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LO CHIAMAVANO JEEG ROBOT - Cine (non solo) comic

28/2/2016

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Giunto come una boccata d’aria fresca al Festival del Cinema di Roma, Lo chiamavano Jeeg Robot, esordio al lungometraggio di Gabriele Mainetti, trova consolidate le proprie traiettorie d’impatto e di fruizione anche alla prova revisionistica (per chi scrive) esperita all’uscita ufficiale nelle sale italiane. 
Muove da fili saldi e funzionali nella loro invisibilità, questo prodotto che si libera dei gioghi autoriali grondanti di rifrazioni italiane, e lo fa (nemmeno paradossalmente) accentuandone il background geografico culturale senza privarlo di dignità, affondandolo di testa nell’unico sostrato credibile e ipotizzabile ed emancipandolo dal cappio della verbosità isterica e posticcia a cui sembriamo assuefatti.  Lo fa, anzitutto, nell’uso delle programmatiche di genere, sporcando l’archetipo supereroico (e conseguente derivazione nel cinecomic) del tipico inchiostro bluastro metropolitano, ma ribaltandone gli effetti, spuri da echi stereotipati o che l’occhio già conosce. 
L’impressione di novità, di assoluto incastro neo-nato, eppure, è evidente, si traina da esperienze cinematografiche esistenti; ma Mainetti riesce in un’impresa di pura maestria tecnica e di sguardo che non dovrebbe risultare extra-ordinaria, perché la sua opera (sua e di Nicola Guaglianone, già sceneggiatore di Tiger Boy e Basette, nei quali s’intravedevano già passioni e visioni adulte) si rivela presto nella sua disincantata, precisa linearità. 
Cassa di risonanza, motore incontrollabile, ingenuo ed elementare scatto drammaturgico, nella sua forma più limpida e svuotata di costrutti mirabolanti, il sentimento, il risveglio fiabesco, monito e mentore. 
​
In una precisa triangolazione strutturale di personaggi, la cui linea prima si alterna e poi s’incrocia, Mainetti impianta in un sobborgo disastrato della periferia romana,  e ancor prima in una Roma dilaniata da attentati terroristici (eppure si potrebbe essere ovunque), le vicende delinquenziali, inghiottite nella mafia locale (e napoletana, occhieggiando a un certo tipo di adagiamento sul topos malavitoso), de “Lo Zingaro” e della sua combriccola, impegnata maldestramente in affari di droga; all’altro capo, in interessante simmetrica divergenza, Enzo, imbrigliato da sempre nelle trame appiccicaticce della para-criminalità, un bestione a tratti beota inariditosi per consunzione nel proprio sostrato di miseria (di mezzi e di affettività). 
