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THE DRESSMAKER - Il diavolo è tornato

28/4/2016

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Un doppio ritorno, in effetti, la dichiarazione di The Dressmaker, già presentato al Toronto Film Festival, giunto un mese dopo in anteprima italiana a Torino e ora nelle sale:  un distacco di più di dieci anni dalla cabina di regia per Jocelyn Moorhouse, australiana come questo film e i suoi stilizzati luoghi; una riapparizione, un vero e proprio rimpatrio per Myrtle “Tilly” Dunnage, cowgirl con ago e tessuti a sostituire l’obsoleta pistola del far west cinematografico, ripiombata in città dopo decenni di esilio, e già dai primi sguardi torvi e notturni macchiata (e maledetta) eroina incatenata a un mistero dolente. 
La vecchia e puzzolente madre, Molly “La pazza”,  le sarà prima ingannevole maschera e poi rinnovata spalla per un passato da scoperchiare riesumando le sue vetuste rimozioni. Un fantomatico omicidio a farle da capo accusatorio (di cui ella non conserva alcuna lucida consapevolezza) e una nemesi allargata, prepotente, lo spirito di un villaggio conservatore che l’ha espulsa demonizzandola e che lei stessa ha saputo demistificare in un peregrinare cosmopolita, costruendosi l’immagine in un divario tutto moderno, che allo stile sartoriale d’haute couture guarda e che da esso prende le proprie mosse (di rivincita su una comunità medievale che l’ha resa strega per autoindotta necessità d’esorcismo). 
Ma l’input alla vendetta è a-tendenziale, in Tilly: più che regolare i conti barbaramente (ed è ciò che separa notevolmente l’opera da un revenge movie a tutto tondo) anela a un sentirsi accettata, a una restaurazione del suo ruolo e della sua affettività, della sua identità da detergere tramite l’imporsi della giustizia (non a caso unica arma impugnabile da una donna del Nuovo Mondo, almeno per le prime battute).  
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Il lavoro della Moorhouse non è certamente spurio da tematiche in precedenza affrontate (la propensione al sentimentalismo e alle dinamiche familiari, oltre che un deciso gusto per la tragedia), eppure quest’altro capitolo s’apre (e audacemente diremmo “così avrebbe dovuto mantenersi”) come un’efficace variazione sulla commedia cinica e disincantata, così sopra le righe per personaggi eccentrici e mai eccessivamente parodistici, per carica magnetica intelligentemente calibrata su una Kate Winslet, a metà tra femme fatale, germe estraneo dell’indipendenza femminile, impenetrabile outsider e donna rinchiusa nel dolore. 
Non poco concorre lo stile visivo alla perpetua ricerca di angolazioni significanti, virgolettature a rinsaldare l’idea di un’esperienza spettatoriale che scongiuri la docile linearità e la standardizzazione linguistica, pur non cedendo a orpelli virtuosistici. L’efficace brio caustico e dirompente che caratterizza un lasso che eccede dal mero preambolo finisce, però, per sgualcirsi, venendo letteralmente infettato da una mano di pece melodrammatica in acuta escalation (con il merito, certo, di non perdere mai l’assetto comico e di farne, anzi, sostrato basilare e integrante), mentre decessi francamente immeritati (e non meritati dalla protagonista) avvicinano l’oggetto a una scia di memoria hollywoodiana, a scomodare il caro fato che da sempre s’è accanito lacrimevole contro le eroine di tutti i tempi. 
Non è di happy ending o meno che si parla: la conclusione, poi, fa dell’impatto dell’esecuzione vendicatrice (e purificante) la sua più riuscita colonna; eppure, le sottolineature strettamente tragiche, l’idea di dramedy a cui sembra occhieggiare fatica ad amalgamarsi, compiuta, in una fattura che sia ordinata e coesa (anzi, nel tentativo di eccedere l’ordine scade quando la pur fresca e ammiccante sceneggiatura inciampa in un orizzonte di eventi prevedibili o stonati). 
In sostanza, è proprio quando The Dressmaker cerca di mescolare le carte e riassettare il mazzo che produce un effetto di confusione discorsiva, lasciando il fruitore al suo stesso limbo periferico, indeciso tra la godibilità orchestrata dell’opera e il suo accavallarsi di elementi talvolta aleatori e scartabili (al di là di una chiara intenzionalità che invece ben si esaurisce sul finale, ma che tende a perdersi nel percorso). Presto si dipana l’ossatura più strutturale di un melodramma che ossequia ognuno dei suoi principi storici, tra hybris originale, collettività ostile, morte che sopraggiunge implacabile a rinsaldare l’idea deterministica di una maledizione imbattibile, così com’è dalla protagonista esperita, specialmente quando essa stessa sembrava finalmente eclissarsi. 
Il destino di solitudine e di isolamento così si compie, a riportare l’adulta Tilly allo stato di esclusione e condanna della sua infanzia e senza possibilità di riscatto esistenziale, laddove i molteplici tentativi si asserviscono a una più generica imposizione divina (e a diversi deus ex machina drammaturgici). Il risultante è dunque una parabola circolare, ove il perno della narrazione subisce una sadica riduzione/nobilitazione nella figura di una donna-Messia che, pur nel sacrificio della propria essenza sociale, consegna al villaggio gli strumenti per la configurazione di un microcosmo possibile esulando da puritanesimo e parziale civilizzazione; certo, una metamorfosi soltanto potenziale, ai fatti impossibile perché parto di un onnipresente cinismo, e da attuarsi attraverso l’immagine nuova e moderna, la percezione di se stessi e la moda come scettro di potere e seduzione. 
Non sarebbe difficile, allora, ritenerla un’occasione mancata (forse nemmeno pensata). Il pragmatismo suggerisce che è nella volontà di dipingere la storia di una donna e della sua forza che giace il pensiero produttivo, pena una stratificazione non per forza sottotestuale ma più verosimilmente da lasciar affiorare. Un secondo suggerimento, quello per cui sono i caratteri ben congeniati e i quadri (parzialmente) stravaganti a centrare l’obiettivo, restituisce l’ipotesi che sia Kate Winslet, catalizzando, a fare ben oltre la sua parte. Un film riuscito, ma a metà.   

