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AUSTERLITZ - La crisi della memoria

25/1/2017

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​In occasione del Giorno della Memoria, il 27 gennaio, esce nei cinema l’ultimo film di Sergei Loznitsa: Austerlitz, un racconto riflessione sul turismo di massa nei campi di concentramento con la distribuzione di Lab80.
​Presentato in concorso all’ultimo Toronto Film Festival e fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, il film propone un’osservazione dei visitatori dell’ex campo di concentramento di Sachsenhausen attraverso uno straordinario documentario sulla memoria e sulla persistenza, sulla fruizione individuale e collettiva di un luogo di morte e di dolore. Loznista, durante una calda giornata estiva, piazza una telecamera ad altezza d’uomo e registra: il percorso turistico che le persone seguono per visitare il campo è lo stesso che facevano i prigionieri un tempo. Qualcuno passeggia tra i viali delimitati dai dormitori, e altri scattano in continuazione selfie all’interno dei forni crematori; altri ancora consumano il pranzo al sacco sul lastricato della strada delle fosse comuni. Con questo film il regista pone una vera e propria riflessione sul senso della testimonianza e della memoria della Shoah. 

<< L’idea di fare questo film mi è venuta perché visitando questi luoghi ho sentito subito una sensazione sgradevole nel mio essere lì. Sentivo come se la mia stessa presenza fosse eticamente discutibile e avrei voluto davvero capire, attraverso il volto delle persone, degli altri visitatori, come ciò che guardavano si riflettesse sul loro stato d’animo. Ma non nascondo di esserne  rimasto, alla fine, abbastanza perplesso. Ciò che induce migliaia di persone a trascorrere i fine settimana estivi in un ex campo di concentramento è uno dei misteri di questi luoghi della Memoria. Si può fare riferimento alla buona volontà, al desiderio di compassione e pietà che Aristotele collega con la tragedia. Ma questa spiegazione non risolve il mistero. Perché una coppia di innamorati o una madre con il suo bambino vanno a fare visita ai forni crematori in una giornata di sole estivo? Ho concepito questo film per cercare di confrontarmi con queste domande >>.

Il titolo del film si riferisce al romanzo omonimo scritto da W. G. Sebald, dedicato alla memoria della Shoah. Loznitsa si affida alla profondità dello sguardo del protagonista, Jacques Austerlitz, professore di architettura che svela attraverso i luoghi la dolorosa Memoria di quel terribile periodo.
​
Austerlitz diventa un itinerario di ricerca assolutamente angosciante e tragico dove il cinema rigoroso e umanista del regista ucraino sceglie di rendere invisibile la propria presenza, di non pedinare le persone ma di immergersi insieme a loro. Il regista guarda con una giusta distanza e si avvicina man mano mostrandoci il rapporto della storia con il presente. Il campo di concentramento di Sachsenhausen sembra aver perso tragicamente la sua identità trasformandosi in un luogo di attrazione turistica. Sembra addirittura non far parte più di questo presente, non c’è nessuna interazione con i turisti, il bianco e nero utilizzato per indicare una memoria sbiadita è completamente discordante con quella presente, non ci sono prigionieri condannati a morte e non vi è traccia di nessun dolore, solo echi lontani, proveniente dalle descrizioni delle guide. 