​Ne risulta un disegno affascinante nella sua dicotomia folle, nella quale l’antagonismo si colora di deliri d’onnipotenza, con Luca Marinelli (già apprezzatissimo in Non essere cattivo) impegnato a credersi e volersi vedere divinità in paillettes, invidiando lo stato potenziato che Claudio Santamaria accoglie nella propria narcolessia cerebrale, per forza eroe che eroe (e uomo) non si vuole vedere. A scuotere quest’ultimo dalla propria terminale decadenza, Ilenia Pastorelli, cometa impiastricciata di vitalità naif come poco capita di incontrare, principessa in rosa tutt’altro che spuria di graffi, rifugiatasi ella stessa in un mondo salvo da passività e repulsione sociale (quello di Jeeg Robot d’acciaio) ove è ancora possibile l’Azione pura, lavata da un ragionamento sensibile a dinamiche distorte e di semplice “reazione”. 
Alessia trasla l’universo filmico dell’anime attraverso il culto, ne fa strumento, e tutto come fosse generato da una sua allucinazione; incorona Enzo sovra-impressionandolo nell’animazione a tinte chiassose, luce cinematografica in un appartamento-carcere simbolo di una segregazione esistenziale mai contrastata, mai opzionale. 
​
Eppure, Lo chiamavano Jeeg Robot allestisce un impianto discorsivo che esula (ma sempre imprescindibilmente di esso s’infonde) da una conscia struttura di contenuto, e ancor muovendo da un sentimentalismo disfunzionale che mai s’imbelletta; tutt’altro. Diventa visione disancorata dai suoi riferimenti, verosimile e insieme sospesa, applaudita da un flusso ironico mai sbadato, furbo o pedante, dissanguata nella pece urbana crepuscolare, arsa da un orizzonte dinamico, ritmico, a piena tenuta. Si bea di tre figure cardinali ampiamente contestualizzate, umanizzate, mai marionette, le cui parole, finalmente, riescono a non risultare retoriche e dimostrative; ma da questi parte e s’allontana, per tracciare una forma indipendente che dei propri dettagli fa simbiosi, dalla cui cabina di regia si dipana un’intenzionalità (e una concretizzazione) sicura, raggiante di volontà d’empatia onnicomprensiva, virtuosa nel suo compimento stilistico ma salvandosi da vezzi autoriali, virgolettature, divertissement della mano senza arte né parte. 
Nessuna castrante sbavatura, solo potenziali migliorie. Persino i referenti orientali nell’uso stilizzato e gratuito della violenza, con teste scannate al ciglio della strada, mignoli violacei riassemblati con lo scotch, una yakuza burina disorganizzata, i cui fili lerci vengono tenuti in piedi da un magnetizzante leader tamarro, paiono espurgare la loro eredità per farsi brillanti umanità nuove e non parodiche. Non solo: Lo chiamavano Jeeg Robot, alto nel suo farsi invidiabile diluizione di generi, pianta il seme (o meglio, il germe) di una saga, quella del primo atto di un uomo distrutto che infuso di superpoteri (emozionali) decide, finalmente, di vivere. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Gabriele Mainetti
Sceneggiatura: Nicola Guaglianone, Menotti
Fotografia: Michele D’Attanasio
Anno: 2015
Durata: 118’
Intepreti: Claudio Santamaria, Luca Marinelli, Ilenia Pastorelli, Stefano Ambrogi
Uscita italiana: 25 febbraio 2016

