ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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NOI NON SIAMO COME JAMES BOND - L'imperfezione irrinunciabile

29/4/2013

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Certo cinema, quello vero, con alla base una motivazione, uno sguardo, un’idea impellente cui bisogna dare corpo se si vuole continuare a vivere, non finisce mai di spiazzarti e sorprenderti, di illuminarti e farti sentire vivo. Ecco, Noi non siamo come James Bond è quel cinema lì. Un piccolo grande film miracoloso, umile e potente, il racconto di un’amicizia che si mette a nudo nella sua fragile unicità, nella sua saggia, ostinata innocenza, donando allo spettatore il suo sguardo sul mondo capace di bypassare la malattia con levità. 
Mario Balsamo (il regista) e Guido Gabrielli (l’amico editore) sono reduci da un vissuto travagliato che però non ha scalfito il sorriso abbozzato e lo sguardo occhialuto e tagliente del primo, né tanto meno la vitalità fragorosa e spiazzante del secondo, ironico e candido, filosofico e limpido nelle sue rivelazioni a cuore aperto. La gioia delle piccole cose ora li assale, Guido torna a suonare la chitarra perché “riscoprire l’anatomia della musica è un approfondimento gnoseologico notevole”, un atto superiore di humanitas. Il loro donarsi alla macchina da presa scandisce il film andando a piazzare vari puntelli nel cuore dello spettatore, mentre tutto scorre come una partitura jazz, sorretto o forse ammansito da un montaggio per frammenti qua e là sconnessi, come a voler riprodurre lo smarrimento esistenziale che la malattia genera. È lo spettatore, poi, a dover trovare un equilibrio tra i cocci, a metter ordine in quello che è il racconto di un mood, di uno stato d’animo liminale, tra la non-vita e il prorompente, rassicurante, gioioso ritorno ad essa. 
Senza malinconia a tavolino, senza incursioni ricattatorie: l’unicità avulsa e preziosa di Noi non siamo come James Bond sta proprio nel suo non essere banalmente uggioso ma solo nostalgico, sempre a fior di commozione. Gli occhi di Balsamo si riempiono di lacrime in vari momenti del film, ma mai con furbesca indulgenza, neanche quando si ricorre al particolare del volto focalizzato sugli sguardi dei personaggi, che interloquiscono a un tavolo di ristorante con la Bond Girl invecchiata ma sempre affascinante Daniela Bianchi. Mario osserva suonare Guido, che interpreta i brani storici bondiani di Monty Norman, confeziona un inedito dal titolo assai eloquente (Two Friends) e gli fa notare che non confonde realtà e fiction, lui. 
“La vita è sempre meglio” “Dici eh?” “Sì”. Dialoghi semplici, semplicissimi, ma che vivono di un bagliore avvolgente e ristoratore, confortevole e familiare. Ed è proprio tra fiction e documentario che la messa in scena si articola, tra momenti più documentaristici (come la visita di Mario, che rimanda al migliore episodio del Caro Diario morettiano, Medici) e altri inserti che ibridano meravigliosamente la natura creativa del film, sguazzando a piene mani nella finzione: basti pensare alle sequenze di raccordo in cui Mario e Guido passeggiano nel rigoroso smoking bondiano del loro idolo assoluto, o la scena del litigio - assai emblematica - in cui Guido si adira per l’uso strumentale e indegno che secondo lui Mario sta facendo di suoi dettagli biografici troppo intimi e vergognosi. Una sequenza evidentemente molto scritta, come il poetico finale consumato in una tenda sulla spiaggia o le continue telefonate di Mario a uno Sean Connery latitante, mosse dalla voglia insistente di mettersi in contatto con lui, un modello di indistruttibilità e perfezione, per loro l’unico vero Bond, colui che sa in ogni occasione cosa fare, come agire, cosa dire. 
Questo coacervo di invenzione e documentazione rende il tessuto del film una sorta di laboratorio sperimentale, un’auto-analisi di sincerità disarmante, un’esperienza spirituale di finissima positività come ogni approccio alla malattia dovrebbe essere nel migliore dei mondi possibili (un mondo a cui il cinema, di tanto in tanto, non dovrebbe scordarsi di dare voce, data l’intrinseca natura, sua e delle sue origini). Su quella spiaggia, che è non-luogo in cui perdersi e tornare bambini, Mario e Guido si abbandonano alla magia periferica di un porto franco di sogni (ancora) incontaminati. 
Partendo dallo stratagemma narrativo di un copione legato ad un loro vecchio viaggio a Reykjavík, gli autori di Noi non siamo come James Bond allontanano da noi e da loro stessi il senso di morte, l’incombenza di un vuoto da riempire. Guido ha paura di finire il film, nato come terapia ma nel frattempo divenuto qualcos’altro, assalito da un dilemma interiore che nel loro diario di viaggio (quasi) senza filtri non può non trovare posto. Dubbi su dubbi, umanissimi fin nel midollo, che incanutiscono, rendono pensosi ma non stanchi di vivere. D’altronde, le star e i divi non invecchiano mai; anzi, con l’età ringiovaniscono. Gli uomini, invece, vivono solo delle loro irrinunciabili imperfezioni, delle più radicate, salvifiche debolezze. In fondo, Noi non siamo come James Bond, ma forse è proprio Bond che, come ogni divinità che si rispetti, vorrebbe essere un po’ come noi.  

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Anno: 2012
Regia: Mario Balsamo
Sceneggiatura: Mario Balsamo, Guido Gabrielli
Fotografia: Andrea Foschi
Musiche: Teho Teardo
Durata: 73’
Interpreti principali: Guido Gabrielli, Mario Balsamo, Daniela Bianchi

Uscita: Il 27 aprile al Cinema Oxer di Latina, ospite Carlo Verdone. Il 30 aprile e il 1 maggio proiezioni speciali alla Casa del Cinema di Roma. Il calendario successivamente prevede Pordenone (Cinemazero 8 maggio), Vicenza (Cinema Araceli 9 maggio), Lugano (Cinema Lux dal 9 maggio), Napoli (10 maggio), Trieste (16 maggio), Perugia grazie alla Rete degli Spettatori (21 maggio) e Bologna (Cinema Lumiere, 27 maggio).

