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LA LUNA SU TORINO - Sorrisi in cerca di equilibrio

31/3/2014

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Ugo, over 40 sui generis che gira solo in bicicletta o sulla tranvia Sassi-Superga, non riesce con le donne, guarda anime spinti annoiato e cerca la compagnia di persone anziane. L'uomo ha ereditato una bella casa in collina, dentro cui ospita Maria, single che lavora in un'agenzia di viaggi, e Dario, il più giovane, che si divide tra tentativi di studio universitario e l'impiego presso un bioparco. I tre vivono un'esistenza che, segnata dai dubbi e dalla ricerca di un posto nel mondo, della felicità e della realizzazione sentimentale, non può dirsi “sistemata”. E sulla casa incombe un'ipoteca che significherà l'approdo, per ciascuno di loro, a strade diverse.
Presentato (fuori concorso) all'ultimo festival di Roma, giunge nelle sale il nuovo lavoro di fiction del torinese d'adozione Davide Ferrario. In questi giorni il capoluogo sabaudo è pieno di manifesti del film che porta Torino sugli schermi italiani, come rileva con orgoglio la tagline e che inevitabilmente si riallaccia al fortunato Dopo mezzanotte; questa volta però la distribuzione è a cura della piccola Academy 2.
Di nuovo un triangolo di protagonisti uomo-donna-uomo, anche se questa volta si tratta di amici, ognuno dei quali cerca o cerca di seguire la sua via; di nuovo, ma in misura nettamente minore, il cinema muto, di cui Maria, che sogna di essere attrice, è appassionata; di nuovo l'utilizzo della voice over che, tra citazioni leopardiane e frasi dell'aspirante scrittore Dario, dispensa pillole di senso della vita e torinesità; e di nuovo, appunto, la città piemontese, in cui il film è immerso un po' più estesamente (ma con sconfinamenti) rispetto alla pellicola del 2004, che aveva la Mole come ambientazione principale. Il tutto a partire dal cullante inizio, con la cinepresa che si muove su pezzi di Torino o ne inquadra scorci dall'alto, mentre siamo introdotti al refrain: trattasi di metropoli posta sul 45esimo parallelo, quindi a cavallo tra i due emisferi, dove i suoi abitanti cercano di restare, in senso metaforico, in equilibrio. Collocazione astutamente utile per la cospicua sponsorizzazione del centro commerciale 45° Nord: ma il film è anche, esplicitamente, un veicolo promozionale per il bioparco Zoom, in cui Dario lavora (insegne e loghi delle due strutture, entrambe fuori città, godono di alcune inquadrature ad hoc).
Detto tutto ciò, resta la questione se La luna su Torino sia un lavoro riuscito: purtroppo, si rivela in linea con le non alte aspettative. Ferrario gira un film ancora più lieve, sognante e dolceamaro del predecessore, spingendo al contempo il pedale dell'esistenzialismo: i personaggi vivono tra incertezze (Maria che si chiede se sposarsi o meno) e speranze per il futuro, desideri irrealizzati (il “rapporto carnale” che Ugo vorrebbe avere con qualcuna, meglio se con Maria), tensioni verso un altrove non solo temporale ma anche geografico (a cominciare dai clienti dell'agenzia di viaggi). E serve il tutto con riflessioni più o meno consistenti, che a volte danno l'impressione di ciurlare nel manico.
Il risultato finale è un gradino sotto Dopo mezzanotte. Qui, come là, l'autore non mostra una bella mano per la commedia e, più che là, gira senza convincere, steccando di tono e misura. Non necessariamente di molto, ma abbastanza da far visionare il film con una smorfia di perplessità che qualche volta si muta in gelo (la battuta su D'Annunzio): a parte occasionali gag goliardiche (in un insieme, comunque, sostanzialmente privo di volgarità), si distingue il simpatico guizzo dei pinguini costretti ad ascoltare Radio Radicale.
La colpa è scarsamente addossabile agli interpreti, alle prese con personaggi non ripaganti: soprattutto Ugo, non antipatico, ma improbabile (volutamente? Sì, ma non convince lo stesso) nel suo leggere Leopardi anche mentre è in cucina, improbabile quanto la consolazione forzata che il film gli concede, ovvero finire sotto le coperte con una bella commessa (amica di Maria) che con lui c'azzecca poco. Poteva esserci, forse, un minimo di potenziale da commedia nelle dinamiche di convivenza dei protagonisti, ma con i personaggi si crea scarsa empatia: quelli di Dario e Maria stentano a essere definiti e i tre paiono messi insieme solo per comodità. Se Ugo e Maria, nella sequenza del pranzo a quattro, battibeccano, Dario nel corso del film si fa perlopiù i fatti suoi. A forza di procedere con leggerezza, poi, il film pare quasi slegato, oltre che volatile.
Tra modestissimo divertimento e ben pochi momenti memorabili, La luna su Torino si guarda con interesse assai relativo, non incide e poi si può dimenticare. Se riuscirà a far interessare gli spettatori a Torino e dintorni e muovere un po' di turismo non avrà fallito i suoi scopi, ma non è da mostrare a chi già nutre pregiudizi sul nostro cinema.

