ed evitando che seguano lo stesso infausto destino del romanzo.
La bella Gemma però, non ha letto i classici della letteratura e vuole vivere la propria vita come più le piace. Quando intraprende una relazione extraconiugale con un ricco giovane del paese, la donna crede di poter iniziare con lui quella vita che avrebbe potuto soddisfare i suoi bisogni e saziare i suoi desideri, imbevuti da anni di ambizioni e fantasie, ma annullati dalla monotonia del matrimonio e dalla mediocre semplicità del compagno, che pur amandola sinceramente non è minimamente in grado di colmare i vuoti che si trasformano, pian piano, in voragini.
Martin si innamora subito di lei, dal momento in cui la incrocia nella campagna della Normandia mentre sta cogliendo i fiori, sebbene intrattengano una conversazione incredibilmente banale. Lei lo saluta con la mano, e malgrado sia evidente la mancanza di interesse nei confronti dell’uomo, con quel gesto insignificante riesce a dare fine a dieci anni di tranquillità sessuale.
L’erotismo è forse il protagonista assoluto dell’opera: si trova nell’aria e in ognuno dei personaggi, che sia in forma presente o latente. Anche il semplice e umile mestiere di Martin ci viene presentato con una carica erotica straordinaria, quando lui stesso inizia Gemma a questa attività: con lei fisicamente vicina a lui, con i suoi gesti e il suo respiro. In questo mestiere semplice (in realtà solo un ripiego alla disoccupazione), antonimico al suo animo artistico, l'uomo ritrova il gusto della poesia. Nonostante il fallimento nel mondo dell’editoria, a Martin resta comunque questa tendenza a percepire il tutto in modo letterario. Proprio questo, in fin dei conti, è il quid che muove tutto il film. Il gusto del buon pane, in realtà, è solo una scusa per far avvicinare i due protagonisti, con i continui sguardi di Martin che nutrono l'opera in virtù della passione così forte, seppur platonica, che arriva a sconvolgergli la vita proprio quando si era rassegnato a una routine distratta con la moglie.
Con una fotografia luminosa e solare contrastante l’ombrosità e il malumore dei personaggi, Anne Fontaine realizza una commedia veramente efficace e delicata. Fabrice Luchini, nei panni di Martin, si fa perno del film con una recitazione ovviamente a regola d'arte: increspature del viso ed espressioni che padroneggia da attore magistrale con infinite sfumature. Al contempo, la bellissima Gemma Arterton si conferma un’arma di seduzione che cerca di dare, riuscendoci, un aspetto inedito al personaggio di Madame Bovary, rubando la scena ai suoi compagni e persino a maestri dello schermo come lo stesso Luchini. L’attrice emana un’energia, sensuale e non, che non può fare a meno di conquistare lo spettatore con la sua bellezza calda che non indugia a ostentare.
«Ci sono momenti in cui la vita imita l’arte»: è proprio questo che si verifica davanti gli occhi del panettiere Martin; ma le parole possono anche essere ingannevoli, perché in realtà la morale è che la vita è troppo eterogenea e inaspettata per essere categorizzata secondo modelli assodati.

Beatrice Paris

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Anno: 2014
Regia: Anne Fontaine
Sceneggiatura: Pascal Bonitzer, Anne Fontaine
Attori: Gemma Arterton, Fabrice Luchini, Jason Flemyng, Elsa Zylberstein, Niels Schneider, Kacey Mottet Klein
Fotografia: Christophe Beaucarne
Momtaggio: Annette Dutertre
Durata: 99'
Uscita italiana: 29 gennaio 2015

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TURNER - Un "fiammeggiante firmamento"

27/1/2015

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Joseph Mallord William Turner (1775-1851) è certamente uno dei pittori più cinematografici di tutta la storia dell’arte, e i suoi lavori ci appaiono oggi assolutamente moderni, ben più vicini alla nostra sensibilità che a quella dei contemporanei di Turner stesso. 
La sua arte è cinematografica proprio perché, attraverso i moti saettanti di una pittura più viscerale che in passato, riesce a segnare il passaggio dal cosiddetto setting - il paesaggio che al cinema (e in pittura) serve come semplice riempitivo o fondale per l’azione principale - al landscape, una veduta che è invece psicologizzata e connotata in modo netto, che agisce sull’immagine come un personaggio aggiunto, maggiormente costruito e pensato, nonché come uno spazio storico e narrativo che stritola l’uomo e la sua piccolezza. Riportandolo, tra le altre cose, alla condizione di subalternità rispetto alla natura che egli merita e che più gli si confà. 
Lo si nota in molti dipinti di Turner in cui l’uomo è sempre sopraffatto e marginalizzato, e in particolare in Bufera di neve: Annibale e il suo esercito attraversano le Alpi, un quadro cui nel film è dedicata una gustosissima sequenza: una scena che dà anche tanto da pensare sulle prerogative della profondità di campo al cinema, ovvero sulle sue potenzialità decisive per stabilire le relazioni tra le cose e le gerarchie di senso tra i singoli componenti di un fotogramma. 