Siamo travolti da persone indifferenti che cercano di trovare le tracce di qualcosa, ma senza nessuna possibilità di ricostruire il passato. L’atmosfera è gelida e ci ritroviamo a osservare attentamente questi personaggi svogliati, distratti, che si trascinano con in mano il loro cellulare e le loro macchine digitali, per tutto il campo. L’unico modo di tenersi occupati e di farsi coinvolgere e fare uno scatto e riprendere quello che stanno vedendo. Non c’è nessuna possibilità di connessione emotiva o empatica con il passato. Si rimane esterrefatti mentre si osservano i turisti che si scattano selfie posando con un sorriso all’ingresso del campo, di fronte alla scritta “Arbeit macht frei”. 
E’ palese che le persone non pensano e non riescono a capire dove sono. Il turista risulta cieco e l’architettura è l’unico soggetto che rimane sempre a fuoco in ogni scena, mantenendo una sorta di dignità. Le persone sono un elemento secondario. Se si prende come riferimento la persona, al centro dell’inquadratura la composizione potrebbe venir intesa come "sbagliata". L’individuo non è mai l’oggetto principale. A volte le persone sono tagliate a metà fuori dall’inquadratura, a volte sono lontane dal centro. 
Per aumentare la resa, l'autore ha effettuato un lavoro sopraffino per il suono: tre mesi di lavoro sull’audio, registrazione dei suoni sul set, dopodiché il sound design, con foley e altri. E’ interessante osservare come il suono cambi la nostra attenzione. Il regista e i suoi collaboratori hanno raccolto migliaia di clic ossessivi e incessanti, ricavati da ogni tipo di fotocamere o marchio. Hanno scelto i migliori e li hanno arrangiati come in una specie di composizione musicale.
 
<< Ho girato Austerlitz perché la tematica mi toccava molto da vicino. Quando ci sono andato (per la prima volta), ero sorpreso e non sapevo se mi era permesso stare lì, eticamente . Mi sono chiesto se era un luogo da osservare da un punto di vista morale: mi sono detto “Perché no”? >>

Ecco allora che la nostra attenzione si focalizza sui dettagli monumentali che il Tempo ha conservato e che la Memoria dovrà preservare, e sui dettagli umani, sulle parole dei visitatori, sui rumori dei gruppi organizzati, sui gesti: le voci delle guide, i cartelli insistentemente fotografati, i forni crematori, le stanze buie, soffocanti e claustrofobiche, le docce, i panini e le bibite, i luoghi delle torture, le code per entrare, i selfie, le t-shirt fuori luogo, le risate. 
Austerlitz è un documentario che ci invita costantemente a sensibilizzare il nostro sguardo: guardare, osservare e assimilare la memoria aprendo un nostro archivio segreto, per riportare alla luce informazioni preziose che la trascuratezza o, peggio ancora, la volontà di dimenticare possono occultare. Un potente strumento per capire e per rispondere alle sollecitazioni del presente. Ma forse la Shoah è stata a tal punto mostruosa da risultare incomprensibile con le comuni capacità della mente umana. L’inadeguatezza e la spensieratezza del loro muoversi sono elementi che saltano all’occhio vividi sin dalla prima inquadratura, in una dinamica di crescente evidenza che il regista non cerca ma che, piuttosto, si rivela da sola attraverso l’estremo e dirompente realismo del flusso di immagini catturate.
Dopo il poderoso Shoah di Claude Lanzmann, Loznitsa sottolinea l’importanza dell’osservazione, realizzando un’opera che pone una nuova e necessaria riflessione sul senso e il valore della Memoria. Austerlitz ci invita a riflettere affinché la dignità della memoria storica non venga sopraffatta, irrimediabilmente, dal sonno della ragione, ricordandoci che conservare il valore dell’atto di ricordare non è solo un gesto morale dovuto, ma un continuo richiamo al senso del rispetto e della responsabilità da parte di tutti, perché un’umanità cieca e senza memoria è un’umanità destinata alla perdizione.

“Voi che vivete sicuri 
Nelle vostre tiepide case, 
voi che trovate tornando a sera 
Il cibo caldo e visi amici: 
Considerate se questo è un uomo 
Che lavora nel fango 
Che non conosce pace 
Che lotta per un pezzo di pane 
Che muore per un sì o per un no. 
Considerate se questa è una donna, 
Senza capelli e senza nome 
Senza più forza di ricordare 
Vuoti gli occhi e freddo il grembo 
Come una rana d’inverno. 
Meditate che questo è stato: 
Vi comando queste parole. 
Scolpitele nel vostro cuore 
Stando in casa andando per via, 
Coricandovi alzandovi; 
Ripetetele ai vostri figli. 
O vi si sfaccia la casa, 
La malattia vi impedisca, 
I vostri nati torcano il viso da voi
”.