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia e sceneggiatura: Davide Ferrario
Fotografia: Dante Cecchin
Musica: Fabio Barovero
Cast: Walter Leonardi, Manuela Parodi, Eugenio Franceschini, Daria Pascal Attolini
Uscita: 27 marzo 2014
Durata: 90'

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JIMMY P. - Le strade perdute della parola

24/3/2014

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Oggetto di pesanti critiche e incomprensioni, Jimmy P. è stato considerato una delle più grandi delusioni del concorso dell’ultimo festival di Cannes. Una sorpresa amara per tutti i fedeli ammiratori di un regista, Arnaud Desplechin, mai incline al compromesso e sempre portavoce di uno sguardo unico e mai convenzionale sulla realtà delle cose. E le premesse di questa sua ultima fatica, effettivamente, sembravano costruite appositamente per trarre in inganno: tratto dal saggio Psychothèrapie d’un Indien des planes, dello psicanalista e antropologo Georges Devereux (qui interpretato da Mathieu Amalric), Jimmy P. è il primo film in lingua inglese del regista e il primo realizzato in territorio statunitense. 
Un connubio mai facile, quello tra cinema e psicanalisi, volto molto spesso a semplificare una materia enormemente complessa a vantaggio della spettacolarizzazione delle emozioni, come a voler scegliere sempre e comunque il tragitto più facile e breve per arrivare a destinazione. In realtà il film di Desplechin non sembra affatto intenzionato a ripercorrere quei sentieri già ampiamente battuti da altri in precedenza, anche se, per la prima volta nella sua filmografia, oggi sembra palesarsi maggiormente uno scarto tra le intenzioni e il risultato finale. Ma andiamo con ordine. 
Il film racconta il rapporto che viene a formarsi tra Jimmy Picard, un indiano della tribù dei Piedi Neri, e lo psicanalista chiamato a seguire il suo caso. Siamo nel Kansas del 1948: Picard è un reduce della Seconda Guerra Mondiale che, come molti altri, è ritornato in patria accusando diversi malesseri dei quali i dottori non riescono a trovare spiegazione. Il percorso di cura intrapreso da Devereux porterà alla scoperta dell’origine dei suoi traumi, ma allo stesso tempo servirà anche allo psicanalista per imparare a comprendere meglio una parte di sé. 
Desplechin è abile nell’evitare le trappole del film di ambientazione ospedaliera, cercando continuamente una via nuova al genere: per fare questo, continua in quell’opera di trasfigurazione del narrato che da sempre è costante del suo cinema. Senza mai eccedere in sperimentazioni teoriche, anche Jimmy P. è un film che fa del confronto/scontro tra entità diverse il perno intorno al quale svilupparsi e crescere, attraverso la funzione della parola. E non potrebbe essere altrimenti, poiché tutto si muove entro i confini di una situazione specifica e ben definita come appunto può essere una seduta psicanalitica. Ma è un film che esce sempre dai confini dell’ospedale, che viaggia sempre sull’onda evocata dai dialoghi tra i protagonisti, per vivere in una dimensione che travalica la prigione dei luoghi fisici per assumere sembianze proprie. 
Non è una biografia, innanzitutto, nonostante quella didascalia in apertura (“tratto da una storia vera”) tenti in tutti i modi di portare lo spettatore fuori strada. È un viaggio, in fin dei conti. Un road movie tutto interiore che trova nel linguaggio la propria strada, le proprie lost highways sterminate sulla quali correre e perdersi. Jimmy P. è il racconto di una presa di coscienza (anzi, di due) che avviene attraverso la trasformazione della parola in immagine, attraverso un dualismo che permette all’inconscio e alla personalità di emergere e di affermarsi completamente grazie all’incontro, all’avvicinamento con l’altro. E lo fa utilizzando gli strumenti del cinema classico, con una narrazione squisitamente pacata e con una sensibilità tutta personale nell’utilizzo degli spazi. Guardando tanto a Truffaut (impossibile non pensare a Il ragazzo selvaggio) quanto a John Ford, e infatti non è certamente un caso che, a un certo punto, i protagonisti si ritrovano al cinema a guardare Alba di gloria. 
Forse però tutto questo non ci basta, è vero: forse ci dovremmo sentire in dovere di chiedere qualcosa di più a Desplechin. Forse, per la prima volta, questo suo viaggio interiore a tratti ci appare quasi meccanico, mai inedito, già visto. Forse avremmo preferito correre liberamente anche noi in quelle praterie, come fa il giovane Jimmy nei ricordi evocati attraverso la seduta; invece è un piacere che ci viene quasi negato. Perché il tentativo, in parte riuscito, di evadere dalla struttura asfissiante dell’ospedale dà l’impressione di una prova incerta e soffocata, colpevolmente sospesa tra il desiderio di sperimentazione e l’aderenza a un classicismo negato ma pur sempre all’erta. 
Ma se questo dovesse significare ignorare completamente il film o, peggio, bollarlo sbrigativamente senza riconoscerne le qualità, allora preferiamo schierarci apertamente entro le fila dei sostenitori. Con riserva, ma pur sempre entusiasti.