Immagine
Turner anticipa l’impressionismo proprio perché associa la pittura a un colpo di coda dell’animo, a uno slancio istantaneo che può tradursi anche in un approccio fisico estremo, come uno sputo sulla tela o un gesto energico e ferino del pennello. Elementi pittoreschi, certo, ma inevitabilmente rivelatori di una personalità, di un modo non solo di vedere ma anche di agire. 
Non è un caso dunque che Mike Leigh, nel suo biopic su uno dei protagonisti più iconici dell’arte britannica, si soffermi proprio sull’uomo, con tutto il suo corredo di misantropie, mugugni, bestialità e insensibilità diffusa. Non certo per voyeurismo, né tantomeno per morbosità. Ma perché il regista inglese, da fine scrutatore dell’essere umano qual è sempre stato, sa che non c’è niente di meglio della parabola personale per raggiungere uno spessore che parta dal particolare per approdare all’universale, arrivando ad abbracciare le implicazioni storiche, antropologiche e sociali che i veri geni sanno imprimere sul corso dei segmenti di Storia che attraversano in prima persona. 
Turner, nella fattispecie, fu cantore dello spazio e del sentimento, dell’innegabile aleatorietà della percezione umana di fronte allo spettacolo temibile della natura. La sua pittura traghetta il mondo dall’illuminismo, con le sue incrollabili convinzioni, a un più smosso e interrogativo romanticismo, che come tale si attacca al rimosso e all’inconscio, al non detto e al non spiegato. È l’uomo prima dell’artista, insomma, a reclamare un fisiologico bisogno d’oscurità, di ripiegamento su se stesso, di solitudine creativa in cui la luce è sempre esterna e altro da sé. Studiarla e accarezzarla perdendosi nelle pieghe fotoniche del creato e delle sue meraviglie, come fece Turner, non può allora non costringere, per contrasto, a guardare i propri fantasmi interiori e le proprie zone d’ombra. Un’idea che quest’immagine del film ci restituisce appieno, in modo incredibilmente plastico. 
Immagine
Il film di Leigh è un’opera densa e originale che si concede i suoi ritmi e un’andatura particolare, anche per quel che riguarda il ritmo del montaggio, piuttosto insolito nella sua ostentata tendenza al claudicante, al frammentario, allo scorcio. La splendida fotografia di Dick Pope gioca sul terreno dell’emulazione, è vero, ma anche l’andamento del film riflette una spiccata vocazione immaginifica. 
Vedendo Turner si ha infatti la sensazione di essere in presenza di un film dallo spirito antico, ricercato e calibrato al millimetro, come se qualcuno nell’atto di realizzarlo avesse esitato davanti a una tela bianca prima di scegliere che colori adoperare e che tasti toccare (si spiega in questo modo una mezz’ora iniziale che è meno incisiva e più circostanziale, come un dipinto in fase preparatoria, ancora rozzo e abbozzato). Non stupisce che a fare tutto ciò sia stato un regista come Mike Leigh, autore da sempre sensibile e attento, un acuto narratore dell’inadeguatezza che non può calzare benissimo a una figura fragile, goffa e disadattata quale fu quella di Turner: il risultato è un ritratto in cui l’emotività si congiunge a certe derive sgraziate e animalesche, tessendo un arazzo pieno di contraddizioni. E, in quanto tale, profondamente interessante, perché non teme il solipsismo, non arretra dinanzi alle tonalità più colorite e infuocate come a quelle più fosche e cupe. 
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Perché Turner, così come l’arte di Turner stesso, con un’identificazione su un doppio livello che rende il film di Leigh un capolavoro preziosissimo, parla proprio di questo: di contraddizioni come principio fondante di un mondo che perde la purezza originaria e accoglie dentro di sé i contrasti della modernità, della velocità ad ogni costo, dei rapporti problematici tra le persone, di una maniera meno rasserenata di vivere la collettività con i doveri sociali che essa comporta. 
Il Turner di Timothy Spall, caricaturale ma eccezionale, quando parla del colore, lo descrive come qualcosa di “sublime e contradditorio, eppure armonioso”, riconducendo gli opposti alla necessità di un equilibrio che consenta tuttavia di guardare oltre, di più e meglio (dando forma all’informe proprio per mezzo del colore, altro che “prendere congedo dalla forma”, come una detrattrice di Turner riferisce nel film). Uno sguardo auspicabilmente migliore e più sottile che anche le opere dell’artista invitano a far proprio, focalizzandosi su dettagli all’apparenza marginali ma in realtà portatori di un senso sia concettuale che emozionale, come se, passando alla fotografia, fossimo dentro alla concezione barthesiana del punctum teorizzata ne La camera chiara. 
Un’arte nuovissima, la fotografia, che, come il film documenta a chiare lettere, in una scena ironica ma di grande impatto storico, suscitò in Turner un misto di scetticismo e fascinazione. Probabilmente perché il pittore intuì le possibilità del dagherrotipo, corrispondenti alla forza dirompente con cui il mondo stava cambiando per non essere più lo stesso (Turner fu testimone della rivoluzione industriale e appassionato osservatore-riproduttore di treni e di battelli). E i cambiamenti, si sa, spesso più che entusiasmare chi li vive finiscono con l’atterrirlo e lasciarlo spaesato, perché non c’è e non ci può essere consapevolezza o distanza storica, quando si è invischiati direttamente in qualcosa con questa prossimità. 
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Turner di Mike Leigh, oltre alla pienezza delle molteplici riflessioni che propone (e che meriterebbero perfino ulteriore spazio, specie a proposito del finale del film, silente e cristallino nella sua umanissima poesia), ribadisce il bisogno tutto contemporaneo di biopic possibilmente differenti dalla media hollywoodiana, più intricati e scorbutici, capaci di lanciare domande a ripetizione sul pubblico e non limitarsi a essere cartoline agiografiche, enfatiche o retoriche. 
Con gli artisti tutto ciò è più facile, con gli scienziati (e con i militari di guerra), decisamente meno: basta confrontare l’esito artistico di Turner a opere di strettissima attualità cinematografica e dal taglio ben diverso come The Imitation Game, La teoria del tutto o a un altro film in uscita, Unbroken di Angelina Jolie. Il Turner di Spall in una scena del film contrappone dopotutto la disarmonia della tavolozza alla perfezione granitica del prisma, praticamente arrogando all’arte il compito di rispecchiare le contraddizioni e gli squilibri dell’umanità quasi in opposizione alla scienza, che il “fiammeggiante firmamento” di cui parla Turner non può che raccontarlo in un altro modo. Con più certezze, altrettanto necessarie, ma forse un filo meno umane e più imbavagliate dall’obbligo della santificazione e della dimostrazione rigida. Almeno al cinema.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Mr. Turner
Anno: 2014
Regia: Mike Leigh
Sceneggiatura: Mike Leigh                                                                                                        
Attori: Timothy Spall, Dorothy Atkinson, Marion Bailey, Paul Jesson, Lesley Manville 
Fotografia: Dick Pope
Montaggio: Jon Gregory
Durata: 150’
Uscita italiana: 29 gennaio 2015
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FURY - La violenza della Storia