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KIKI CONSEGNE A DOMICILIO - In volo con lei

27/4/2013

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Continua il meritorio recupero dei film di Hayao Miyazaki da parte della Lucky Red. Questa volta, a distanza di ben 24 anni dalla sua realizzazione, tocca a Kiki consegne a domicilio uscire nei nostri cinema, per la gioia di quei pochi che non si accontentano di vedere in sala solo film d’animazione nell’ormai abusata cornice tridimensionale proveniente dal mercato statunitense.
Kiki, una giovane strega simpatica e carina, raggiunti i 13 anni d’età deve partire da casa per svolgere il suo apprendistato in un’altra città. In compagnia dell’inseparabile Jiji, il suo adorabile e irresistibile gatto nero, inforca la scopa che le ha regalato sua madre per volare fino a Koriko, una grande città bagnata dal mare. La ragazza, superate le prime difficoltà grazie ad una gentile e solare panettiera che le mette a disposizione una stanza sopra il suo negozio, decide di mettere su un’attività di consegne a domicilio da eseguire a cavallo della sua scopa. Per Kiki non è facile ambientarsi nella nuova città e le complicazioni, legate anche ad un’età inquieta e delicata come l’adolescenza, non mancano; la streghetta riuscirà comunque a fronteggiarle con forza, entusiasmo e tenacia.
Se non fossimo a conoscenza del fatto che Kiki consegne a domicilio è un film d’animazione di fine anni ’80, il quarto realizzato e prodotto dallo Studio Ghibli, saremmo pronti a considerarlo come l’ultimo nato partorito dal genio di Miyazaki, per l’innata freschezza che non l’ha fatto invecchiare di un giorno, come accade solo ai grandi classici capaci di rimanere sempre attuali e contemporanei anche a distanza di diversi decenni dalla loro uscita. In questo felice e ispirato romanzo di formazione ritroviamo tutta la poetica del maestro dell’animazione giapponese con le varie tematiche ricorrenti nella sua filmografia, dalla passione per il volo all’attenzione nei confronti dei più giovani, quasi sempre protagonisti assoluti dei suoi film. 
La città immaginaria di Koriko in cui è ambientata la vicenda non è plasmata sull’architettura giapponese, ma ha un’evidente ispirazione mitteleuropea della metà del Novecento che ritornerà anche una quindicina d’anni dopo in Il castello errante di Howl. Hayao Miyazaki è infatti da sempre affascinato ed influenzato da paesaggi e scenari europei e in particolar modo da quelli di casa nostra, come ad esempio il piccolo borgo medievale di Calcata da cui ha preso spunto per la costruzione del Museo Ghibli. 
Si sente un profondo calore dalle tavole animate dello Studio Ghibli, dal tratto accurato, morbido e fluido dei disegni e dallo splendore dei colori brillanti e luminosi, elementi a cui il celebre studio d’animazione giapponese ci ha piacevolmente abituati nel corso di questi anni. Il commento musicale, lieve e brioso, è affidato al maestro Joe Hisaishi, sodale da sempre di Miyazaki e di un altro cineasta stimato e apprezzato in Occidente come Takeshi Kitano. 
Considerata da molti come un’opera minore del regista del Sol Levante, Kiki consegne a domicilio presenta una tale semplicità – tipica dei grandi autori - e una sensibilità di sguardo nei confronti della sua giovane protagonista, alle prese con i primi turbamenti caratteristici di un’età fragile e indefinibile come l’adolescenza e con gli ostacoli da affrontare in un percorso di crescita ed emancipazione, che lo elevano a titolo fondamentale e imprescindibile, vero e proprio manifesto della poetica miyazakiana, pur non possedendo la complessità e l’allegoria di film come Princess Mononoke, La città incantata o Il castello nel cielo. 

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Majo no takkyûbin
Anno: 1989 
Uscita in Italia:24 aprile 2013
Regia: Hayao Miyazaki
Sceneggiatura: Hayao Miyazaki
Fotografia: Shigeo Sugimura
Musiche: Joe Hisaishi
Durata: 103’

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QUALCUNO DA AMARE - La vita nel fuoricampo

26/4/2013

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Like someone in love: titolo originale evocativo e meraviglioso, per un film che è un piccolo grande miracolo. Un qualcosa di invisibile, impalpabile, che sfugge a qualsiasi catalogazione per lasciarsi rincorrere lungo tutta la sua durata, ma inutilmente. Perché Qualcuno da amare è inafferrabile. 
Il cinema di Abbas Kiarostami sta vivendo una sorta di seconda giovinezza, inseguendo una poetica e uno stile in una maniera leggiadra ma profondissima, abbandonando qualsiasi schematismo stilistico (di regia, di scrittura) per colpire in profondità, lasciando lo spettatore confuso e stordito. Confuso, perché è un cinema che sembra girovagare a vuoto,  disseminando falsi indizi senza arrivare mai da nessuna parte;  stordito, perché trafigge l’anima e gli occhi con una delicatezza dalla quale mai ci aspetteremmo uno schiaffo così forte.
 La macchina da presa di Kiarostami è un agente mutaforme, un occhio cangiante che cattura gli spazi e gli ambienti giapponesi come avrebbero fatto un Ozu o un Mizoguchi: bisbigliando così un ideale, un pensiero, una filosofia di cinema che si fa immediatamente universale. Dall’Iran al Giappone, passando per l’Italia (Copia conforme), il suo sguardo è etereo, invisibile; se l’immenso e sottovalutato My blueberry nights di Wong Kar-wai esportava lo stile del suo autore entro gli spazi americani, per ribadire che concetti come l’amore, la sofferenza e la necessità di un contatto sono comuni a tutti gli esseri umani, indipendentemente dalla provenienza geografica, Kiarostami al contrario permette al suo sguardo di adattarsi ai ritmi, alle pause e alle dilatazioni di una cultura così lontana e così vicina.  
A volerlo raccontare, le parole stesse sembrano addirittura inadeguate, pesanti, inutili: si potrebbe provare a dire che il film mette in scena una giornata nella vita di Akiko, giovane studentessa giapponese che si prostituisce per guadagnare qualche soldo; una sera viene condotta a casa di un anziano professore, il quale però non abusa di lei ma anzi la accudisce, e il giorno dopo la accompagna a sostenere un esame all’università. Ma ci si rende subito conto che non è questo il punto; al contrario, così sembrerebbe quasi un altro film. 
Qualcuno da amare è solamente un sussurro della vita dei suoi protagonisti, un respiro catturato fugacemente tra un prima e un dopo: quello che interessa maggiormente a Kiarostami è lavorare sul fuoricampo, su tutto quello che l’inquadratura non riesce a contenere. La vita, insomma, quella che c’era già da molto tempo prima dei titoli di testa, e la stessa che continuerà ben oltre quelli di coda. Perché Qualcuno da amare potrebbe durare un’ora, due, dieci o addirittura cento; anzi, potrebbe proseguire all’infinito, e non farebbe differenza alcuna. Sin dalla primissima sequenza nel bar, un campo/controcampo nel quale le voci si perdono, si smarriscono e ribadiscono la propria fallacia, il manifesto teorico di Kiarostami è cristallino: tutto il film è un continuo rincorrersi di dialoghi e monologhi, di sguardi e direzioni, attraverso case e automobili, luoghi e non luoghi. 
Un film che si rigenera continuamente lungo traiettorie imprevedibili, lasciando che ci sia sempre una storia, una confessione o un pensiero altro a fare capolino oltre l’inquadratura, rispetto a ciò che viene mostrato in primo piano: come nella sequenza del viaggio in taxi, durante il quale la protagonista ascolta nella segreteria telefonica i continui messaggi della nonna, giunta a Tokyo per rivederla fugacemente; è un momento di un lirismo struggente, dove la commozione si fa largo sottovoce e il movimento fisico (la macchina, le strade, la città) si espande a dismisura attraverso tutto quello che non si vede nello spazio ristretto di un’automobile (o di un’inquadratura, appunto). 
Come chi è innamorato, il film guarda costantemente al di là dei confini posti dal visibile, per evitare che il significato di tutto si riduca alle sole parole: è una lettera d’amore composta da sensazioni impalpabili e inenarrabili, e forse il modo migliore per rendergli giustizia non è affatto quello di sviscerarlo, raccontarlo, spiegarlo. Qualcuno da amare è qualcosa che va vissuto, sperimentato; respirato, assaggiato, e poi, finalmente, condiviso: provate a farlo anche voi, ne vale la pena.