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: The Dressmaker
Anno: 2015
Regia: Jocelyn Moorhouse
Sceneggiatura: Jocelyn Moorhouse, P.J Hogan 
Attori: Kate Winslet,Judy Davis, Liam Hemsworth, Hugo Weaving
Musica: David Hirschfelder
Fotografia: Donald McAlpine
Durata:  118’
Uscita italiana: 28 aprile 2016

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ASCENSORE PER IL PATIBOLO - Amour fou e destino

5/4/2016

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Rivista oggi, l’opera prima di Louis Malle si configura ancora come un incredibile crocevia di suggestioni e contenuti che sembra costantemente sfuggire allo sguardo: perché è impossibile contenerla tutta e riassumerla in un giudizio, in un’idea; come se cercasse di scappare via rifiutandosi qualsiasi catalogazione o incasellamento. 
Lo stesso contesto storico, del resto, da solo spiega tantissimo: Ascensore per il patibolo esce nelle sale nel 1957, anticipando di pochissimo la rivoluzione della Nouvelle Vague e, allo stesso tempo, facendosi carico dell’eredità del polar metropolitano che aveva visto in Jean Pierre Melville il suo pioniere più  rappresentativo. Non è un caso, allora, che il film si ponga esattamente a metà strada tra il noir e il melò, attingendo da entrambi i generi senza però appartenere compiutamente all’uno né all’altro. Un oggetto vivo e magmatico, in costante divenire, dalla progressione narrativa sperimentale e quasi improvvisata, come se si trattasse di una partitura jazz cadenzata dalla tromba di Miles Davis in colonna sonora.  
La sequenza di apertura, poi, è già storia: il dialogo tra due amanti al telefono, la macchina da presa incollata in un primissimo piano sugli occhi di lei (Jeanne Moreau), per poi allargarsi quasi timidamente, nel timore di lasciarla scappare via; il tutto mostrato attraverso un montaggio libero e (apparentemente) senza regole, quasi a voler anticipare il capovolgimento delle convenzioni stilistiche, il loro superamento, che sarebbe arrivato di lì a pochissimo (Fino all’ultimo respiro di Godard è del 1960). 
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Tratto da un romanzo di Noèl Calef, Ascensore per il patibolo racconta la vicenda dei due amanti Florence e Julien, in procinto di uccidere il marito di lei simulandone il suicidio. Il piano riesce, ma il destino ci mette lo zampino e Julien rimane bloccato tutta la notte dentro un ascensore, mentre Florence vaga ossessivamente per la città alla sua ricerca. Nel frattempo, l’auto di lui viene rubata da un giovane sbandato insieme alla sua ragazza, e i due la utilizzeranno per compiere un omicidio del quale verrà incolpato Julien. 
Nelle mani di Malle, un intreccio fin troppo denso di colpi di scena si trasforma immediatamente in altro: capovolgendo le regole del noir (contrariamente ai luoghi comuni del genere, l’omicidio passionale avviene all’inizio e fin troppo facilmente,  senza incontrare alcuna difficoltà) e innescando continuamente nuovi motori narrativi, l’esordiente regista compie una personalissima riflessione sul rapporto indissolubile tra amour fou e destino, impedendo di fatto allo spettatore di identificarsi in alcun personaggio, poiché nessuno è esente dal peccato. 
Un viaggio al termine della notte lucido e spietato, come nella migliore tradizione noir, nel quale la felicità è un miraggio costantemente inseguito ma impossibile da raggiungere, esattamente come il peregrinare notturno di Jeanne Moreau sulle note di Miles Davis, vera e propria digressione stilistica che manda in frantumi le rigide geometrie del genere, catapultando violentemente all’interno del film una sensibilità romantica e morbosa, malinconica e disperata. Non è un caso che i due amanti non compaiano mai nella stessa inquadratura e nella stessa scena (fatta eccezione per alcune fotografie mostrate nel finale), condannati da un fato implacabile che impedisce il coronamento del loro amore – la splendida scena della telefonata nella già citata sequenza di apertura sembra allora già presagire le distanze incolmabili tra i due destini.  
Un film fatto di contraddizioni e di elementi in aperto contrasto tra di loro, come il rapporto tra spazi antitetici (l’ascensore claustrofobico e soffocante in contrapposizione alle strade immense di una Parigi meravigliosamente notturna), ennesima rimarcazione di due mondi e universi che non potranno mai incontrarsi.

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Ascenseur pour l'échafaud
Regia: Louis Malle
Sceneggiatura: Roger Nimier, Louis Malle
Attori: Jeanne Moreau, Maurice Ronet, Georges Poujouly, Yori Bertin, Lino Ventura, Ivan Petrovich, Elga Andersen
Anno: 1957
Durata: 88’
Fotografia: Henri Decaë
Musica: Miles Davis
Uscita italiana: 4 aprile 2016 (riedizione)

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