(Se questo è un uomo, Primo Levi)

Erica Francesca Bruni

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo: Austerlitz
Regia e Sceneggiatura: Sergei Loznitsa
Attori: --
Durata: 93'
Fotografia: Sergei Loznitsa, Jesse Mazuch
Musica: Vladimir Golovnitski
Anno: 2016
Uscita al cinema: 25 gennaio 2017

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ALLIED - Un’ombra nascosta - Verità e finzione

14/1/2017

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​“Faccio in modo che le emozioni siano autentiche”

A un anno di distanza dal flop commerciale di The Walk, incentrato sull’incredibile traversata delle Torri Gemelle compiuta su un cavo d’acciaio dal funambolo francese Philippe Petit nel 1974, Robert Zemeckis torna a far parlare di sé con un nuovo lungometraggio poco compreso – o meglio frainteso – dalla stampa americana, decisamente più interessata al gossip legato all’eventuale e ipotetico flirt tra Marion Cotillard e Brad Pitt, che avrebbe poi (sempre secondo i rumors) sancito la fine del matrimonio di quest’ultimo con Angelina Jolie.
Marocco, 1942, seconda guerra mondiale. Il comandante d’aviazione franco-canadese Max Vatan arriva a Casablanca per incontrarsi con Marianne Beausejour, combattente della Resistenza Francese. I due ancora non si conoscono, sono agenti segreti sotto copertura che devono fingere di essere marito e moglie per portare a termine una missione rischiosissima. Durante l’operazione, terminata con successo, s’innamorano l’un l’altra e qualche tempo dopo si sposano a Londra. Un giorno Max viene convocato dai servizi segreti, da cui riceve delle informazioni che potrebbero far crollare la sua vita familiare. 
​
È chiaro ed evidente fin da subito, a partire dal meraviglioso incipit in cui vediamo Brad Pitt paracadutato su un soffice e vasto deserto rosa, che Zemeckis nell’approcciarsi a una spy story ambientata durante la seconda guerra mondiale non è interessato al realismo e alla verosimiglianza storica, ma alla creazione di un mondo volutamente posticcio e artefatto. Da qui in poi tutto quanto, compresi i costumi e la resa scenografica, evidenzia e sottolinea la messa in scena da parte di Zemeckis di un universo fatto di finzione, inganni, bugie e tradimenti, che rende omaggio a classici della vecchia Hollywood come Casablanca di Michael Curtiz e Notorious di Alfred Hitchcock ma al contempo si autocita con espliciti rimandi a Le verità nascoste, dove erano già presenti sostanziosi riferimenti al cinema del maestro della suspense. 
La trama giallo/spionistica è un puro pretesto per dare vita a un mélo postmoderno intriso di un romanticismo enigmatico e ambiguo dove la tensione e la suspense, di stampo hitchcockiano, crescono e aumentano col dipanarsi della storia fino ad arrivare alla resa dei conti tra i due protagonisti, col disvelamento delle menzogne e il venire meno dei ruoli da interpretare e delle maschere da indossare. Cosa rimane dunque alla fine? Cosa emerge in mezzo a tanta, sbandierata, finzione? Restano le emozioni e i sentimenti, ciò che ci rende umani e ci fa battere il cuore. 
L’umanesimo di Zemeckis è tutto qui, nel suo interesse primario, ovvero nel farci capire se Marianne sia o meno innamorata di Max. Tutto il resto non conta, finisce in secondo piano (compresa la vera identità della donna) di fronte all’importanza e alla centralità dei sentimenti. È qui che deve nascere l’autentico coinvolgimento del pubblico, che in primis s’interessa e si appassiona alla trama spionistica per poi essere rapito e risucchiato dal pathos sprigionato dalla componente romantico/sentimentale, che è il vero cuore pulsante del film. 