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Like someone in love
Regia: Abbas Kiarostami
Sceneggiatura: Abbas Kiarostami
Fotografia: Katsumi Yanagijima
Durata: 109’
Anno: 2012
Uscita in Italia: 24 aprile 2013
Attori principali: Rin Takanashi, Tadashi Okuno, Ryo Kase

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LE STREGHE DI SALEM - Il trionfo del Male

24/4/2013

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Iniziamo con una premessa. A giudizio di chi scrive, La casa dei mille corpi e La casa del diavolo sono stati, insieme a Martyrs di Laugier, i migliori horror dello scorso decennio. In assoluto. Capolavori dirompenti, devastanti, dotati di un impeto sbalorditivo.
Di conseguenza, l'attesa per il ritorno di Rob Zombie, dopo le discusse parentesi legate ai due Halloween e l'esperienza ludica dello scatenato The Haunted World of El Superbeasto, era enorme, considerando anche il fatto che il progetto legato a The Lords of Salem germogliava nella testa del musicista/regista da diversi anni.
Peraltro l'aspettativa quasi febbrile non aveva certo colpito soltanto il sottoscritto, bensì tutti i cultori dell'horror e non solo. La dimostrazione più lampante si è avuta lo scorso novembre, in occasione dell'anteprima italiana del film avvenuta durante il Torino Film Festival. Durante la manifestazione gli addetti ai lavori e tantissimi spettatori hanno affollato le sale del Cinema Reposi anche per le repliche, qualcuno addirittura attraversando quasi l'Italia intera per poter essere presente a quello che, a tutti gli effetti, si è rivelato un grande evento. 
Come sempre avviene in questi casi la voglia di entusiasmarsi era tanta, il terrore di ricevere una cocente delusione pure. A conti fatti i giudizi sono stati altalenanti, controversi, e tali continueranno a essere. Per quanto ci riguarda, lo diciamo subito: Le streghe di Salem non raggiunge le inaudite vette dei primi due lavori di Rob Zombie. Nonostante questo, ci troviamo davanti un'altra opera di rara energia, che (ri)conferma il rocker di gran lunga come il più significativo talento mondiale espresso dal cinema di genere negli ultimi lustri.
Realizzando un progetto inseguito a lungo nel tempo, Robert Cummings ha scelto in questa sede un approccio perfino classico, rinunciando alla stupefacente commistione stilistica del dittico d'esordio, per costruire invece un incubo prettamente horror, nel quale le tendenze sanguinarie si sposano ai tempi sospesi. La giovane Heidi lavora come disc jockey presso la radio di una piccola cittadina. Un giorno riceve un pacco contenente il disco di una misteriosa band mai sentita nominare. Ascoltandolo, inizia a essere perseguitata da macabri sogni che la trasportano in un viaggio stregonesco ambientato nel passato. Poco alla volta Heidi perde contatto con la realtà, sino a diventare suo malgrado protagonista di un efferato sabba atto a riportare in vita credenze demoniache sepolte nell'oblio, e ora pronte a riemergere dalle tenebre.
Per dipanare la sua trama Zombie procede a passi lenti, senza lasciarsi prendere dalla consueta furia, e accoglie un modo di fare cinema attento, misurato, lineare. Quasi convenzionale, si potrebbe dire. Le streghe di Salem tornano a reclamare il proprio ruolo, sconvolgendo la vita di una dj scelta come vittima da violare per assicurare il concepimento dell'entità demoniaca; il passato divora il presente, la credenza popolare si tramuta in realtà, la pace della quotidianità è spazzata via. Il Male, strumento secolare e indistruttibile, si sveglia dal letargo per imprigionare la protagonista tra i neri tentacoli della dannazione, e la blasfema disarmonia espone il suo esiziale piano di distruzione.
Convenzionale, si diceva, ma solo fino a un certo punto. Zombie, in primo piano in questo periodo anche per l'uscita del suo nuovo e già amatissimo disco Venomous Rat Regeneration Vendor, non si limita alla mera giustapposizione di elementi traumatici; scava oltre il tessuto primario, e condisce il film con una carica iconoclasta sorprendente, distruggendo ogni possibile deriva consolatoria. Inoltre regala piccoli ruoli ai suoi feticci Ken Foree, Sid Haig e Michael Berryman, membri di quella famiglia di reietti che ormai ben conosciamo, omaggia il polanskiano Rosemary's Baby e immette nella narrazione estremismi sferzanti e imprevedibili.
Due sono però i fattori che rendono The Lords of Salem davvero indimenticabile. Il primo ha un (finto) nome e cognome: Sheri Moon. Come sempre, ma stavolta più che mai, l'autore celebra senza ritegno la consorte, dipingendo ogni centimetro del suo corpo, più nudo che vestito, con morbosa attenzione; le regala una fisionomia contrastata, in cui la sensualità si abbina a una tenerezza quasi fanciullesca; la porge al centro di ogni intuizione, attuando così la definitiva glorificazione di una donna di irresistibile bellezza, qui anche alla sua prova d'attrice migliore.
Il secondo motivo risiede nell'incredibile talento visivo di Zombie, capace di invenzioni sonore e scenografiche ancora stupefacenti. La macchina da presa vola nei meandri del nostro campo visivo, gli ambienti assumono mille vite in una, la raffigurazione delle empie creature sfugge a qualsiasi definizione ancestrale, il connubio tra inserti musicali e qualità dell'immagine abbraccia picchi oscuri che rasentano la perfezione. Un magnetico inferno di creatività, da cui nascono sequenze monumentali. Ne valga una per tutte: il primo ingresso di Heidi nella cattedrale dove il Re della Notte l'attende. Da brivido. 