24/1/2015

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Sono trascorsi quasi quindici anni da Training Day, poliziesco diretto da Antoine Fuqua che valse un Oscar come miglior attore protagonista a Denzel Washington. Un film che nei primi anni zero fece parlare di sé anche grazie all’efficace sceneggiatura firmata da David Ayer, passato pochi anni dopo alla regia continuando a curare personalmente gli script dei suoi lavori. Dopo aver realizzato quattro action polizieschi, il regista e sceneggiatore statunitense decide ora di cambiare registro e incontra il war movie. 
Siamo nell’aprile del 1945; la seconda guerra mondiale è ormai giunta alle sue battute finali, ma in Germania le truppe alleate continuano a dover fare i conti con la strenua e disperata resistenza dell’esercito tedesco. Il sergente americano Don 'Wardaddy' Collier, al comando di un carro armato Sherman, soprannominato Fury, ha appena perso il suo assistente macchinista. Al suo posto arriva Norman Ellison, giovane recluta senza alcuna esperienza in campo militare, al fronte da poche settimane con la mansione di dattilografo. Il resto della loro unità è composta da Grady “Coon-Ass” Travis, Boyd “Bible” Swan e Trini “Gordo” Garcia. Norman ha un animo sensibile e delicato ma sarà costretto suo malgrado a fare i conti con l’orrore della guerra, ad imparare a uccidere per sopravvivere e a fare squadra con i suoi nuovi compagni, guidati dal granitico sergente Wardaddy, in missioni sempre più rischiose e disperate.
A conti fatti si può senz’altro affermare che Fury sia una delle opere più mature e compiute di David Ayer, capace qui di realizzare un film a tutto tondo, incentrato su una pagina del secondo conflitto mondiale poco frequentata dal cinema hollywoodiano. Nel mettere in scena una guerra per così dire giusta e necessaria per liberare il mondo dall’oppressione nazista, il regista non evita di mostrarci le violenze compiute dall’esercito americano, come le esecuzioni a sangue freddo e i soprusi nei confronti di donne e civili. Con grande umanità e sensibilità Fury ci fa vedere tutto questo, ci mostra un popolo tedesco afflitto e martoriato in uno scenario desolante di morte e distruzione. 
Tenendosi lontano dai facili schematismi, Ayer vuole far comprendere al pubblico che alla fine in guerra si diventa tutti uguali, si viene privati della propria umanità e identità fino a non distinguere più i “buoni” dai “cattivi”. Emblematica in tal senso la lunga e magistrale sequenza ambientata in un appartamento abitato da due donne tedesche dove irrompe l’unità americana, costretta a fare i conti con le inevitabili tensioni interne al gruppo, in bilico tra gesti di civiltà e comportamenti brutali scaturiti anche dai tragici e devastanti ricordi legati allo sbarco in Normandia. 
In Fury non mancano gli atti di estremo eroismo (la disperata missione finale), così come non mancano gli inaspettati gesti di pietà e umanità da parte di chi combatte nelle fila del peggiore dei nemici. Si lotta per sopravvivere, si combatte fianco a fianco con i propri compagni, che al fronte rappresentano al tempo stesso la famiglia e gli amici, ovvero tutto ciò che si ha di più caro in quel drammatico frangente. 
Ayer si dimostra attento a ogni minimo dettaglio e preciso e scrupoloso nel restituire sullo schermo gli scontri a fuoco, filmati con estremo realismo in tutta la loro furia selvaggia e forza distruttrice.  A dir poco impressionante e ricco di pathos, grazie anche al ricorso a musiche cupe, ossessive ed enfatiche, il combattimento tra carri armati, con l’imponente cingolato tedesco superiore a livello tecnico-militare a quelli americani. Un dettaglio non da poco che lo spettatore già conosce, per merito di una didascalia iniziale in cui vengono sottolineate le ingenti perdite subite durante l’avanzata in territorio nemico dalla truppe americane a causa di questa disparità di mezzi e armamenti. 
Decisamente indovinati gli interpreti principali: Brad Pitt è perfetto nel ruolo del coriaceo e dolente sergente a capo dell’unità, mentre Logan Lerman nei panni del giovane Norman conferma tutto il talento messo in mostra un paio d’anni fa nell’intenso e notevole Noi siamo infinito, a riprova che nelle sue corde c’è una spiccata predilezione per i personaggi fragili dotati di grande sensibilità. Completano la squadra Shia La Boeuf, Michael Peña e Jon Bernthal, tutti a loro agio e ben calati nelle rispettive parti. 
Girato con grande profusione di mezzi e impeccabile professionalità, il film di Ayer - avvincente, compatto e coeso per tutta la sua durata - è destinato a diventare uno dei titoli di riferimento del genere bellico del nuovo millennio. 

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Fury
Anno: 2014
Regia e sceneggiatura: David Ayer
Fotografia: Roman Vasyanov
Musiche: Steven Price
Interpreti principali: Brad Pitt, Shia LaBeouf, Logan Lerman, Michael Peña e Jon Bernthal
Durata: 134’
Uscita italiana: 2 giugno 2015

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HUNGRY HEARTS - Vittime e carnefici

18/1/2015

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«Mio figlio ha vomitato carne, tu ne sai qualcosa?» chiede Mina (una straordinaria Alba Rohrwacher) rivolgendosi a suo marito Jude (Adam Driver). Lui resta in silenzio con lo sguardo fisso nel vuoto, disteso immobile sul letto di spalle a lei, che si gira e fa altrettanto. Una scena brevissima ma capace di esprimere tutta la distanza che separa due cuori affamati, un divario che sembra ormai incolmabile; corpi e menti estranei fra loro, separati da un muro invisibile.
Si incontrano per la prima volta in un claustrofobico bagno di un ristorante cinese newyorkese, e rimasti accidentalmente chiusi dentro, iniziano a raccontarsi e a conoscersi in attesa di essere liberati. In breve tempo Jude e Mina si sposano (lei lavora per l'ambasciata, e così non tornerà in Italia) suggellando un amore che sin da subito percepiamo profondo: un magnetismo che unisce insieme due persone segnate da un malessere che si manifesta nei loro sguardi. Ma ben presto questo sentimento si riverserà nei confronti del piccolo appena nato, sotto forma di un estremo e soffocante senso di protezione rispetto ai mali del mondo esterno.
Mina è convinta di aver dato alla luce un bambino indaco destinato a essere speciale; così gli riserva un regime alimentare deleterio per la sua salute, mettendolo in grave pericolo. Jude inizialmente la asseconda, ma in poco tempo la situazione precipita in una spirale discendente in cui si susseguono tanti piccoli drammi, rendendo l'uomo incapace di conciliare l'amore per la moglie con l'ansia e la paura per la salute del figlio. Jude si rifugia di nascosto in una chiesa di quartiere per sfamare il bimbo, consulta un medico, chiede aiuto alla madre, ma ogni tentativo risulta poco convincente e inefficace a causa dell'amore viscerale per Mina, che radicalizza sempre più le sue convinzioni.
Girato quasi tutto nell'appartamento della giovane coppia, il film di Saverio Costanzo costruisce il mondo dei personaggi come fosse una gabbia, tracciando traiettorie nello spazio e inquadrandoli quasi sempre dall'alto, ma alternando le angolazioni e i punti di vista, senza rinunciare ad avvicinarsi ai volti dei protagonisti nel tentativo di raffigurarne e carpirne l'identità.
L'uso di obiettivi che deformano l'immagine, con effetto fish-eye, permette a Costanzo di accentuare all'estremo la magrezza di Alba Rohrwacher, che a tratti appare una strega cattiva e minacciosa nei momenti in cui il film (che in generale scorre senza essere mai pesante) assume dei toni da thriller/horror.
Il microcosmo che i due costruiscono intorno a sé è un ambiente totalmente isolato dal contesto cittadino circostante. Un piccolo terrazzino permette di esplorare uno squarcio di New York, di cui vediamo i grandi palazzi e sentiamo le voci dalle strade; una città inquinata e marcia, lontana da quel sogno di purezza ossessivamente ricercato da Mina, che trasforma il terrazzo in una piccola serra (luogo incontaminato, confinato nell'oscurità della metropoli).
Vittime o carnefici? Forse entrambi, perché Hungry Hearts parla di una storia il cui destino è segnato sin dalla sua nascita. Jude e Mina si trascinano dietro un inquietudine incisa nei loro corpi, vivono in una società che per ordine naturale li ha emarginati, li ha vomitati e relegati ai confini, indifesi e sprovveduti verso un mondo che respingono, ma al tempo stesso desiderosi di farne parte. Ma sono anche colpevoli, perché rimasti imbrigliati nel loro amore malsano, incapaci di infrangere quel muro e andare oltre, troppo simili e inesorabilmente marchiati dal loro vissuto.
Costanzo non prende posizione, non giudica, e nonostante tutto crea empatia con i personaggi, lasciando un margine di speranza ai suoi numeri primi con un'opera che si rivolge al pubblico, chiedendogli di trovare una risposta. Un viaggio che termina sulle note di Tu si' 'na cosa grande di Domenico Modugno, con il quale il film sembra chiedersi: «si pure tu te siente murì' nun m'o' dici e nun m'o' fai capì', ma pecche'?».