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ROOM - Schizofrenia della (a)normalità

12/2/2016

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​Joy, detta Ma' (Brie Larson) ha ventisei anni, e da nove vive prigioniera in una stanza. Un’adolescente rapita e abusata è diventata adulta in uno stato di terrore, abbandono e cattività, vittima casuale dell’abiezione umana. Con Ma' anche il piccolo Jack (Jacob Tremblay), figlio della violenza e, al contempo, porta sulla speranza. Una cosa che solo un bambino può offrire.
In quella stanza, nel buco senza finestre che rappresenta per entrambi il solo contesto di vita, la sola esistenza possibile, Ma' e Jack hanno costruito il rapporto madre-figlio, una dinamica psicologica sottile di interdipendenza reciproca, un tragico gioco di sopravvivenza in bilico tra orrore e purezza, disperazione e magia, onirico e reale.
La scoperta del mondo esterno è la rincorsa più difficile verso la vita. Vittime di un tempo spezzato che si è inciso sui volti, madre e figlio dovranno confrontarsi con l’esistere nuovamente nel mondo, ricucire lo strappo dell’abbandono, tessere ancora (o per la prima volta) la socialità, (ri)definire il proprio corpo e il proprio essere dentro l’ignoto. Là fuori, l’universo si è inesorabilmente schiantato contro le mura insonorizzate e sorde della prigione. Là fuori, il ricordo idealizzato della famiglia perfetta si sgretola all’impatto con la realtà. 
Il regista Lenny Abrahamson (Frank) è molto abile nella costruzione e gestione di uno spazio claustrofobico che cattura prima le tensioni emotive e psicologiche, piuttosto che quelle della narrazione per immagini. Room si configura, almeno nella prima parte, come un dramma teatrale ambientato in unica stanza, basato sul dialogo e due personaggi principali in costante interazione, protagonisti assoluti di ogni singola scena. Brie Larson e Jacob Tremblay occupano letteralmente lo spazio del film, creando una tensione sottile e costante che si snoda lungo il sentiero della violenza, della condivisione, della interdipendenza. Ma' e Jack sono vasi comunicanti nel film come gli attori lo sono del film. 
Brie Larson, che negli ultimi si è ritagliata uno spazio interessante all’interno del circuito cinematografico indipendente grazie a opere come The Spectacular Now, Rampart e Short Term 12 (per il quale ricevette una standing ovation a Locarno), coglie qui l’occasione di mettere in luce il proprio talento drammatico e conquistare i voti dell’Academy, in una stagione peraltro non esaltante per le attrici e poco competitiva per la corsa all’Oscar. Non che la Larson non meriti, anzi, ma perché il cinema indie possa far sentire la propria voce tra i giganti della produzione americana serve un film intenso e sincero (spesso fino alla brutalità), con una protagonista devota, complicata e appassionata nell’accentrare verso di sé l’occhio della camera e il cuore dello spettatore. La Larson fa tutto questo, e lo fa splendidamente.
Come il protagonista di Frank, anche Ma' è costretta al distacco familiare, trascinata via dall’esistenza che avrebbe potuto e dovuto avere e obbligata alla reclusione, a diventare genitore di se stessa, e poi madre di un’altra creatura. E se il personaggio di Ma' è forse più risolto in termini di evoluzione, è il piccolo Jack a catalizzare l’attenzione su di sé. Disegnato dalla sceneggiatrice in modo volutamente ambiguo, Jack è facilmente identificabile come l’alter ego di Ma', come una sua proiezione, come il bambino (o la bambina) che giace ancora dentro di lei. Fuori da lei. Nella relazione viscerale tra Ma' e Jack risiede una grande lezione pedagogica: il valore del sogno e dell’immaginazione per una mente innocente, creativa e creatrice di armonia. Madre e figlio, uniti da un cordone ombelicale che consente loro di sopravvivere nella simbiosi e di salvarsi a vicenda. 
Lenny Abrahamson continua nella sua esplorazione del rapporto tra umanità e (a)socialità. Se con Frank aveva raccontato – in leggerezza – la difficoltà di un gruppo di affacciarsi sul mondo, con Room riconduce il suo campo di analisi alla prospettiva individuale. La chiave di lettura è ovviamente diversa e drammatica, ma lo sguardo del regista non cambia. Cosa accade al nostro universo privato quando ogni certezza che credevamo di avere è messa in discussione? Quando le false sicurezze si rivelano inesistenti, e il dramma dell’abbandono ci trafigge? Che si tratti di innocenza strappata, oppure mai avuta, della ricerca di una routine impossibile dentro e fuori gli schemi schizofrenici della anormalità, che si tratti di amore filiale, materno, o di amore malato creatore e distruttore, in Room generazioni diverse di esseri umani si confrontano con il possesso e la perdita, personaggi consapevoli di una grande tragedia privatissima eppure collettiva.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Lenny Abrahamson
Sceneggiatura: Emma Donaghue, basato sul suo romanzo omonimo
Interpreti: Brie Larson, Jacob Tremblay, Joan Allen, William H. Macy
Anno: 2015
Durata: 117'
Uscita italiana: 3 marzo 2016

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THE HATEFUL EIGHT - La lettera di Lincoln