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: The Lords of Salem
Regia: Rob Zombie
Sceneggiatura: Rob Zombie
Musiche: Griffin Boice, John 5
Fotografia: Brandon Trost
Durata: 101'
Anno: 2012
Uscita in Italia: 24 aprile 2013
Attori principali: Sheri Moon Zombie, Bruce Davison, Judy Geeson, Meg Foster, Ken Foree, Dee Wallace.

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RAZZABASTARDA - Viscere e coraggio

19/4/2013

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C’è una qualità su tutte che l’esordio alla regia di Alessandro Gassman possiede e che è di per sé rara sopra ogni cosa: la forza d’urto. Al suo esordio dietro la macchina da presa, il popolare attore opta per una radicalizzazione urlata della messa in scena che insegue senza soluzione di continuità il pugno nello stomaco, la visceralità totalizzante delle immagine. 
Adattando la pièce da lui stesso portata a teatro con grandissimo successo, Roman e il suo cucciolo (oltre 250mila spettatori in giro per la penisola), dà luogo, per la storia dell’immigrato romeno Roman e del figlio Nicu, a un setting spettrale calato in un b/n pestissimo, mirato a ostruire volutamente ogni possibile inserto di pallore nel tessuto delle immagini, sporcando ogni illuminazione, ingrigendo il tutto. Uno scenario quanto più possibile brutalizzato che va a fare il paio con la personalità e l’esistenza di Roman, interpretato dallo stesso Gassman, che è devoto alla Madonna Nera e fa lo spacciatore, è un cafone arrogante e incolto che vive e ha cuore solo per il benessere del figlio. 
Nel passare dalla scena teatrale al circoscritto spazio cinematografico, il senso di irrealtà urlata, che addensa troppo il nero e infiacchisce troppo il bianco, allontana non soltanto la percezione cristallina dei colori ma anche quella del cuore e dell’essenza della storia. La rappresentazione di un calderone di culture violente, all’insegna dell’essenziale dualismo integrativo tra borgata e immigrati, suggerisce una barbarie dentro cui l’umanità fatica ad insinuarsi, ma che presto degenera in un accento romeno forzato e astratto nella ripetizione di una maniera esasperata, annegando anche nella stereotipia di molte caratterizzazioni di contorno. 
Nonostante tutto, però, la regia di Gassman tiene, sorprendentemente e un po’ inspiegabilmente, a dispetto delle sue debolezze e delle zappe che si getta sui piedi da sola, sbarcando il lunario forse proprio grazie alla mostruosa voglia di dare una voce meritevole a questa storia. Un’urgenza, una precisa volontà di diversità che è talmente bruciante da rischiare di bruciarsi, di infiammare troppo quanto di buono presente al suo interno, scadendo così nella mera contemplazione delle proprie ceneri e  nulla più. E invece no, o per lo meno, non del tutto: si tallona lo squallore orrido di spaccio e ignoranza facendo della desolazione morale e della superficialità subumana una cifra stilistica, di sicuro non equilibrata nella ri-mediazione da una forma artistica all’altra, ma allo stesso tempo così ostinata nei suoi difetti da generare in chi guarda un interesse, un’affezione, il senso di un’immediatezza necessaria. 
Razzabastarda è un’opera che catalizza i suoi sforzi nella giusta direzione, e che attraverso la prontezza anche estrema e sicuramente caricata della sua resa riesce comunque a non involversi del tutto. La seconda parte degenera un po’ nel pasticciaccio brutto anche da un punto di vista narrativo, le direzioni si sparigliano e si perde un attimo la bussola, il filo di un equilibrio narrativo che viene purtroppo ad affastellarsi. C’è un vuoto, un avvallamento, una mancanza, come un black-out di sceneggiatura più simile a un passaggio sbagliato dovuto al fatto di aver faticato un po’ nel dilatare la pièce interpretata tra gli altri, in passato, anche da Robert De Niro in un più diluito prodotto cinematografico. 
Gassman ha a cuore questa storia, e si vede: non si spiegherebbe altrimenti una tale verve attoriale sputacchiante e molto fisica, che va al di là della necessità drammaturgiche del suo personaggio, che risulta fin troppo sopra le righe ma che al contempo sintetizza al meglio l’essenza di un’opera prima ambiziosa e coercitiva, che violenta lo spettatore con uno scopo preciso. Un film che è degno rappresentante di quelle Prospettive Italia sotto la cui egida fu presentato lo scorso novembre al Festival del Film di Roma. 

Davide Eustachio Stanzione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Anno: 2012
Regia: Alessandro Gassman
Sceneggiatura: Vittorio Moroni, Alessandro Gassman
Fotografia: Federico Shlatter
Musiche: Aldo De Scalzi
Durata: 106’
Uscita in Italia: 18 Aprile 2013
Interpreti principali: Alessandro Gassman, Manrico Giammarota, Sergio Meogrossi, Michele Placido.

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L'ULTIMO PASTORE - Una fiaba contemporanea