Vincenzo Verderame

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Hungry Hearts
Anno: 2014
Durata: 109'
Regia: Saverio Costanzo
Sceneggiatura: Saverio Costanzo
Fotografia: Fabio Cianchetti
Musiche: Nicola Piovani
Attori principali: Adam Driver, Alba Rohrwacher, Roberta Maxwell, Jake Weber
Uscita italiana: 15 gennaio 2015

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LA TEORIA DEL TUTTO - Il genio e la creazione

15/1/2015

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Diciamolo subito: La teoria del tutto di James Marsh non è uno di quei film che rimarranno nella storia del cinema. E se, sulla base del notevole numero di premi che sta ricevendo (due freschi Golden Globe per il protagonista Eddie Redmayne e per le musiche), qualcuno si aspetta un’opera innovativa o sconvolgente, rimarrà deluso.
Questo è un film biografico; impossibile modificare quella che è stata la vita dell’astrofisico Stephen Hawking, geniale scienziato affetto da atrofia muscolare progressiva. Quando ci si confronta con una storia vera, lo scrupolo e il rigore nella trasposizione sono obbligatori, cardini e al tempo stesso barriere alla libertà creativa del regista e dello sceneggiatore. D’altra parte James Marsh, documentarista già vincitore di un Oscar (con Man on Wire), dietro la macchina da presa sa bene come trattare la materia della verità (sullo schermo) e si trova senz’altro a suo agio nella dimensione biografica, al cui servizio si pone con umiltà e coinvolgimento.

Allora cosa rende La teoria del tutto così speciale?

Il film prima di tutto concede il giusto onore alla straordinaria forza di un uomo che non si è mai fatto sconfiggere dalla malattia e che ha portato avanti, con una determinazione fuori dal comune, la ricerca verso la dimostrazione delle proprie teorie. Stephen Hawking (Eddie Redmayne) è un giovane studente di dottorato a Cambridge, e ha da poco una bella relazione d’amore con Jane (Felicity Jones), appassionata di poesia spagnola medievale, quando scopre la propria malattia. Questo è lo snodo iniziale e cruciale, quello attorno al quale si costruisce l’intera narrazione. È un racconto intimo e umano di difficoltà, perseveranza e trionfo. È l’esaltazione della grandezza dell’essere umano che non smette mai di lottare, di credere, di vivere. Stephen diventa ciò cui ha sempre aspirato. Un astrofisico riconosciuto e rispettato.
La teoria del tutto è anche il commovente ritratto di una coppia attraversata da eventi drammatici e ineluttabili. Questo senso di inesorabilità è ciò che, ci dimostra la storia, possiamo e dobbiamo combattere. Quello di Jane Hawking, sullo sfondo ma sempre presente, è un personaggio grandioso e complesso che vale la pena di ricordare, una persona che affronta la responsabilità, la gioia e il dolore delle proprie scelte di vita, moglie amorevole e madre attenta. Ma, soprattutto, è una donna che sembra progressivamente perdere la propria identità per assimilare quella del marito, essere avvolta dalla sua ombra, dalla sua debordante personalità. E così accade anche alla dolce Felicity Jones, la cui delicata e vibrante performance viene inevitabilmente fagocitata dalla prova splendida (ma non inaspettata, se si conosce il suo background anche teatrale) di Eddie Redmayne; Jane Hawking, una spalla per necessità ma che merita, come tutti, di diventare protagonista del proprio universo.
Jane e Stephen Hawking non pretendono di essere il modello di nulla, se non di se stessi. Una coppia unita da un affetto profondo, dal rispetto e dalla cura dell’altro, della sua salvezza, della sua felicità. Simbiosi e consapevolezza. L’interdipendenza tra i due è nell’interdipendenza delle interpretazioni, il modo in cui gli attori si rapportano l’uno all’altra, in un costante e sempre più necessario scambio di sguardi. Anche la fotografia sottolinea, dall’inizio alla fine e sempre con maggiore insistenza, il contrasto e la distanza tra i colori degli Hawking, compagni forse non fedeli ma devoti l’uno all’altra nell’arco di una esistenza impensabile, non ordinaria e magnifica, che trova un senso proprio nell’intellegibile.
Impossibile discutere La teoria del tutto senza affrontare la stretta relazione del film con la scienza di cui, pur in modo semplice (ma non superficiale), intende occuparsi. L'opera ruota attorno al concetto, alla filosofia, ma anche all’atto della creazione. L’idea. Il guizzo. La bramosa ricerca di quella teoria che possa spiegare il lampo nella mente, dare una risposta a una domanda che probabilmente rimarrà eternamente insoluta. Il genio. L’aspetto più intrigante de La teoria del tutto è la capacità di descrivere quella fiaccola, la naturale tensione verso il mistero. Cosa voglia dire essere uno scienziato, quale totalizzante devozione si abbia verso la ricerca.
Questa è una storia che discute il concetto di Fede, dentro di noi. Dove la scienza si ferma, comincia il mistero della vita, e la discussione sull’esistenza di Dio. La cosmologia, quando un particolare può spiegare l’intero universo. E la singolarità, punto cardine per la nostra concezione di persona. L’unicità, ciò che ci fa, che ci distingue, ci definisce e definisce il nostro valore.
È il mistero della creazione, se si vuole. La teoria del tutto è un grande film pedagogico che ci mostra quanto Howard Gardner avesse ragione quando parlava di intelligenze multiple. Stephen Hawking e le sue straordinarie intuizioni, l’attrazione per la ricerca, la disciplina, lo studio. La malattia è la materia entro la quale lo scienziato è costretto a muoversi, ma da essa non è limitato. La mente, lo spirito, quello è inarrestabile.
Nessuna barriera, allora. Non ci sono limiti oltre quelli che noi stessi ci poniamo, oltre quelli che la nostra mente ci suggerisce; il corpo altro non è che un involucro, e il nostro genio, la “creatività” (come direbbe John Dewey), è ciò che ci rende tutti speciali, irripetibili. Siamo diversi, siamo unici. Dobbiamo solo trovare la nostra dimensione. Con l’altro, nell’altro, ma anche nel mondo. La vita. Il tempo. Lo spazio. La creazione.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: The Theory of Everything
Regia: James Marsh
Sceneggiatura: Anthony McCarten (dal libro di Jane Hawking)
Interpreti: Eddie Redmayne, Felicity Jones, Emily Watson, David Thewlis, Charlie Cox
Fotografia: Benoît Delhomme
Musiche: Jóhann Jóhannsson
Durata: 123'
Anno: 2014
Uscita italiana: 15 gennaio 2015