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Jimmy P. (Psychotherapy of a Plains Indian)
Anno: 2013
Regia: Arnaud Desplechin
Sceneggiatura: Arnaud Desplechin, Kent Jones, Julie Peyr
Fotografia: Stéphane Fontaine
Musiche: Howard Shore
Durata: 117’
Interpreti principali: Benicio Del Toro, Mathieu Amalric, Gina McKee, Larry Pine, Gary Farmer, A Martinez

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LEI (HER) - Narciso nella rete

13/3/2014

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Ti ho tanto sognato che diventi irreale.

C’è ancora tempo per afferrare il tuo corpo vivo e baciar sulla bocca lo zampillo della voce che mi è cara? (Robert Desnos, Ti ho tanto sognato)

“Ricordo quando ho cominciato ad amarti come fosse l’ultima notte… Prima stavo vivendo la mia vita come se sapessi tutto, poi all’improvviso questa luce abbagliante mi ha colpito e mi ha svegliata; quella luce eri tu”. L’amore può apparire come una forzatura dell’essere, una costrizione inconsapevole alla scissione del proprio io per donarlo all’altro, indifferentemente da chi esso sia, e allo stesso tempo una medicina per l’anima, come riportato nel Simposio di Platone: “cercando di far uno ciò che è due, Eros cerca di medicare l'umana natura”.
Theodore Twombly (Joaquin Phoenix) vive di sentimenti. Il suo lavoro è scrivere lettere per innamorati che non ha mai conosciuto o incontrato; la sua idea dell’amore, che trapela dal suo stile di vita e dalle sue parole, è immensamente alta, vicina al divino, lontana dalle materialità umane.
Spike Jonze presenta Theo, sin dalla prima scena, come una creatura solitaria, sensibile ed emotiva, che riesce a guardare oltre la dura scorza dell’umanità, nuotando tra le onde dei flussi emozionali delle persone, leggendo le sensazioni e le trepidazioni del cuore ma essendo incapace di costruire i propri rapporti interpersonali.
“Tu sei per una parte uomo e per una parte donna; questa è la tua parte interiore, ed è femminile”. Come in una sorta di ermafroditismo emozionale, Theodore è capace di un amore puro e incondizionato ma non cerca la fisicità di una compagna; si rifugia invece nello spazio virtuale del p.c., perso tra chat erotiche e videogiochi che simulano la vita reale, alla ricerca di un fremito, “dell’irreale intatto dentro il reale devastato. Dei loro meandri avventurosi cerchiati di richiami e di sangue. Di quanto fu scelto e non toccato, dalla sponda del balzo alla proda raggiunta, del presente irriflesso che scompare” (René Char, Fogli d'Ipnos, 1943-1944).
Il giovane scrittore è così pieno d’amore da bastare a se stesso. Il leitmotiv della sua esistenza risiede nella paura di essere nuovamente deluso, dopo il fallimento di un matrimonio, e nella ricerca della sua interiorità riflessa nel prossimo; uno specchio convesso che gli restituisca il sentimento strabordante che dona attraverso la sua anima e le lettere che scrive, in una partenogenesi assessuata del proprio Io.