18/4/2013

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C'era una volta un pastore che viveva in cima a una montagna. Aveva un gregge di centinaia di pecore e un sogno che voleva realizzare a tutti i costi: pascolare le sue pecore nella grande metropoli e farle conoscere ai bimbi di città.  
La fiaba è un espediente sempre più raro per mettere a dormire i figli e guidarli nel mondo dei sogni, e così come una fiaba è sospesa tra la veglia e il sonno, in procinto di sfumare in un sogno, il film di Marco Bonfanti è sempre in bilico tra la realtà e la finzione. In azione vediamo dei personaggi reali, ma a dirigerli c'è una regia e soprattutto una sceneggiatura arguta e ben studiata. 
Bonfanti ha dovuto penare non poco prima di convincere l'ultimo pastore nomade della Lombardia, Renato Zucchelli, a posare per il cinema e marciare col suo esercito di pecore alla volta della Madonnina. Lì Renato vi arriverà trasportando le pecore su enormi camion, ma questo viene sapientemente omesso. L'ultimo pastore ha tutti i caratteri, insomma, per essere catalogato sotto la voce "documentario di creazione" o se si preferisce "docu-fiction". 
Come in tutte le fiabe, inoltre, l'elemento magico è preponderante, e finisce per prevalere sulla prosaicità del vivere quotidiano. La figura di Renato Zucchelli di per sé è lontana ormai anche dalla nostra fantasia, soprattutto da quella dei più piccini. Il ritratto che ne esce è quello di un gigante buono protettore dei bambini. La camera obliqua lo riprende dal basso verso l'alto in sella al suo pony e ne esalta la mole imponente e statuaria.  Lunghi primi piani insistono sul suo sorriso bonario e le musiche a tratti trionfali di Danilo Caposeno ne accompagnano l'incedere eroico, a volte addirittura intensificato dal ralenty. La sua vita è scandita dai tempi della transumanza; conosce il Gaì, gergo dei pastori nomadi, e trascorre la maggior parte dei suoi giorni in paesaggi bucolici con un filo d'erba in bocca, in compagnia del suo cane Moru e del suo strampalato assistente Piero, che ha un cane a sua volta, ma immaginario. Fondamentale la figura della devota moglie Lucia che porta avanti i conti e i quattro figli. Si racconta in una sorta di intervista a camera fissa e racconta Renato, restituendo una buona dose di realismo all'impavido Don Chisciotte del ventunesimo secolo.
L'apparizione di Renato con il gregge in Piazza del Duomo e l'incontro con l'euforica scolaresca è di nuovo pura magia, una magia progettata con maestria dalla mente visionaria del regista. E non solo: è anche un'astuta strategia di marketing, più o meno consapevole. Infatti, grandi testate e Tg nazionali hanno riportato la notizia stuzzicando la nostra curiosità, molti mesi prima dell'uscita in sala.
La regia, fin da subito (con la scelta di riportare i titoli di testa sui disegni degli scolaretti), tradisce un sentimento nostalgico per il mondo dell'infanzia, l'unico davvero spensierato e felice. Il punto di vista dell'intera narrazione sembra coincidere con quella di quei bambini, tant'è che lo spettatore è portato a condividere con loro, nel mio caso con eguale trepidazione, l'attesa per l'arrivo in città di Renato. Estremamente poetici ed emozionanti i primissimi piani dei volti dei bambini che interrogati dalla maestra su cosa sia un pastore rispondono “me lo sono dimenticato”, e che credono che le pecore servano “a fare il budino”.  Renato stesso ha il candore e l'ingenuità di un bambino.
Inevitabile provare una forte nostalgia anche per un mondo destinato a scomparire, quello della pastorizia, e per le grandi distese verdi e i campi che circondavano Milano e provincia, ora in gran parte inghiottiti dall'asfalto. È evidente la volontà di fissare sullo schermo una tradizione e un mestiere che, se non fosse per la grande richiesta di carne ovina delle macellerie islamiche milanesi (esilarante la scena in cui Renato tratta con due "kebabbari"), avrebbe gli anni contati. La pellicola in questo senso ha anche un grande valore di testimonianza.
L'universo fantastico e surreale in cui veniamo emotivamente coinvolti può fornire il destro a una facile morale che puzza di passatismo e al risentimento buonista per l'estinzione di una delle più antiche professioni esistenti. Finanziato interamente da sponsor privati quali Slow Food, WWF, Onu, Unesco e Kyoto Club, ha sicuramente anche questo obiettivo, e va contro l'idea di progresso come cieca urbanizzazione e globalizzazione dei costumi. Ma ne L'ultimo pastore la morale non è così esplicita come nelle fiabe dei fratelli Grimm. Il magico finale sortisce l'effetto consolatorio di una forte allucinazione, per Freud necessaria ad appagare un bisogno primitivo, in questo caso di ritorno alle origini e alla natura, e ci lascia non speranza, come forse pretende il regista, ma un sorriso amaro.
Dopo l'anteprima allo scorso Torino Film Festival, e il notevole successo riscontrato, il film sta ricevendo numerose richieste di partecipazione in festival internazionali. In sala è attualmente programmato presso il Cinema Mexico di Milano, e a maggio uscirà anche a Roma e in altre città. Sul sito ufficiale è possibile consultare il calendario delle proiezioni.

Alessandro Leonardi

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: L'ultimo pastore
Anno: 2012
Regia: Marco Bonfanti
Sceneggiatura: Marco Bonfanti
Fotografia: Michele D'Attanasio A.I.C
Musiche: Danilo Caposeno
Durata: 76'
Uscita in Italia: 19/03/2013
Interpreti principali: Renato Zucchelli, Piero Lombardi, Lucia Zucchelli, Gottardo, Giovanni, Margherita e Domenico Zucchelli.

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NELLA CASA – Ozon tra finzione e realtà