​In una Londra martoriata dai bombardamenti tedeschi Max vede crollare anche il suo mondo, la sua famiglia, i suoi affetti più cari. Emblematica e magistrale in tal senso la lunga e tesa sequenza della festa organizzata da Marianne, con la macchina da presa che si sposta incessante da un ambiente all’altro per seguire i due protagonisti, impegnati in un ansiogeno gioco di sguardi da cui emerge e traspare il dubbio e il sospetto. Max, attonito e straniato in mezzo a persone festanti impegnate in flirt, musiche e danze, non riesce più a fingere e a dissimulare difronte agli sguardi intensi e penetranti della moglie che lo percepisce e lo sente diverso, cambiato nei suoi confronti. Al crollo e allo spaesamento emotivo dell’uomo segue – con metafora dichiarata ed esibita – l’ennesimo bombardamento nel cielo notturno londinese che pone fine alla festa. 
A terrorizzare nel profondo Max non è tanto che la moglie possa essere una spia nazista, ma ciò che ne consegue, il fatto che abbia sempre finto nei suoi confronti. È la tremenda e inquietante ipotesi di non essere mai stato amato dalla madre di sua figlia, l’idea di essere stato ingannato e usato da Marianne che lo devasta nel profondo. Un cortocircuito beffardo e paradossale tra finzione e realtà ha fatto sì che i due si fossero incontrati e conosciuti come marito e moglie nella finzione, ad uso e consumo della missione da eseguire a Casablanca, per poi unirsi davvero in matrimonio a Londra. Per l’uomo è un legame reale e autentico, testimoniato dalla nascita di una bambina; per la donna potrebbe essere solo l’ennesimo ruolo da mettere in scena. 
Sceneggiato senza sbavature da Steven Knight, interpretato da un efficace e funzionale Brad Pitt e da una sensuale, intensa e ipnotica Marion Cotillard, il diciottesimo lungometraggio in oltre quarant’anni di attività di Robert Zemeckis ci restituisce un autore in gran forma, ancora voglioso di mettersi in gioco e di continuare a sperimentare con un’opera coraggiosa, stratificata e gloriosamente fuori dal tempo.

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Allied
Regia: Robert Zemeckis
Sceneggiatura: Steven Knight
Fotografia: Don Burgess
Anno: 2016
Durata: 124’
Interpreti principali: Marion Cotillard, Brad Pitt, Jared Harris
​Uscita italiana: 12 gennaio 2017

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PATERSON - La poesia delle cose semplici

9/1/2017

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​“Tradurre una poesia è come farsi la doccia con l’impermeabile. Eppure io ci provo. Questo è quel poco che ho capito e che ho scritto. Avrei dovuto lasciare la pagina bianca. Ma è quel che ho vissuto. Non è molto, lo so”.

Jim Jarmusch, cantore della cultura underground newyorkese, è stato colui che più di tutti ha riletto in chiave critica la mitologia on the road e il rapporto fra uomo e paesaggio americano. Con Paterson dà vita ad un altro di quei suoi sradicati personaggi che osservano una realtà di cui cercano di tracciare il senso con uno sguardo disincantato e a volte stralunato - che non ha fretta - e che si posa sul mondo con l’ostinata insistenza capace di restituire alle cose la densità perduta.
Paterson vive a Paterson, una piccola città del New Jersey che ha un passato del tutto singolare; lo stesso Jarmusch ha dichiarato di aver scelto questa località in particolare proprio per la sua storia e perché sembra un luogo rimasto in sospeso nel tempo tra passato e disperazione. E’ stato il primo centro industriale degli Stati Uniti con fabbriche tessili, ha visto le prime proteste dei lavoratori ed è stata anche la città di grandi poeti come Williams Carlos Williams e Allen Ginsberg.

