Maya Forbes ha alle spalle una quindicina di anni di attività come sceneggiatrice a Hollywood per lavori dispari e certamente lontani dall’atmosfera indie (The Rocker, Monsters vs. Aliens), ma la mano artigiana si evince facilmente, perché la storia si dipana con l’attenta naturalezza di chi sa che i personaggi hanno bisogno di evolversi e che non sempre lo devono fare in modalità esasperata; eppure, in questa vicenda dichiaratamente autobiografica che prende scena nella Boston del 1978, si intravede lo spessore di un potenziale dramma, dove però tutto permane in bilico tra apparato comico e sottotesto tragico, lasciando essenzialmente sole licenze al primo.
Cam Stuart è un uomo che è costretto ad allontanarsi dalla famiglia per curare le proprie patologie mentali in un centro di riabilitazione, lasciando la moglie Maggie e le figlie Amelia e Faith in una situazione economica rovinosa. Nonostante la consapevolezza del suo deficit, e con una buona dose di ingenuità, egli si fa carico della loro educazione, mentre la madre è a New York per il conseguimento di un master che potrebbe salvarli dal lastrico. La storia è quella dell’intimità familiare che deve far fronte a mancanza di denaro e di stabilità, ma ancor più quella di un padre estremamente affettuoso (e proporzionalmente caotico) che troverà il modo per condurre un’esistenza semi-responsabile e intessere mirabilmente – e imperfettamente, come ogni genitore - i propri rapporti con le figlie.
È l’exemplum dell’arte come forma terapeutica, il film della Forbes, perché questo breve e asciutto lavoro non è altro che un atto d’amore, celebrazione e ringraziamento per un padre (il suo) affetto da disturbi bipolari e maniaco-depressivi, vero centro nevralgico del film, un polo scisso in due che richiama a sé una moglie (che non può viverci assieme, ma che non riesce a farne a meno) e le due figlie (che lo bacchettano e idolatrano in egual misura, e con il bellissimo passaggio di testimone tra regista e figlia, Imogene Wolodarsky, che come uno specchio biologico riflette l’occhio infantile della madre, interpretando la Forbes da bambina). E come nelle rielaborazioni nostalgiche della memoria che distorce il passato, esautorandolo dei downs e rafforzandone gli ups, la Forbes distilla in maniera concisa, senza sbavature di sviluppo, una vivida fotografia della propria storia personale, scegliendo di fare di una famiglia disfunzionale e di un padre a briglie sciolte un inno alla vita, piuttosto che una abusata formula commovente in riferimento al binomio umano/malattia.
In effetti, di tematiche affrontate ve ne sono molteplici (e tutte severamente dolciastre e non stucchevoli): le relazioni interpersonali, il rapporto genitori/figli, la speranza per un futuro migliore che è movente dello studio e dell’applicarsi materno, la mancanza di denaro tale da costringere Cam Stuart (Mark Ruffalo) a comprare una macchina usata con un buco tra i sedili posteriori, la necessità del lavoro come trampolino per l’iscrizione delle figlie a una scuola privata; così i micro testi si sovraffollano in questa modesta opera d’esordio, senza che questi vadano a strutturarsi in una scala gerarchica o fungere da scivolo per un dissotterramento su versanti psicologici o introspettivi.
Tutt’altro: Infinitely Polar Bear è un film in contro luce, garbatamente saturo di colori e intiepidito dagli inserti simil – home movies, talvolta fin troppo indolore, che ha il sempre lodevole pregio di non imbattersi in spinte ambiziose o in tentennamenti formali, ove la tristezza di un padre incatenato ai propri mostri personali funge sempre da valvola per un eruttabile sorriso, e mai per una risata sguaiata, o ancor meno per l’infilarsi di un sottile pietismo. “A walk down the memory lane”, si direbbe, con la Forbes che quasi teme di dilatarsi, di sbavare – anche l’isolato uso del ralenti in una breve sequenza pare inutile orpello e, tuttavia, frutto di una mano timorosa – nel processo di trasposizione delle sue vicende private, con non poche concessioni alla freakness.
Zoe Saldana (Avatar, The Terminal) è, certo, perfetto esempio di forza femminile e di risoluta indipendenza in circostanze disperate, ma il vero “miracolo” del film, e ci piace sottolinearlo, forza motrice, istrionico accentratore, è Mark Ruffalo, che tutta la carriera ha improntato a metà tra superproduzioni e cinema indie, spesso e ingiustamente relegato a ruoli secondari (seppur apprezzabilissimi), sempre nella parte, sempre mobile. Qui si converge in lui l’attenzione totale dell’occhio e dell’interesse spettatoriale, tra l’impercettibile microespressività e un’innegabile propensione al comico: impegnato a sventrare biciclette, ricostruire macchine con teglie da forno, tessere gonne a balze, cucinare frittelle e allo stesso tempo scolarsi lattine di birra, fumare come un dannato, scapestrato nel portare a termine indenne una giornata di lavoro casalingo e di educatore paterno. Fautore della freakness, dunque, a lasciare le figlie sole nel cuore della notte e ad ammorbare vicine di casa per un’insolita insistenza e operosità, Ruffalo splende, e splende soprattutto in quell’ultimo primo piano autunnale, di sguardo assorto nella contemplazione orgogliosa e triste di poter (e dover) lasciare camminare le proprie figlie verso un pomeriggio – che è già futuro, è già abbandono – senza la sua compagnia.
Il film della Forbes vede nella radicalizzazione della semplicità (della forma e dei contenuti) il suo pregio e al contempo il suo difetto: la riduzione a minimi termini premia la ricezione, la scorrevolezza, la comunicazione di un messaggio limpido e talvolta stilizzato, ma sollecita anche una certa questione, quella per cui, sicuramente, c’è molto di più di (e in) questo film: di potenziale e di possibile.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: Infinitely Polar Bear
Regia: Maya Forbes
Sceneggiatura: Maya Forbes
Attori: Mark Ruffalo, Zoe Saldana, Imogene Wolodarsky, Ashley Aufderheide
Anno: 2014
Durata: 88'
Fotografia: Bobby Bukowski
Musica: Theodore Shapiro
Uscita italiana: 18 giugno 2015
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