18/4/2013

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Fin dagli albori della sua carriera, François Ozon è sempre stato affascinato dall'idea di spiare nelle case della gente, alla ricerca di segreti nascosti, bugie da confessare, situazioni impreviste, risvolti bizzarri. Nella sua poetica, l'essere umano è un ricco strumento d'indagine, una cavia al perenne servizio del metteur en scene, un topo da laboratorio da analizzare nei minimi dettagli alla ricerca degli anfratti meno evidenti del cuore e dell'anima.
Per il suo ultimo lavoro, Ozon ha deciso di estremizzare queste caratteristiche, ispirandosi liberamente alla pièce teatrale Il ragazzo dell'ultima fila, del drammaturgo spagnolo Juan Mayorga, per costruire uno spietato affresco entro cui muoversi tra coordinate complesse e stratificate, scavando nell'interiorità passata e presente dei suoi personaggi per cogliere il senso del racconto di una vita e tante vite.
Germain è un professore di francese, in carica presso il liceo Flaubert. Scrittore fallito, idealista stanco, è ancora convinto della bontà della letteratura come cartina di tornasole dell'esistenza, ma deve ogni giorno scontrarsi con una realtà materialista e ormai quasi priva di valori. Sua moglie, Jeanne, gestisce con poco successo una galleria d'arte contemporanea. All'inizio del nuovo anno scolastico, Germain comincia a covare una forte curiosità nei confronti dell'alunno Claude, il quale di nascosto gli fa pervenire fogli in cui, a puntate, racconta la forte e crescente amicizia con il compagno di corso Rapha, e con la sua famiglia medio borghese. Germain apprezza le qualità di scrittura del ragazzo, e lo esorta a continuare la stesura di questo strano romanzo: in realtà, la sua curiosità si rivolge proprio agli eventi narrati. Attraverso gli occhi di Claude, il professore entra a sua volta nella casa dei genitori di Rapha, spinto da un prurito voyeuristico di cui ormai non può più fare a meno. Il confine tra realtà e fantasia diviene sempre più labile, e l'immaginazione dell'alunno conduce il racconto verso conseguenze sempre meno pronosticabili.
Flaubert, La Fontaine, Dostoevskij, Kafka: Dans la maison è un film imbevuto di letteratura, durante il quale la finzione dell'atto scenico va a cozzare con le necessità del puro realismo, in una commistione narrativa tanto spiazzante quanto stimolante. Il gioco cinefilo di Ozon inizia come una commedia ricoperta da un fitto strato di satira sociale, per poi, all'improvviso, cambiare rotta e virare verso i contorni del noir a tinte oscure, pur senza mai abbandonare l'ironia di fondo. L'autore transalpino ci conduce all'interno di una spirale eccitante e distruttiva, nella quale noi stessi assumiamo di volta in volta il punto di vista di Claude o Germain, guidando nella nebbia per setacciare gli spiragli di luce racchiusi in questo racconto che centrifuga senza ritegno falsità e verità. Immobilizzati davanti alla totemica finestra sul cortile, osserviamo silenziosi l'evolversi del romanzo a puntate che il ragazzo consegna al suo mentore, mal celando un moto di stizza ogni volta che la storia si interrompe con quel tagliente À suivre (continua...), cesura tanto antipatica quanto indispensabile per attirarci in una ragnatela fitta, pericolosa, e per questo ancora più conturbante. 
Minuto dopo minuto Ozon abbatte la quarta parete che separa palco e platea; Germain (e noi con lui) entra nel corpo di Claude e come un'ombra si intrufola nella casa dei Rapha (padre e figlio) e dell'affascinante Esther, alla ricerca di sensazioni, odori, suggestioni. I suoi trascorsi da scrittore mancato si gettano nell'inchiostro della penna del giovane protetto, e i consigli che ogni giorno elargisce al ragazzo per migliorare la qualità del racconto altro non sono se non la proiezione di un disperato bisogno di emozione, con il quale combattere la disillusione di una vita raggomitolata in un lavoro ormai meccanico e in un matrimonio che ha visto spegnersi la passione. Non gli resta altro che affidarsi all'evasione, all'avventura, in un afflato di anarchia comportamentale che slabbra i confini del lecito per farsi discesa verso il nero della ragione. 
Ozon torna all'inizio della sua carriera (Sitcom), recupera dolenti sospiri di omosessualità (Gocce d'acqua su pietre roventi), tiene a mente il respiro di un umorismo caustico (8 donne e un mistero), cita Pasolini, sfiora Fassbinder e Bunuel, e si inchina di fronte alla lezione del maestro Chabrol, per dare vita alla sua opera forse più composita. Insieme a lui, e all'efficace protagonista Ernst Umhauer, un formidabile quartetto d'attori: Fabrice Luchini, colonna portante del cinema francese contemporaneo; Kristin Scott Thomas, emigrata ormai quasi in pianta stabile per lavorare Oltralpe; Emmanuelle Seigner, la cui incandescente bellezza non pare sfiorire nonostante gli anni che passano; Yolande Moreau, presenza fugace ma tempestosa. Con loro, e grazie a loro, Dans la maison (vincitore a San Sebastian e nominato per sei premi César, tra cui miglior film) nasce, cresce e prende il volo, mentre noi, abbandonata la finestra e raggiunta una panchina in un parco assolato, continuiamo a guardare, attenti, cercando di entrare in quella casa, non vuota come nello strepitoso Ferro 3 di Kim ki-duk, ma brulicante di sogni, delusioni e intrecci da scoprire. 
A conti fatti, abbiamo a che fare con un film forse compiaciuto, forse privo dell'indispensabile carica istintuale, ma anche abile, intrigante, e metacinematografico nell'accezione migliore del termine; un meccanismo a orologeria che trova una giusta conclusione nell'ultima, magnifica inquadratura, emblema dell'intoccabile dogma secondo cui, nei libri come nel cinema come nella vita, ci saranno sempre, per fortuna, mille altre storie da raccontare. À suivre...

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Dans la maison
Anno: 2012
Regia: François Ozon
Sceneggiatura: François Ozon (da una pièce di Juan Mayorga)
Fotografia: Jerome Almeras
Musiche: Philippe Rombi
Durata: 105'
Uscita in Italia: 18 aprile 2013
Attori principali: Fabrice Luchini, Kristin Scott Thomas, Ernst Umhauer, Emmanuelle Seigner

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L'IPNOTISTA - Le catene della forma

15/4/2013

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Strano autore, Lasse Hallström. Una carriera a dir poco discontinua, iniziata nella natia Svezia e poi proseguita a Hollywood, oscillando in una caotica alternanza di registri e qualità. Successi a livello mondiale (Buon compleanno Mr. Grape, Chocolat), applausi perfino esagerati (Le regole della casa del sidro), fallimenti concreti e imperdonabili (The Shipping News), prodotti commerciali di discutibile necessità (Hachiko), e così via, in un marasma produttivo di non facile catalogazione. In fondo una vera e propria poetica legata a Hallström non esiste: l'autore nato a Stoccolma si dirige dove lo porta il cuore (o dove lo portano i soldi), di volta in volta, tra discrete intuizioni e facili sentimentalismi, senza margini di sicurezza.
All'alba del 2012, dopo oltre 25 anni, lo svedese è finalmente tornato a casa, nella sua Stoccolma, per realizzare L'ipnotista, film tratto dal romanzo omonimo di Lars Kepler (pseudonimo della coppia formata da Alexander e Alexandra Ahndoril), presentato in anteprima italiana lo scorso dicembre al Courmayeur Noir Fest, e ora uscito anche nelle sale. È un lavoro che ricalca stilemi letterario/cinematografici ormai ben consolidati nel recente panorama scandinavo (la trilogia Millennium), seguendo una scia didattica che pur conservando le fascinazioni paesaggistiche e culturali di base, pare aver già esaurito buona parte del suo potenziale.
All'approssimarsi del Natale, un uomo viene ucciso a coltellate in una palestra. Nella stessa notte, quasi tutta la sua famiglia è massacrata allo stesso modo. Sopravvive soltanto il figlio maggiore, Josef, ricoverato in ospedale in gravi condizioni. Il commissario Joona Linna, chiamato a indagare sul caso, chiede l'aiuto del dottor Erik Maria Bark, specializzato in ipnosi, con l'obiettivo di scavare nella mente del ragazzo per estrarre informazioni utili a individuare l'assassino. Erik, reticente all'idea di utilizzare ancora questo metodo, a causa del quale ha avuto seri problemi in passato, è a sua volta alle prese con una situazione familiare delicata e instabile. Nella sua mente si affollano infatti errori che ancora non si è saputo perdonare. Poco alla volta, l'indagine relativa agli omicidi si intreccia con la vita privata di Erik, in particolare nel momento in cui suo figlio scompare.
Film decisamente notturno, ricco di colpi di scena, in contrasto con una regia quadrata e parsimoniosa, L'ipnotista si pone come un compito di scuola, ben eseguito ma nella sostanza limitato da una meccanicità che ne smorza le possibili suggestioni. L'elemento soprannaturale, sovente utilizzato in pellicole adagiate su basi narrative similari, è qui annullato, a vantaggio di una messinscena che cerca di utilizzare i meandri del subconscio per fornire significazioni il più possibile imperniate sulla razionalità; una scelta intrigante, che però in qualche punto traballa rischiando di scivolare oltre i limiti della credibilità.
Scelto il sentiero stilistico da seguire, Hallström prosegue comunque a testa bassa, insieme ai suoi attori dal volto triste (tra cui va citata la sempre affascinante Lena Olin, compagna del regista nella vita), affastellando scoperte e rivelazioni, cambi di prospettiva e segreti inconfessabili, maschere da levare e verità da dichiarare, paure e speranze, dolori e vendette; il tutto sembra però mancare di cuore e sfumature, in nome di una rigorosità sin troppo accentuata. La bellezza dello scenario, immerso tra le nevi del Nord, racchiude lo spettatore in un abbraccio rassicurante, entro il quale, nonostante qualche inserto perfino accostabile all'horror, non si scorgono peraltro sufficienti scosse emozionali. Manca la scintilla, in questa storia di ipnotismi e solitudini, e manca l'empatia. Ciò nonostante, l'impalcatura di riferimento non è priva di acume, e l'autore azzecca quantomeno un finale “ghiacciato” ricco di pathos, per quanto di evidente matrice hollywoodiana.
A conti fatti, si ha l'impressione di un film che avrebbe potuto e dovuto offrire di più, salvo restare invece imbrigliato e invischiato nelle fastidiose catene della forma.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: The Hypnotist
Anno: 2012
Regia: Lasse Hallstrom
Sceneggiatura: Paolo Vacirca e Lasse Hallstrom (dal romanzo di Lars Kepler)
Fotografia: Mattias Montero
Musiche: Oscar Fogelstrom
Durata: 122'
Uscita in Italia: 11/04/2013
Attori principali: Tobias Zilliacus, Mikael Persbrandt, Lena Olin, Helena af Sanderberg.