“Quando sei un bambino impari che ci sono tre dimensioni, altezza, larghezza e profondità, come una scatola da scarpe. Più tardi capisci che c’è una quarta dimensione: il tempo… “

Jarmusch definisce Paterson “un film d’osservazione”, un’opera che raccoglie le piccole variazioni del quotidiano, celebrando e esaltando i dettagli della vita. Non sono presenti conflitti o situazioni precarie, ma si parla semplicemente della vita semplice di un uomo e di una donna – incarnati in maniera sublime da due attori in stato di grazia, Adam Driver e Golshifteh Farahani - che si amano e si sono scelti e accettati per quello che sono. Si completano l’un l’altra, e la loro sopravvivenza deriva dall’autenticità e dalla purezza del loro amore, come nei bellissimi amanti vampiri, Adam e Eve, di Only Lovers Left Alive. 
Sì perché qui, come nel suo film precedente, il regista si sofferma sull’intimità di coppia, sulla condivisione e sulla riflessione disincantata del mondo contemporaneo, e questa volta sceglie di farlo attraverso  lo sguardo malinconico di un poeta. La sua vita è scandita da una classica routine giornaliera, i giorni si ripetono e sono del tutto identici: la sveglia alle 6:15, uno sguardo dolce e un bacio alla sua compagna, la colazione e via a lavoro diretto verso il suo autobus, l’uscita serale con il suo cane furbo e pasticcione, Marvin, e la rituale sosta al bar. 
Ma Paterson è proprio questo, la beatificazione e la contemplazione del quotidiano, perché parafrasando Eve di Only lovers left alive “la vita è sopravvivenza delle cose e apprezzamento della natura...” e il protagonista si ferma e si sofferma su tutto cercando la rima interna tra le cose per farne uscire un segno, poiché “ogni cosa fecondata viene fecondata di ogni senso”. Non è il solo: anche il ragazzo che rappa dentro una lavanderia automatica cerca un modo per rivelare il suo sguardo sul mondo e lo stesso vale per la poetessa bambina e il turista poeta giapponese. E non è da meno la sua vibrante e magnetica compagna, Laura, che ha bisogno anch’essa di vedere il mondo attraverso una sua espressione artistica; anche lei cerca a suo modo la poesia nel mondo, ma soprattutto un modo per esprimerla e lo fa in svariati modi, con i suoi fantasiosi Cupcake, i cerchi bianco e neri disseminati ovunque per la casa in tende, vestiti, muri e tappeti, ed è anche bianca e nera la chitarra che acquista per realizzare il suo sogno di diventare una folk singer. In questo risalta il tipico stile minimalista del regista, sottolineato dall’utilizzo del bianco e  nero, stesso “colore” del film che la coppia decide di vedere al cinema - chiaro omaggio del regista alla settima arte - Island of Lost Souls, un classico horror della Paramount di Erle C. Kenton con Charles Laughton del 1932.

Paterson, uomo antimoderno, non possiede cellulare e non scrive le sue poesie su computer, ma solo sul suo taccuino. Egli vive nel suo universo fatto di irregolarità e di silenzi, in una sorta di trance meditativo che gli permette di cogliere le piccole casualità della vita, fatte di sensazioni anche visive o di corrispondenze strane, di piccoli e grandi oggetti del quotidiano che si intrecciano in fitte trame di percezione e di immagini che si riflettono sul parabrezza e sul suo volto; le uniche interruzioni arrivano dai brevi, ma coinvolgenti frammenti di dialoghi ascoltati sull’autobus, come i due studenti che inseriscono anche un pizzico di anarchia raccontando le gesta di Gaetano Bresci che prima di passare alla storia per aver ucciso Umberto I di Savoia, è stato a Paterson, oppure i bambini che ricordano il pugile “Hurricane” Carter , o gli sfoghi serali di uno dei clienti abituali del bar che soffre le pene per un amore non corrisposto. Mentre Paterson rimane sempre fisso e immobile, lascia che il mondo si manifesti davanti a sé e lo attraversi per assorbirlo e poi cercare una chiave di lettura attraverso le proprie riflessioni ed emozioni tradotte in versi nelle sue poesie, che si fondono con la passione per Williams Carlos Williams, Allen Ginsberg e O’Hara, con la speranza di trovare una luce sempre nuova che illumini la sua vita e che dia pace ai propri sogni, esorcizzando le sue paure più intime e nascoste.