6/2/2016

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Per una volta, partiamo dalla fine (con buona pace dei fanatici dello spoiler, messi in guardia sin da ora). Partiamo cioè da quella lettera di Lincoln, ricoperta di sangue e sputi, letta davanti a un cadavere impiccato - ma già mostrata più volte nel corso del film - in attesa che sopraggiunga la propria morte per dissanguamento.
​Un falso storico riconosciuto come tale, vero e proprio punto di riferimento per molti dei personaggi di The Hateful Eight; una menzogna architettata a tavolino per mitigare e condizionare le relazioni interpersonali, piegando così il susseguirsi della diegesi grazie a un espediente di pura finzione. 
Messinscena, sceneggiatura, artificio. Non stupisce più di tanto che, limitatamente a questo aspetto, il riferimento più immediato sia quello con Lincoln di Steven Spielberg, altro grande film sulla e con la parola, altro grande film che rifiuta gli spazi aperti per chiudersi dentro le stanze. Ma soprattutto, altro grande film sull’inganno e il sotterfugio come basi fondanti dei principi di libertà, eguaglianza e democrazia. 
​
La verità nasce dalla bugia, la libertà dalla violenza. Dopo Grindhouse - A prova di morte e Bastardi senza gloria, Quentin Tarantino prosegue la sua opera di riscrittura della Storia attraverso il cinema, questa volta non modificandone esplicitamente gli esiti, ma (ri)partendo dalle origini e dal Mito – il western, da John Ford e Howard Hawks. Ripartendo anche da se stesso, da quell’esordio con Le iene (da cui anche la presenza di Tim Roth e Michael Madsen in ruoli speculari a quelli interpretati nel 1992) qui rivisto e ampliato, deformato, ingigantito e radicalizzato. 
Un’operazione che nasce da Django Unchained, che aveva segnato una sorta di ripiegamento delle ambizioni a favore di una dimensione più superficiale e spensierata, ma dal quale ne prende le distanze; se non negli intenti almeno nelle conseguenze, poiché qui la posta in gioco viene alzata a dismisura portando alle estreme conseguenze il patto con lo spettatore: quasi tre ore di dialoghi serratissimi (qualcosa in più nella versione in 70mm), all’insegna della pressoché totale unità di luogo e senza nessun personaggio positivo con il quale potersi identificare. 
​
Il risultato è il film più radicale mai realizzato dal suo autore, ma anche quello più scopertamente politico: The Hateful Eight è innanzitutto la rappresentazione di un Paese chiuso in se stesso e vittima del proprio passato, incapace di sanare i conflitti interni generati dall’odio, dal razzismo e dalla sete di potere, sullo sfondo della guerra di secessione appena conclusasi. Otto personaggi per altrettanti caratteri: mentre dentro si consuma lentamente il progredire di una tragedia annunciata, fuori il mondo è una distesa ghiacciata senza alcuna forma di vita, un fuoricampo assoluto che esiste solamente in virtù dell’immaginario al quale fa riferimento. Un nulla nel quale non trovano posto nemmeno le comparse, totalmente assenti nel film perché anche i personaggi secondari hanno comunque un ruolo e un nome tali da garantire loro un’identità. 
È in questo contesto che allora il western si contamina con il giallo classico e il cinema da camera deraglia nello splatter: se è vero, come hanno già detto e scritto in molti, che i principali punti di riferimento siano da identificare in La cosa di John Carpenter (fosse anche solamente per il personaggio di Jennifer Jason Leigh: vedere per credere) e in Agatha Christie, allo stesso tempo il film rifiuta il citazionismo più immediato come mai era accaduto finora con Tarantino. Forse solamente come in Bastardi senza gloria, ma qui ancora in maniera più netta, il modello non è più (solamente) un film, un autore o un genere ma il cinema tutto, visto come vera e propria forza centripeta in grado di dare vita all’universo stesso. O almeno, a questo universo. 
​
Si comincia con il primo piano di un Cristo di legno sfregiato dalla neve per poi andare oltre, grazie a un campo lungo profondissimo che, immediatamente, si trasforma in Cinema. Perchè The Hateful Eight è anche e soprattutto un film sul Cinema, e non potrebbe essere altrimenti; un film sui luoghi del Cinema attraverso i quali rifondare uno sguardo e una visione del mondo. Come la diligenza, altro richiamo incredibilmente Fordiano sul quale Tarantino si sofferma a dismisura, spazio ristretto che per contrasto ha sempre raccontato il western e i suoi orizzonti sconfinati; perché per mettere in scena l’infinitamente grande ci si rinchiude sempre nell’infinitamente piccolo, e questa è una delle grandi eredità del classico. 
Infine, naturalmente, l’Ultra Panavision 70 mm utilizzato per filmare gli interni e i volti, gli occhi e il sangue, come il cinemascope costretto e soffocato nei corridoi di La valle dell’Eden di Elia Kazan. Un atto di fede totale e incondizionato nei confronti del proprio lavoro, meravigliosa menzogna a 24 fotogrammi al secondo attraverso la quale è possibile afferrare la verità delle cose. Come quella lettera di Lincoln, un’ultima sospensione dell’incredulità prima che sopraggiunga il buio.

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: The Hateful Eight
Regia: Quentin Tarantino
Sceneggiatura: Quentin Tarantino
Attori: Kurt Russell, Samuel L. Jackson, Jennifer Jason Leigh, Bruce Dern, Tim Roth, Michael Madsen, Channing Tatum
Anno: 2015
Durata: 187’ (70mm), 167’ (DCP)
Fotografia: Robert Richardson
Musica: Ennio Morricone
Uscita italiana: 4 febbraio 2016 

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