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BARRY LYNDON - L’identità mancata dell’eroe

13/1/2015

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Barry Lyndon è l’opera mondo del regista più lucido e implacabile, morbida ma acuminata, stretta e tesa sui suoi personaggi come la morsa che la storia piega sulle carni, strozzando il sogno, l’ambizione, la voce che invoca: “Perché dovrebbe essere come con tutti gli altri?”. Eppure così, come con tutti gli altri, finisce la vita di Lyndon, mancato lord e mancato eroe, schiacciato da una vacua metà di secolo, amputato e povero. 
Barry Lyndon è un film troppo sfaccettato e complesso per reggere dentro a una cornice, come anche dentro al più esaustivo degli inquadramenti critici. Scorre piano e passa in fretta: i personaggi, introdotti decisi agli affari del mondo, non chiariscono mai volontà e sentimenti, limitandosi a reagire come iniqui servitori al destino prescritto e visivamente inscritto, presagito dalla narrazione di Stanley Kubrick. 
Pensiamo al primo fotogramma, un vasto orizzonte in fondo al quale il padre di Barry viene ucciso in un duello d’onore per l’acquisto di un cavallo. Il duello è la logica su cui si può argomentare (ma non esaurire) la facciata ben nascosta del film e della società che inquadra. Il duello settecentesco è esso stesso una facciata senza scopi pratici, un puro capriccio per spargere l’onore creduto offeso, uno sfogo in cui si può essere perduti in partenza. La vita e la morte sono affidate al primo che sparerà e alla mano che sarà meno esitante. Decidere della propria sorte è impossibile: così risuona la verità del duello che è verità esistenziale, ben coperta sotto le divise inglesi e prussiane, ridicole nelle parate e nei combattimenti sempre scanditi da marcette fischiettate. 
È verità tenuta sotto polvere, nelle stanze imponenti, tra i cimeli e le varie sconfitte accatastate. Il mondo non ha la forza di leggerla negli eventi e reagisce iniquamente, perpetrando il rituale aristocratico oppure sgranando gli occhi smarriti fino alla fine come fa Lady Lyndon, non più conformista del marito e del primo figlio, l’orrendo Lord Bullington. 
Kubrick non è un pessimista: è troppo lucido e severo per cedere alle pensosità e ai livori dei misantropi. Se nel romanzo di Thackeray (Le memorie di Barry Lyndon, 1844) è la prima persona di Barry a fare da contrappunto ironico agli eventi in cui incappa, qui è il narratore disincarnato, voce della storia che commenta con tremenda razionalità e chiarezza. 
Cos’è la storia in Barry Lyndon? È un mondo apparso dal nulla, già sfarzoso e senza scopi, terra di reclutamenti per il nutrimento di guerre senza ragioni, dove ci si deve inventare identità, ruoli e titoli per tirare avanti ritardando la sconfitta. La storia è un tableaux vivant con personaggi appesi a una parete, pupazzi imparruccati, de-pensanti nel gioco, in amore, in società. E a Barry, uomo che è niente perché può essere tutto, nella prima parte del film è negata la possibilità di un’identità stabile. 
Vincitore di un duello d’amore (in realtà inscenato per allontanarlo da casa), soldato per necessità dopo un furto, prima scampa alla guerra rubando i panni di un suo superiore, poi si traveste per passare il confine prussiano e riguadagnare la libertà: nella vita scoscesa di Lyndon i cambiamenti, piccoli e grandi, avvengono tutti nel segno di una finzione o di un furto di identità. Barry non può vincere essendo se stesso, ma solo ingannando e approfittando di una favorevole e casuale congiunzione di eventi. Non ha talento alcuno, è un personaggio aperto alle possibilità dell’esperienza e dall’esperienza è infine scalzato, incagliato in un amore che è niente in partenza quando su un balcone incontra le labbra esangui di Lady Lyndon.  
È il gioco della finzione estrema quello di Kubrick, dove il gesto è talmente pregnante da risultare sempre gesto rituale, che si tratti di un duello d’onore o di un gioco a carte, un pranzo galante o l’innocente scherzo d’amore del fazzoletto con la cugina. L’intero mondo inquadrato è immagine in movimento estremamente connotata dalle scenografie di Ken Adam e dalla fotografia di John Alcott; non è per Kubrick un vezzo di maniera, ma una necessità estetica, perché la società settecentesca (solo settecentesca?) vive nell’assorta esposizione di se stessa, esiste per essere sfarzosa e immobile, colma di gioielli e mobilio, vuota di coscienza e memoria. 
Barry e consorte, capitani, lord, reverendi, chevaliers, re: belle statuine cave all’interno e animate per la loro ultima volta di fiochi contorni, come fioca è la luce dei candelabri e delle lampade a olio.