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COME UN TUONO - L'eredità del peccato

13/4/2013

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Le colpe dei padri ricadono sui figli e se la hybris dell’uomo guiderà il suo agire, i suoi peccati saranno lavati col sangue anche nelle generazioni future, senza possibilità di redenzione. Eschilo, nella trilogia dell'Orestea, metteva in luce come l'agire umano determina conseguenze che si tramandano di generazione in generazione. Chi pecca di tracotanza va incontro all'inevitabilità di una Moira che reca con sé una furia distruttrice, un numen sinistro che si manifesta in molteplici forme, sia all'interno dell'uomo che all'esterno, colpendone la discendenza; in tal modo i figli si macchiano delle colpe dei padri e reiterano i comportamenti dei genitori. 
Derek Cianfrance riprende l’idea eschilea del destino dipingendo un affresco dai toni cupi, popolato da personaggi tragici, che emergono, come il Kurtz di coppoliana memoria, dalle tenebre dell’umanità; l’architettura di una società americana stratificata e della sua provincia hopperiana fa da scenario a due destini che si incontrano per caso e restano segnati per sempre. 
Entrambi marci, entrambi persi, l’uno per necessità e per un destino funesto, l’altro per natura ed indole. Luke “il bello” (Ryan Gosling) ha tatuata la sua essenza sulle nocche, su cui spiccano le lettere che compongono la parola “handsome”, come “Love” e “Hate” guizzavano tra le dita del reverendo Harry Powell di Laughton; è uno spirito libero, uno stuntman che si sposta di città in città con la sua moto, iconico archetipo cinematografico, dal Driver di Hill al Motorcycle boy di Francis Ford Coppola. La sua entrata in scena è ieratica, descritta con un gusto estetico dalla forte eco anni ’80; la mdp lo segue da presso con un intenso piano sequenza, mentre incede con piglio deciso, sfoggiando una t-shirt dei Metallica, e quando lo show improvvisamente inizia, tra l’assordante rombo dei motori, l’atmosfera si sospende, il tempo e lo spazio si congelano, insieme all’attenzione dello spettatore. La sua difficile storia d’amore con Romina (Eva Mendes) viene ulteriormente complicata, ma allo stesso tempo infervorata, dalla scoperta di un figlio; Luke vive in modo viscerale la sua paternità, al punto da sacrificarsi totalmente pur di riuscire a far fronte alle esigenze di suo figlio. Proprio l’irrefrenabile amore verso la sua creatura farà emergere il suo lato oscuro e marcio. 
Il suo è un destino già segnato, lo si legge sulla sua pelle, sulle rune tatuate in ogni parte del corpo e dell’inseparabile motocicletta. Poi c’è Avery (Bradley Cooper), un poliziotto la cui ambizione sfrenata getterà luce sul suo vero Io, e che, in maniera simmetrica e contraria rispetto a Luke, sarà pronto a sacrificare ogni cosa, moglie, figlio, colleghi e amici, per la smania di potere e di autoaffermazione; l’incontro con Luke segnerà la svolta radicale della sua vita, rendendolo prima eroe celebrato dai media e poi animale politico interessato soltanto al corteggiamento del proprio elettorato. Lo sdegno del regista verso il personaggio di Avery sembra sottolineato dalla presenza insistente di una mosca sul suo volto in una scena cruciale del film, metafora dell’intima natura escrementizia sociale di quello che dovrebbe esserne un adamantino esemplare. 
La narrazione si dipana attraverso gli anni e le generazioni ed arriva, quindici anni dopo, fino ai figli dei due protagonisti, specchi dei loro genitori, destinati a percorrere strade già segnate ed a reiterare i comportamenti dei padri, vittorie e sconfitte comprese, tutto senza lieto fine, ma con la sobria consapevolezza di un fato inesorabile ed ineludibile. AJ e Jason sono gli eredi di un’umanità feroce, che fagocita il prossimo velocemente senza pensare alle conseguenze, uomini imperfetti e forse per questo ancora più veri. 
Atena, nella trilogia eschilea, ricordava che spetta alle Erinni di “regolare tutto tra gli uomini”, di donare “agli uni i canti, agli altri le lagrime”, così ad alcuni uomini sono riservate gioie e glorie, ad altri lacrime e dolore; non c’è salvezza, non c’è possibilità di mutare il destino.
Come un tuono (titolo originale The Place beyond the pines) era stato pensato ben prima di girare Blue Valentine e ha avuto una genesi fortemente travagliata, ben 37 riscritture nell’arco di cinque anni, prima di trovare un produttore. Dotato di un tessuto narrativo discontinuo, il film è riconducibile a tre percorsi diegetici, talmente indipendenti da risultare quasi tre opere individuali, che si ricongiungono e chiudono degnamente nell’ultimo atto del film, forse il più difficile. Il regista americano non indugia sui terreni del melodramma, non solletica le corde del moralismo semplicistico e lacrimoso: il suo intento si ravvisa nel gusto per la costruzione sfaccettata dei personaggi, personalità complesse e mai banali, e nel lavoro di contrapposizione estetica/etica tra Luke ed Avary. 
Cianfrance, alla sua terza regia, ha confezionato un’opera sofferente che trascina lo spettatore in un luogo suggestivo, sul confine tra l’epica ed il realismo, “un posto oltre i pini”, come nel vecchio detto Iroquois. Il film abbonda di citazioni, ma mantiene la sua autenticità; l’autore ha fatto propri gli insegnamenti dei suoi maestri Stan Brakhage e Phil Solomon: lo si intuisce, tra l’altro, dall’uso del colore, saturo, sgranato e pieno. Ma il regista riesce a offrire uno stile personale, e a concedersi alla sperimentazione del linguaggio estetico. 
Una menzione particolare merita la splendida e toccante colonna sonora affidata da Derek Cianfrance a Mike Patton, geniale artista poliedrico, musicista da sempre ossessionato dalla ricerca di nuove sonorità e di linguaggi musicali alternativi. Ex front leader degli indimenticabili Faith No More, ha deliberatamente abbandonato la scena rock mainstream per dedicarsi in maniera infaticabile ad una serie infinita di progetti e collaborazioni artistiche incredibilmente eterogenee, dalle sperimentazioni con John Zorn, ai dischi con i Tomahawk e i Fantomas, concedendosi perfino una recente immersione nella musica italiana pop anni sessanta, insieme a Roy Paci, Vincenzo Vasi e l’orchestra filarmonica Toscanini, con il memorabile tour “Mondo cane”.
 