“Passo attraverso trilioni di molecole che si fanno da parte per lasciar passare me, mentre su entrambi i lati altri trilioni restano dove sono. ”

A questa contemplazione e ricerca del bello si contrappone anche una sorta di senso di angoscia e di rassegnazione nei confronti della vita, perché Paterson gira in cerchio, proprio come sottolineano i cerchi che disegna in manieri ossessiva Laura. La sua vita ha un percorso circolare, senza cambiamenti o evoluzioni apparenti e, di fronte all’infinito ripetersi dei cicli, la volontà di potenza si scopre limitata e alla fine spegne l’azione umana, svelando la solitudine personale non solo di Paterson, ma anche di una città - non a caso il suo nome è lo stesso del luogo in cui vive - attraverso l’isolamento di un singolo individuo sperduto, che non sembra avere nessuna possibilità di interazione con il mondo esterno. 
L’attesa/desiderio di una catastrofe rappresenta la sensazione di inquietudine che si vive ogni giorno a Paterson, accentuata dalla colonna sonora degli Sqürl. Ma non è la catastrofe la svolta, mentre diventa decisiva  e fondamentale la figura del cane che, come in Ghost Dog: The Way of the Samurai, interviene e assume un ruolo determinante e si trasforma  nell’artefice del cambiamento, cercando di spezzare quella routine in cui è imprigionato Paterson. Lo fa obbligando il suo padrone a cambiare direzione durante le passeggiate, attirando l’attenzione stortando la buca delle lettere, fino a fare a pezzi letteralmente il suo taccuino delle poesie; ecco allora che Marvin diventa l’elemento rivoluzionario, perché “la vita è sovvertitrice della vita stessa, quale era un attimo prima: sempre nuova e priva di regole. E nel verso perché esso viva, qualcosa deve essere infuso che abbia il colore stesso dell’instabile, qualcosa nella natura di un’impalpabile rivoluzione”. 
Marvin diventa l’agitatore e il rinnovatore necessario per dare nuova linfa vitale a Paterson, che nel finale, perso e rassegnato - per via del suo taccuino distrutto - si dirige verso la cascata che tanto ama per rivolgere lo sguardo su di lei - sempre con meravigliosa costanza - per contemplarla e ascoltare il suo suono incoerente e incessante ricercandovi quella luce che accende di bellezza la sua solitudine, con lo scopo di ritrovare il senso dei suoi versi perduti e ridare unità alle cose. "Sono solo parole scritte sull’acqua", dice, ma il senso di ogni cosa non perde di significato: puoi disseminarlo, polverizzarlo, ma non si distruggerà mai, intero o per frammenti riapparirà anche sottoforma di una pagina vuota che, a volte, presenta molte possibilità. 

"Shadows cast by the street light
under the stars,
the head is tilted back,
the long shadow of the legs
presumes a world taken for granted
on which the cricket trills
"

Il cineasta punk ci regala un altro viaggio on the road, un capolavoro, un miracolo, un’opera poetica e esistenziale di rara e autentica bellezza. In Paterson il mondo diventa un luogo vivibile in cui i semplici gesti del quotidiano acquistano un valore unico e eccezionale, dove emerge con naturale bellezza il dono della vita. Pregno di tutto il suo milieu creativo qui, come in tutte le sue opere, si riflette il suo sguardo un po’ sbilenco sul mondo, da sempre attento ai contorni e alle sfumature della quotidianità in cui si viene magicamente travolti dalla consueta e immancabile malinconica ironia di uno dei pochi grandi autori americani realmente indipendenti e davvero controcorrente.

Erica Francesca Bruni

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo: Paterson
Regia: Jim Jarmusch
Sceneggiatura: Jim Jarmusch
Attori: Adam Driver, Golshifteh Farahani
Anno: 2016
Durata: 117 min
Fotografia: Frederick Elmes 
Musica: Sqürl
Uscita italiana: 29 dicembre 2016

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