Matteo Mele

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Barry Lyndon
Anno: 1975
Durata: 184’
Regia: Stanley Kubrick
Interpreti: Ryan O’Neal, Marisa Berenson, Patrick Magee, Marie Kean, Murray Melvin
Sceneggiatura: Stanley Kubrick
Fotografia: John Alcott
Scenografia: Ken Adam
Costumi: Milena Canonero

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THE IMITATION GAME - L'enigma di un genio

5/1/2015

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Manchester, inverno del '52. Alan Turing, geniale matematico ed esperto di crittografia, viene sottoposto ad interrogatorio da parte di un agente che lo ha arrestato per atti osceni. Turing inizia cosi a raccontare la sua vita. Il periodo è la seconda guerra mondiale, il luogo Bletchley Park, dove un team formato da scienziati, linguisti, giocatori di scacchi e persino un’esperta di enigmistica avevano l’arduo compito di decrittare il codice Enigma, una macchina progettata dai tedeschi per comunicare indisturbati; un dispositivo elettromeccanico capace di azzerarsi ogni giorno rimpiazzando i vecchi codici con dei nuovi.
The Imitation Game ricostruisce una delle vicende più importanti del XX secolo, una storia secretata per cinquanta anni negli archivi britannici, di cui il cinema ha iniziato a occuparsi relativamente tardi. Il primo approccio è stato il televisivo Breaking the code (1996), con Turing interpretato da un buon Derek Jacobi; si sono poi susseguiti U-571 (2000) di Jonathan Mostow, in cui gli americani cercavano di trafugare la macchina e il relativo cifrario da un sommergibile in avaria e infine l’ottimo Enigma (2001), di Michael Apted, che ripercorreva i fatti di Blechley Park con dovizia di particolari e sfumature da spy story.
Il film di Morten Tyldum, lontano dal biopic classico, articola la narrazione in tre momenti temporali distinti. Il buon montaggio di Goldemberg parte dal 1927 dove Turing è un adolescente schivo e impacciato, destinatario di continue vessazioni da parte dei compagni. Ma è anche il periodo in cui si avvicina alla crittografia e conosce Christopher, primo amore giovanile. La parte centrale del film va dal 39’ al 45’, anni in cui collabora con l’equipe di cripto-analisti per decifrare l’Enigma. Infine la narrazione si sposta a Manchester nel 52’ durante l’interrogatorio di polizia e la successiva incriminazione per atti osceni. Tre frammenti di vita legati da una tormentata diversità e dall’ossessione per il segreto e la finzione. Una vita caratterizzata dal “gioco imitativo”, obbligato a nascondere il proprio io da una società rigida e conformista. Un talento prodigioso per la logica e i numeri in aperto contrasto con un’inettitudine alle abitudini sociali, una mente visionaria incapace però di decifrare i comportamenti umani. Un protagonista non-omologabile, un forzato martire in un Inghilterra di burocrati e segreti dove tutto è teso alla “normalizzazione”.
Benedict Cumberbatch è efficace nella resa di un personaggio complesso e sfaccettato. La postura, il movimento, i tic, comunicano il senso di inadeguatezza in contrasto con una mente brillante ed esplosiva nei dialoghi. Una personalità  geniale ma asociale, che fa parte del background recitativo di Cumberbatch, protagonista dello Sherlock Holmes televisivo e volto di Julian Assange in Il Quinto potere.
The imitation game prende spunto da svariati esempi cinematografici moderni, il più chiaro dei quali è forse A Beautiful Mind, per un racconto tradizionale dove una confezione senza particolari guizzi autoriali, di stampo un po’ televisivo, fa della performance del protagonista il fulcro della vicenda.
Pessoa diceva che in un mondo impreparato il genio può non essere compreso. Il film riabilita la figura del matematico e fa luce su una delle menti più brillanti del secolo. Il titolo fa riferimento alla rivoluzionaria intuizione di Turing: qualsiasi programma di calcolo per quanto complesso può essere imitato. La teoria del carattere astratto delle computazioni, l’idea di programmi che operano come “menti virtuali”, segnerà la nascita delle moderne intelligenze artificiali. 

Luigi Locapo

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale : The Imitation game
Anno : 2015
Regia : Morten Tyldum
Soggetto : Graham Moore
Fotografia : Oscar Faura
Montaggio : William Goldenberg
Durata : 113’
Uscita italiana: 1 gennaio 2015
Interpreti principali : Benedict Cumberbatch, Keira Knightley, Matthew Goode, Charles Dance, Mark Strong

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AMERICAN SNIPER - Un cecchino nella tempesta