La relazione tra Theodore e il suo OS1, Samantha (nella versione originale la voce di Scarlett Johansson), sistema operativo di ultima generazione, è un rapporto a distanza, approdo del cyberspazio virtuale di internet, nato tra i meandri della rete; un rapporto che diventa metafora delle relazioni che nascono nella società contemporanea, in cui è sempre più difficile, e forse meno gradito, interagire direttamente. L’affinità etimologica dei nomi dei due amanti (entrambi “doni di Dio”) svela la natura autarchica della relazione, consumata tra Theodore ed il suo alter ego femmineo, un perfetto incastro simbiotico sentimentale.
Her, l’ultimo film di Spike Jonze, presentato in anteprima durante l’edizione 2013 del Festival Internazionale del Film di Roma e premiato con l'Oscar per la sceneggiatura, conserva il linguaggio estetico che caratterizza i lavori precedenti del regista. La poetica struggente di Her si muove tra il razionale e l’irrazionale, il concreto e l’esubero incontenibile di immaginazione, ma in particolar modo tra il visibile e l’invisibile. L’opera di Jonze sembra prendere forma dalla tela magrittiana "Les amants" (1928), con gli amanti velati che si amano nell’impossibilità di comunicare e di amare, ed echeggia anche "Ettore e Andromaca”, di Giorgio De Chirico (1917), in cui tale impossibilità è aggravata dalla simulazione di un’umanità fittizia, come capita nella scelta di Theodore di affidare la propria solitudine e i propri sentimenti a un sistema operativo. “Negli amanti non vi è materia, essi sono un tutto vivente” (Friedrich Hegel).
La quotidianità è avvolta dalla luce abbacinante della metropoli americana, in cui le persone sono mondi autonomi, isolati l’uno dall’altro, disposti a comunicare unicamente attraverso filtri tecnologici; i toni si fanno più intimisti e caldi nelle abitazioni, i colori si accendono di sfumature notturne; le luci e i filtri usati regalano un’estetica patinata a tutto il film, in cui a predominare sono i rossi accesi e gli algidi blu, in una continua contrapposizione simbolica tra la passione incontenibile e l’incapacità di gestirla che genera una malinconica afflizione.
Her rispecchia lo stile patinato, e a tratti visionario che da sempre distingue le opere di Jonze, dai videoclip diretti per i Beastie Boys, Fatboy Slim o Björk sino a lungometraggi come Essere John Malkovich e Nel paese delle creature selvagge, saldamente posizionati su quella linea sottile tra ironia e malinconia che caratterizza la sua intera produzione.

"L'amore fa male, ma la mancanza d'amore ancora di più." (David Lynch)

Mariangela Sansone

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda Tecnica

Titolo originale: Her
Anno: 2013
Regia: Spike Jonze
Sceneggiatura: Spike Jonze
Fotografia: Hoyte Van Hoytema
Musica: Karen O, Arcade Fire
Durata: 120'
Uscita in Italia: 13 marzo 2014 
Interpreti principali: Joaquin Phoenix, Scarlett Johansson, Olivia Wilde, Amy Adams, Rooney Mara

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FRUITVALE STATION - Un giorno della vita

