Strade di Teheran. Un taxi. Individui che salgono e scendono dalla vettura. Tragitti più o meno brevi. Piccoli gesti, piccole storie, piccoli viaggi racchiusi nei volti che si susseguono davanti all'occhio indiscreto della microcamera di un telefonino posizionato sul cruscotto dell'automobile. Alla guida Jafar Panahi, “travestito” da tassista con lo scopo di raccogliere testimonianze, indizi, suggestioni che possano spiegare al mondo le mille contraddizioni della società iraniana contemporanea.
Alcuni passeggeri si accorgono del trucco e riconoscono Panahi. Altri no. Tutto si svolge in un'onda di realismo che va a braccetto con gli artifici della finzione. Gli individui che transitano nel taxi sono infatti attori non professionisti che si rifugiano nell'anonimato per evitare persecuzioni, tanto che il film non ha né titoli di testa né titoli di coda.
Non ci sono nomi, al di fuori di quello di Panahi; il vero e il non vero si fondono con spiccata originalità, dando vita a un accavallamento di mini-universi capaci di mostrare ciò che tutti i giorni accade lungo le vie di Teheran, una prigione a cielo aperto dove le autorità vigilano e sorvegliano tutto e tutti, affinché nessuno possa vedere le storture che loro stessi hanno creato.
Jafar alla guida, frammenti di Iran accanto a lui: un ragazzo che vorrebbe far impiccare ladruncoli responsabili del furto di quattro gomme d'auto; due signore anziane e superstiziose con due pesci da sostituire entro mezzogiorno; un venditore di Dvd illegali grazie ai quali tanti appassionati si possono procurare film altrimenti invisibili in quanto vietati dalla censura; un uomo che dopo un incidente, temendo di morire, fa il suo testamento in diretta facendosi riprendere da un telefonino; un altro uomo aggredito e rapinato che non se la sente di condannare i suoi aguzzini; una bimba ciarliera (la vera nipote del regista) che studia cinema e nonostante la tenera età è già costretta a imparare regole astruse e subire restrizioni di ogni tipo; un'avvocatessa che porta fiori alle famiglie di donne rinchiuse in carcere per motivi futili e insulsi. Dietro e davanti e dietro a tutto ciò, il cinema, da fare e completare e inseguire, nonostante tutto, con qualsiasi mezzo, affinché l'amore per l'arte e il desiderio di verità possano essere più forti di qualsiasi impedimento.
Taxi Teheran, premiato con l'Orso d'Oro a Berlino, è l'ennesimo atto di coraggio di un autore che, dopo un paio di arresti, nel 2010 è stato condannato a sei anni di reclusione e alla pena di non poter più girare film, scrivere sceneggiature, rilasciare interviste e uscire dal paese per almeno vent'anni. Una sentenza agghiacciante, che da allora Panahi continua ad aggirare realizzando film in completa clandestinità. Quest'ultima opera, costruita con l'ausilio di tecnologie moderne e funzionali, illustra come in fondo basti poco per dare voce e immagine a ciò che altri tentano in ogni modo di nascondere. Non è nemmeno più necessario avere con sé una macchina da presa; sono sufficienti una microscopica telecamera in un telefonino, qualche idea e la voglia di superare gli scogli dell'ottusità. Con questi semplici mezzi si possono svelare al mondo i segreti che si annidano nel via vai quotidiano di una capitale raggomitolata su se stessa e di una nazione che tenta di prosciugare ogni istinto di ribellione. Senza riuscirci.
Taxi Teheran è uno spaccato di metacinema di rara efficacia; un bel modo di ripensare le convenzioni della grammatica filmica; uno straordinario esempio di cinema militante. Ma è anche un lavoro molto più raffinato di quanto si potrebbe pensare, grazie a una “messinscena” che dosa con perfetto equilibrio dramma sociale, rappresentazione documentaristica, gustosa ironia e sano divertimento, intavolando un meccanismo narrativo che colpisce nel segno, inquieta, lascia basiti ma sa anche strappare genuine risate, indispensabili per respirare aria pura e, almeno per qualche attimo, trovare conforto dalla mefitica cappa di paura che ricopre il territorio in oggetto.
Per tutti questi motivi il film è un gioiello prezioso, meritevole di essere visto e rivisto ovunque. Iran compreso, ovviamente, magari grazie agli stessi venditori che importano sottobanco i lavori di Woody Allen, Nuri Bilge Ceylan e Kim Ki-duk, dando fiato alla medesima speranza che, nonostante il finale beffardo, si libra dagli occhi ingenui di una bambina incapace di comprendere ciò che la circonda, o da una rosa rossa appoggiata dolcemente sul cruscotto di un'automobile guidata da un esponente della “gente del cinema, su cui si può sempre contare”.
La splendida creazione di Panahi arriva in Italia grazie a una nuova casa di distribuzione, chiamata semplicemente Cinema, diretta da Valerio De Paolis (già fondatore della BIM) e improntata verso l'autorialità e la qualità. Alle anteprime, in diverse città, Taxi Teheran ha ottenuto un responso superiore a ogni attesa, con sale piene e code agli ingressi. Un bellissimo risultato che fa un gran bene, dimostrando come il pubblico non sia ancora del tutto lobotomizzato dai blockbuster americani copia/incolla e dalle svilenti e ripugnanti commedie nostrane.
La situazione resta a dir poco complessa, la strada è lunga, ma qualche raggio di luce con cui combattere il buio della ragione ancora esiste. Eppur si muove.
Alessio Gradogna
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Regia e sceneggiatura: Jafar Panahi
Anno: 2015
Durata: 82'
Attori: anonimi
Uscita italiana: 27 agosto 2015