4/1/2015

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C’è un scena in American Sniper che vale per densità e intelligenza l’intero film: Chris Kyle ha appena ucciso il temibile cecchino nemico e, mentre la sua squadra prepara la fuga, una tempesta di sabbia si abbatte sul complesso residenziale che fa loro da trincea e confonde tutto in un manto uniforme, dentro al quale terra e cielo diventano indistinti. Come il segnale divino di un dio della guerra (o il Nulla de La storia infinita), la tempesta acceca, sparpagliando uomini e armature.
In un passaggio di polvere il luogo del conflitto diventa un non luogo senza contorni, dove stavolta il nemico da abbattere è il vuoto in cui in un attimo si è dissolto tutto, terra e nemico. Clint Eastwood ci introduce brillantemente nei perimetri di una guerra obnubilante, con uomini addestrati a entrare nella testa di un nemico che è nemico e nient’altro, costretti a capire gli spazi tortuosi e i tempi senza ore di un luogo arido, lontano da gloria, bandiere strette alle bare, tavole abbondanti.
Si parte dritti dal ferro dei carri armati, da cingoli e corazzature sporche. Per terra, i soldati si trascinano ordinatamente, calpestando macerie, calcinacci, sangue raggrumato da sedimenti e sedimenti di polvere. Con lo sguardo vago e scoperto all’odio nemico, i soldati cercano un pericolo che cambia forma e mezzi, che proprio perché sembra invisibile è ovunque lo sguardo si posi. Dall’alto un uomo letale sorveglia il passo esitante dei suoi compagni, confinato in una torretta di controllo perché sa dove guardare, contro chi puntare.
Addestrato a gestire il respiro e a numerare le minacce abbattute, Chris Kyle (Bradley Cooper) è un corpo disteso con gli occhi sbarrati, uno sulla realtà dove i nemici non si vedono, l’altro sul mirino telescopico del suo M40, sguardo artificiale che rivela il pericolo e giustifica il gesto che non può esitare un secondo di più. Con uno stacco azionato da un colpo di fucile, il film scopre l’infanzia di Kyle: la caccia, la messa e una lezione sul sano, giustificato esercizio della violenza con cui il pater familias indottrina maggiore e minore dei suoi due figli. Da subito ci viene fatto capire che è da lì, dalla ruvida realtà del Texas, che derivano i sentimenti che fanno l’etica dell’eroe americano: ostinata volontà, cognizione del bene, senso del dovere, amor di patria.
La parentesi sulle origini si richiude sulla scena di apertura lasciata sospesa al momento dello sparo: con un espediente povero, certo furbo, la regia declama a gran voce che dietro al gesto deciso e fendente di un soldato c’è il suo mondo di ricordi e dottrine incapsulate e credute. Eastwood da questo momento non risolleverà più un film strozzato non tanto da sottese retoriche ben nascoste nella solidità della storia (cosa risaputa), ma da ambizioni di concisione e chiarezza ad ogni costo, che degenerano spesso in un tono da sommario semplificatorio laddove la storia meritava che le voci confuse e stridule, i fantasmi agghiaccianti che Kyle porta in braccio dalla battaglia prendessero forma, ferissero, sporcassero la narrazione.
Clint Eastwood è il regista che più coerentemente di tutti ha raccontato il sacrificio, quello deliberato per amore (I ponti di Madison county) e quello brutale e ingiustificato (l’assassinio della figlia di Sean Penn in Mystic river, sacrificio “accidentale” che fa emergere colpe e ombre di una microsocietà di crimine, malessere e omertà). Ci viene in mente il corpo esanime di Walt in Gran Torino, incorso nella morte per liberare dai suoi oppressori un ragazzo all’inizio respinto, o lo sguardo ammaccato e infine caduto nell’ombra del vecchio allenatore di Million dollar baby, disposto a “perdere se stesso” pur di sollevare una ragazza dal dolore di un’immobilità forzosa e assurda.
Così, proseguendo idealmente, incrociamo la vita e la morte di Chris Kyle, il cecchino più abile della storia americana, come recitano trailer e tag-line, ultimo tra gli eroi di Eastwood a esercitare in battaglia quella grazia nelle avversità amata da Hemingway, disposizione alla vita che si addice a uomini veri, degni di un’accorata celebrazione al cinema. Per quattro volte in missione in Iraq, fu insignito di medaglie al merito e soprannomi eloquenti: “La leggenda” o “Il diavolo di Maradi” (con quest’ultimo nome era noto tra i combattenti iracheni). Fu ucciso nel febbraio 2013 in un poligono da tiro da un commilitone afflitto da disordine da stress post-traumatico, disturbo da cui egli stesso era affetto. Nel film la malattia è raccontata superficialmente, senza un momento di convincente approfondimento degli effetti di un male che nasce dai cumuli di paure e premure che il conflitto impone ai soldati. Uomini mai fin troppo addestrati a sopravvivere ai giorni e alle notti senza fine di una guerra sulle cui ragioni non occorre interrogarsi troppo.
La regia di Eastwood manca di tutto ciò che fa grande e moderno il cinema di guerra di Kathryn Bigelow, soprattutto in Zero Dark Thirty: una narrazione ipertesa e lacerata, dove il racconto della guerra è affidato a immagini e personaggi che ben raccontano la concitazione del conflitto, non nascondendone l’artificiosità e la complessità non riducibile a schemi ordinati. In American Sniper seguiamo tutti gli spostamenti dei Navy Seals, entriamo con frequenti soggettive nel mirino dei due cecchini, vediamo il luogo degli scontri dall’alto di un satellite; americani e terroristi sono schierati su due fronti non comunicanti. Il racconto della guerra è chiaro come in una cronaca televisiva statunitense.
Allo spettatore non è richiesto lo sforzo di ricostruire dai pezzi sparsi perché la narrazione attribuisce loro un senso chiaro e non negoziabile: la città americana è luogo dove divertirsi e addestrarsi a un mondo “di lupi, agnelli e cani pastori”, farsi una vita e una moglie; la città islamica è luogo immobile, retrivo e privo di gioia. Fin qui, come testimonianza in fieri di una guerra che sembra esserci sempre stata, il film guadagna, se non originalità, credibilità e tempi adeguati per poi perdere entrambi quando ritorna in patria.
Resta, al di là di tutto, la forza di quei momenti in cui, nello sguardo del cecchino, avvertiamo la fermezza e l’esitazione sovrapporsi in una partita dove il battito di un cuore è appeso ai secondi. Per il resto, Eastwood si limita a “puntare” la macchina da presa su ciò che è già rimasticato e più risaputo, non per raccontare il retroterra di una vita, ma per darcene giusto un’idea chiara e semplice: le immagini in Tv che scatenano in Kyle l’ansia di servire il proprio paese, il corteggiamento al bar, i rumori della guerra che ritornano e isolano dalla realtà, la morte di Chris non mostrata e sostituita da didascalia e sequenze celebrative (immagini del vero funerale con la popolazione accorsa a sventolare bandiere) per ribadirne l’identità di eroe.
Resta, sopra a tutto, la tempesta di sabbia, il muro sporco che la guerra erige e che nemmeno lo sguardo acuto e implacabile del più famoso cecchino della storia americana può fendere o penetrare. 

Matteo Mele

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica  

Titolo originale: American Sniper
Anno: 2014
Regia: Clint Eastwood
Durata: 132’
Attori: Bradley Cooper, Sienna Miller, Kyle Gallner, Max Charles, Luke Grimes
Sceneggiatura: Jason Hall (dal romanzo autobiografico American Sniper: The Autobiography of the Most Lethal Sniper in U.S. Military History)
Fotografia: Tom Stern
Uscita italiana: 1 gennaio 2015

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BIG EYES - Burton rinnega Burton