13/3/2014

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Oggi è l’ultimo giorno nella vita del ventiduenne afroamericano Oscar Grant. Il primo fotogramma del film è la sua fine. Vediamo Oscar morire. L’occhio della cinepresa ruba lo scatto di una fotocamera e ci dà l’immagine della morte. Ma come? Perché? Cosa lo ha portato al bivio della vita? Meglio riprendere il filo, e riavvolgere idealmente il nastro di quell'ordinaria giornata. L’ultima della sua breve, buona, necessaria eppur spezzata esistenza.
Oscar (Michael B. Jordan) è uno dei sobborghi. Giovane, anzi giovanissimo, conduce una vita scapestrata ai margini della legalità. È un irresponsabile ventenne padre di una bimba adorabile. Non un papà modello, dunque, ma un ragazzo ancora in cerca di se stesso, con una dimensione familiare netta e impegnativa a richiamarlo costantemente all’ordine. Oscar non sa che questo sarà l’ultimo giorno della sua vita, e va incontro al suo destino come un qualsiasi essere umano inconsapevole della tragedia dietro l’angolo. Si divide tra gli amici, gli ammonimenti della madre (Octavia Spencer), gli abbracci della figlioletta, la fidanzata, i programmi per la serata di capodanno. Quella sera. Quella in cui ogni inspiegabile coincidenza lo porterà a trovarsi in quella fermata della metropolitana, in quel preciso momento, coinvolto suo malgrado in una sparatoria, bloccato da due agenti di polizia dal grilletto facile e poi colpito fatalmente da un proiettile esploso senza ragione. In quel momento Oscar scatta una foto che diventerà il suo testamento e la prova dei fatti.
Fruitvale Station non è un film sul destino, né sulle coincidenze. Non ha l’ambizione di un affresco di genere o di costume. I temi sociali sono un corollario. Il fulcro, il nodo, è la vita di Oscar Grant. Il regista Ryan Coogler racconta con semplicità quel giorno della vita, e attorno alla figura del giovane protagonista fa ruotare ogni elemento, personaggio, tassello, ambiente. Si può dire che per metà film non accada nulla, o meglio nulla che valga la pena di essere rappresentato in una pellicola. Quello cui assistiamo è la messinscena della vita quotidiana. Eppure siamo lì, osserviamo, colpiti, noi che già sappiamo cosa accadrà. È banale, se si vuole. Il racconto procede come una lenta caduta nell’ignoto, con picchi di accelerazione tragica verso il punto di raccordo. Oscar fermato dalla polizia. Oscar picchiato. Un colpo mortale. Quel fotogramma. Oscar che riprende se stesso morire. Ecco ciò che ci accompagna e ci guida avanti e indietro nella storia, tra presente e passato, e poi ancora presente, rivolti al futuro. L’impalpabile tensione è data proprio dalla consapevolezza che Coogler ci ha dato: noi, impotenti spettatori, rimaniamo attoniti nel guardare come si strappa una vita al corso naturale.
Quella di Oscar Grant è una storia vera che ha commosso e sconvolto l’America. Due poliziotti, alti, biondi, bianchi, impreparati, zelanti al limite della spavalderia, presuntuosi, fondamentalmente insicuri. E un giovane innocente, vittima della paura, di quel razzismo che esiste ma non si dice. Oscar Grant è Rodney King e la periferia di Oakland, dove si svolge la vicenda, è Los Angeles.
Alcuni film hanno un valore estraneo a quello strettamente cinematografico. È questo il caso di Fruitvale Station, opera prima di Ryan Coogler, che arriva nei cinema italiani dopo essere diventato un piccolo caso su suolo americano. In patria, l'opera non ha solo rappresentato l’esempio di come si possa produrre un bel film con un budget minimo, ma è giunto in una strana coincidenza di fatti e di eventi a suonare come un grido, un urlo di ribellione. Era ancora sulle prime pagine di tutti i giornali il caso dell’assassinio dell’afroamericano Travyon Martin per mano del vigilante George Zimmermann (caso conclusosi con l’assoluzione di Zimmermann), con il Presidente Obama che aveva detto “Travyon avrei potuto essere io”. La cronaca è diventata il ring della politica, e i media una cassa di risonanza potente. La coincidenza di questi due elementi ha contribuito a creare il successo di Fruitvale Station, che ammicca (benché con onestà) anche al mondo civile, non solo a quello della sala cinematografico.
Consapevole del peso di portare una così delicata storia vera sullo schermo, Coogler non manca mai di sottolineare la differenza tra realtà e finzione, rispettando la memoria del vero Oscar Grant e, in uno slancio di autocompiacimento, chiamando se stesso non solo al ruolo di regista, ma a quello di narratore delle storie degli invisibili, di difensore degli emarginati. È il film inteso come dispositivo, in un gioco di scatole cinesi in cui si usano le forme espressive di altri media (come il telefonino) adottandone la prospettiva e i codici visivi per il racconto in tempo reale, per il concetto di verità del momento che si compie e al tempo stesso si immortala. Il filmmaker mette se stesso e i propri mezzi al servizio della comunità, svolgendo l’ambizioso compito di trasformare il privato in pubblico, affinché tutti possano sapere.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Fruitvale Station
Regista: Ryan Coogler
Sceneggiatura: Ryan Coogler
Attori: Michael B. Jordan, Octavia Spencer, Melonie Diaz, Kevin Durand, Chad Michael Murray
Durata: 85'
Anno: 2013
Distribuzione: Uscita italiana il 13 marzo 2014

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