Mariangela Sansone 

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: The Place Beyond the Pines
Anno: 2012
Regia: Derek Cianfrance
Sceneggiatura: Derek Cianfrance, Ben Coccio, Darius Marder
Fotografia: Sean Bobbitt
Musiche: Mike Patton
Durata: 140’
Uscita in Italia: 4 aprile 2013
Interpreti principali: Ryan Gosling, Bradley Cooper, Eva Mendes, Rose Byrne, Ray Liotta.

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IL GRANDE E POTENTE OZ - L'illusione del cinema

11/4/2013

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Forse solamente chi si chiama Sam Raimi può riuscire in un’impresa simile: affondare le mani fino in fondo in quello che è un blockbuster a tutti gli effetti, e uscirne a testa alta senza aver minimamente compromesso il proprio status autoriale. Affrontare una commissione Disney, minarla alle fondamenta e rigirarla come un calzino, mantenendo lo stesso spirito anarchico, fanciullesco e puro: non c’è riuscito, ad esempio, Tim Burton con Alice in Wonderland, nonostante un finale eticamente “cupo” e scorretto (la protagonista che rifugge il mondo della fantasia e diventa imprenditrice); decisamente troppo poco per infondere personalità a un approccio che denunciava maniera ad ogni sequenza. 
Invece qui Raimi è esattamente il personaggio di James Franco, in preda all’estasi e al visibilio mentre nuota in mezzo ad un mare di monete d’oro, proprio come un Paperon de’ Paperoni; Raimi è il burattinaio che non si è mai stancato di giocare con il mezzo Cinema, tanto nelle incursioni horror quanto nelle mega produzioni Hollywoodiane; l’affabulatore e il giocoliere, l’artista e l’artigiano. Non importa se il budget è di 350.000 dollari (tanto costò La casa, nel 1981) o di 215 milioni, come in questo caso; si prenda ad esempio il tanto vituperato Spider Man 3, forse uno dei casi più ludicamente coraggiosi in tal senso: un blockbuster volutamente fallimentare, appunto perché inafferrabile, imprendibile, inclassificabile. E ciò che non vuole rientrare in nessuna categoria, di questi tempi, è visto di cattivo occhio, sempre.  Un film in grado di cambiare registro in continuazione e poi crescere, diventare sempre più grande, come l’Uomo Sabbia nelle sequenze finali; dove sembra quasi di scorgere l’ombra di un Godzilla, o di un King Kong, fare capolino ai margini dell’inquadratura. Chi altri, oggigiorno, avrebbe il coraggio di tentare un’impresa simile? Solamente Sam Raimi, appunto. 
Il grande e potente Oz è un altro tassello della meravigliosa poetica del suo autore, che non si lascia imbrigliare dalle restrizioni del colosso Disney ma che, anzi, piega in tutto e per tutto il committente al proprio volere di regista demiurgo; quasi fosse un remake in chiave pop del suo L’armata delle tenebre (a sua volta esplicitamente debitore del Mago di Oz originale), Raimi non manca di contraddistinguere il film con i suoi celeberrimi marchi di fabbrica: dalle soggettive impazzite alle accelerazioni da cartone animato, passando per i toni foschi di chi non ha mai dimenticato (né abbandonato) le proprie origini horror. 
Oz è tutto questo, e molto di più: un fantasy per famiglie, certo, ma che racchiude in sé l’essenza e la magia di questa strana cosa chiamata Cinema. Perché, sia detto, Oz è innanzitutto un film bellissimo e meraviglioso sul Cinema e le sue illusioni, sul fantastico e il terribile che si cela dietro ogni sequenza: un giro vorticoso sulle montagne russe, che parte dal 4/3 in bianco e nero per poi aprirsi magicamente alle profondità di un 3D in cinemascope. Una giostra dalla quale si esce storditi e confusi, ma allo stesso tempo estasiati per aver assistito a uno spettacolo che racchiude in sé tutte le meraviglie possibili della settima arte, nel quale il profluvio di effetti speciali ha lo stesso valore e la stessa carica simbolica di ciò che rimane all’origine di tutto quanto: un’ombra proiettata sul muro, né più né meno (come nella sequenza finale, tra James Franco e Michelle Williams). 
Dal kinetoscopio di Thomas Edison fino alle rivoluzionarie proiezioni tridimensionali di Avatar, il cinema è sempre stato questo, in fin dei conti: un fascio di luce che illumina il buio. E Oz ce lo ricorda ad ogni inquadratura, trasformando un volto proiettato dalla luce in arma definitiva contro le tenebre.

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Oz. The Great and Powerful.
Anno: 2013
Regia: Sam Raimi
Sceneggiatura: Mitchell Kapner, David Lindsay-Abaire
Fotografia: Peter Deming
Musiche: Danny Elfman
Durata: 127’
Uscita in Italia: 7 marzo 2013
Interpreti principali: James Franco, Michelle Williams, Mila Kunis, Rachel Weisz, Zach Braff.

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