2/1/2015

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Big Eyes è un film che di sicuro non farà la felicità né dei burtoniani di ferro né dei critici col bilancino del burtonismo alla mano: entrambi vi ravviseranno pochi elementi tipici dello stile del regista, anche perché è prassi comune associare all’aggettivo “burtoniano” solo ciò che non è baciato dalla luce del sole: un immaginario dark che negli anni ha fagocitato il suo artefice più proverbiale fino a restituircelo nella veste depotenziata e dimenticabile degli ultimi film, da Sweeney Todd (escluso) in poi. 
Big Eyes tuttavia, è bene precisarlo fin da subito, non è certo un film non burtoniano. Ma lo è in forma diversa, più indiretta e meno prevedibile. Ragion per cui non è difficile immaginare che si presterà a essere equivocato o snobbato (cosa che è già avvenuta al botteghino americano, dove ha appena fatto registrare un flop sonorissimo), a essere scambiato per un blando tv movie senza nerbo, il cui regista appare irriconoscibile se confrontato, naturalmente, con i fasti del passato e i freak del suo cinema che così in profondità hanno bucato l’immaginario collettivo, ergendosi a simboli senza tempo del disadattamento e della relazione travagliata tra il conformismo della società e la non conformità del singolo.
Non bisogna commettere neanche l’errore opposto, però. Ovvero far finta che Tim Burton sia ancora il regista de Il mistero di Sleepy Hollow o di Big Fish, perché oggi la ricchezza delle sue invenzioni pare ben più al ribasso e l’estro non è certo quello di un tempo. Errato anche, a detta del sottoscritto, ricollegare quest’ultimo Big Eyes a Ed Wood solo perché gli sceneggiatori Scott Alexander e Larry Karaszewski sono i medesimi o perché si tratta di un ritorno di Burton al genere biografico, visto che la divertita, partecipe compassione, mista a un sincero senso di fratellanza artistica, che nutriva per quel personaggio è decisamente assente nel suo ultimo film, ben più anodino e privo di sussulti per ciò che riguarda l’identificazione di Burton con i suoi personaggi (un aspetto che da sempre fa la forza del suo cinema, fondato su un rapporto diretto e il più possibile non mediato tra il regista e i suoi alter ego). 
Occorre allora, in definitiva, prendere Big Eyes per quello che è: un film in cui Burton rinuncia a Burton, a ridosso (sarà un caso?) del recentissimo divorzio dalla compagna e musa Helena Bonham Carter, per concedere una boccata d’aria al suo cinema, facendo piazza pulita in maniera liberatoria, per una volta, del burtonismo e delle tinte visionarie e malinconiche. Burton in questo caso rivolge la mente addirittura ai colori più assolati dei primissimi esordi (Pee Wee’s Big Adventure), ritrova quasi la natia California, rimette mano alle villette a schiera di Edward mani di forbice e sintonizza le gradazioni cromatiche del film su tonalità zuccherose e pastello. Un riappropriarsi delle proprie origini che Burton sembra far proprio per ridare ossigeno a una carriera che l’ha visto ridursi ed essere ridotto all’ombra di se stesso. Una presa di posizione che non sempre lo ripaga, certo, perché non è questo il territorio a lui più congeniale, ma che perlomeno lo riabilita come artista (e come uomo, a un livello più intimo di ricerca personale), oltre a conferire un minimo margine di interesse a un cinema che negli ultimi tempi era apparso troppo mummificato. Meglio un Burton con qualcosa da dire, insomma, che un Burton che rifà se stesso all’infinito, limitandosi a strizzare l’occhio ai fan. L’arte, dopotutto, “deve elevare e non ammiccare”, come si dice nel film.
Attraverso la storia di Margaret Keane, autrice di quadri raffiguranti bambini dagli occhi giganteschi e infelici piuttosto noti e di successo negli anni ’60, e del marito Walter, che della paternità di quelle creazioni si impadronì spacciandole per proprie finché la moglie non decise di far emergere la verità, Burton, con una imperturbabilità stilistica derivante dal non dover pagare pegno alla propria estetica consueta (perfino le musiche di Danny Elfman sono stavolta più discrete del solito), ci regala un’insperata anche se non troppo innovativa riflessione sul rapporto tra arte e marketing, o per meglio dire sulle modalità con cui l’arte dialoga con le contingenze del mondo e fa i conti con la sua incontrovertibile subalternità a delle esigenze commerciali (anche qui, come in Inside Llewyn Davis dei Coen, altro film sul legame tra produzione artistica e pubblico, la fotografia di Bruno Delbonnel crea un’atmosfera di familiarità soffusa, pronta per essere tradita). 
Ma a dispetto delle apparenze, e di quanti vorranno tacciare il film di scarso burtonismo sostenendo le loro argomentazioni solo su basi estetiche, Margaret Keane è un altro freak nella personale galleria di Burton, una donna esile e remissiva costretta alla reclusione domestica e all’anonimato da un realtà imprenditoriale, portata avanti dal consorte, capace soltanto di declassare la sua sensibilità a mero prodotto di consumo. Facendo dei suoi ritratti cartoline di poco valore, che tutti vogliono possedere ma che non sono altro che riproduzioni scialbe degli originali, in linea con un’idea di arte per le masse che rende l’opera un feticcio da inseguire anche in modo meccanico ed effimero, esattamente come i quindici minuti di celebrità di warholiana memoria, oggetto del desiderio di chicchessia, anche di coloro che continuano a non essere disponibili ad ammetterlo (ed è proprio una frase dell’artista americano sulle opere della/dei Keane ad aprire il film, non a caso). Senza contare, a proposito di burtonismo non sbandierato ma sostanziale, che i colori sgargianti fungono da contrappunto a scene che sono tra le più tristi e sconfortate di tutto il film, a riprova di uno spirito dark che esce dalla porta e rientra dalla finestra, come testimoniano i primi piani lacrimosi di Amy Adams e l’ira espressionista di un comunque troppo caricaturale Christoph Waltz.
Ha ragione lo stesso Waltz, quando si esprime sul film in questi termini: “Una storia raccontata in modo diretto e abbastanza convenzionale, ma con ingredienti molto poco convenzionali e da un regista molto poco convenzionale”. Perché solo un regista smaccatamente off come Burton, da sempre un alieno rispetto all’industria pur avendo realizzato film di grande riscontro commerciale, poteva firmare una meditazione così limpida e tersa su cosa voglia dire essere un artista, vero o presunto tale, non evitando di mettersi in gioco direttamente, anche nell’accettazione serena e sorniona dei propri stessi limiti: perché quando il critico del New York Times interpretato da Terence Stamp tuona contro i lavori della Keane parlando di “an infinity of kitsch” è chiaro che Burton sta puntando il dito proprio contro se stesso, quasi sindacando le sue passioni più ombelicali ma anche artisticamente meno nobili. Una consapevolezza delle proprie debolezze degna della maturità, o di un regista che si è palesemente stancato di farsi rinchiudere sempre nelle stesse categorie, tanto da volersi mettere a nudo senza mediazione alcuna. 
A questo punto non resta che aspettare i prossimi sviluppi della sua filmografia, sperando che Big Eyes sia davvero la prima pagina di un nuovo, rigenerante inizio, in grado di produrre risultati anche superiori.

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Anno: 2014
Durata: 105’
Regia: Tim Burton
Interpreti: Amy Adams, Christoph Waltz, Krysten Ritter, Jason Schwartzman, Danny Huston, Terence Stamp, Jon Polito
Sceneggiatura: Scott Alexander, Larry Karaszewski 
Musiche: Danny Elfman 
Uscita italiana: 1 Gennaio 2014

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