L’oggettivizzazione non è nel visibile, ma vive e si nutre come coalescenza dell’invisibile; ciò che emerge è puramente sensoriale, “il senso è visibile, ma non è incompatibilità tra l’invisibile e il visibile: il visibile ha esso stesso una membratura di invisibile, e l’in-visibile è la contropartita segreta del visibile, non appare che in esso […] è nella linea del visibile, ne è il fuoco virtuale” (1).
Cosa si cerca nel visibile se non la presenza dell’invisibile, nascosto tra le immagini, tra gli interspazi dove vivono molteplici forme e si annidano i fantasmi di Derrida. Sempre in quegli interspazi lo sguardo è libero dai limiti dell’immagine, va oltre, un oltre che supera i limiti della prigione visiva, muovendosi in una zona d’ombra illuminata dal visto e dal non visto, usando, godardianamente, “la luce, come giovinezza dell’oscurità”.
1) M. Merleau - Ponty, Il visibile e l’invisibile, p. 248.
Personal Shopper, di Olivier Assayas, ruota intorno alla figura di Maureen (Kristen Stewart), una ragazza americana che lavora, appunto, come personal shopper, per una celebrità, Kyra. Il piano sequenza iniziale conduce lo sguardo dello spettatore in una villa decadente, scura e piena di ombre; la mdp segue da vicino la giovane donna nella perlustrazione della casa, nei movimenti tra l’oscurità di un luogo/non luogo, in ambienti che perdono la matericità della loro essenza divenendo astrazioni metafisiche.
Nella ricerca di presenze fantasmiche, di corpi che hanno perso la loro consistenza tangibile e terrena, ci si muove, in realtà, tra le tenebre di Maureen, nel non luogo della sua anima, ferita, smarrita, sconosciuta. L’indagine è il tentativo di decifrare l’invisibile, muovendosi tra le sue pieghe, nelle sue zone buie, nelle zone buie di Maureen.
Non è la trama a rivestire importanza, ma la sua funzionalità interpretativa dei simboli e delle allegorie; il tessuto metaforico è parte fondamentale della lingua filmica adottata da Assayas in questo suo ultimo lavoro. Il notturno è espanso e dilatato, penetra negli interni, come spazia negli esterni, grigi e privi di luce; Maureen si confronta sempre con l’oscurità, nella dialettica continua della sua interiorità che si riflette nello specchio convesso della realtà esteriore. Le abitazioni sono angoli stretti e cupi, illuminate da bagliori artificiali, come i fari del motorino di Maureen che si muovono nella notte.
Il cielo è plumbeo ed il cuore è appesantito dallo smarrimento di una parte di sé; la voragine lasciata dall’assenza spinge a cercare tra gli oggetti, negli spazi vuoti, nell’invisibile che vuole restare tale, non percepito. È un deambulare incerto e cieco, l’attesa di un segno in cui lei stessa, per prima, non crede. Ciò che vede è forse solo il fantasma di se stessa; la figura ectoplasmatica è la trasposizione della sua anima che vomita domande cui non trova risposte, “un’attitudine intenzionale della coscienza tesa a confrontarsi con una cosa in quanto immagine” (2).
2) J.J. Wunenburger, Filosofia delle immagini, Einaudi, Torino, 1999, p. 116.
La ricerca non è tanto mirata sulla conoscenza di un altrove, ma è un’indagine sull’identità di un corpo desiderante di mutarsi in altro; la percezione di incompletezza spinge Maureen, medium come il suo gemello, verso un mondo parallelo, ora nell’attesa di un segnale dal fratello scomparso, ora trascinata dalla volontà di assumere sembianze altrui, di uscire da sé. La mutazione avviene quando sveste i propri panni, tra la paura del proibito e l’eccitazione di essere altro; il suo corpo, spigoloso e androgino, si accende nel letto di Kyra indossando i vestiti che sceglie per lei. In un processo di osmosi continua tra la ragazza e la donna per cui lavora, nella confusione totale di identità tra le due, la dialettica tra i corpi delle donne è erotica, di un erotismo consumato a distanza, tra carni che chiedono di essere vestite e denudate.
La materializzazione del desiderio è il desiderio del proibito, è l’illusione dell’occhio che imprime sulla retina ciò che desidera: essere altro, avere finalmente una forma, essere corporea. Tutto è evanescente intorno a Maureen, i rapporti sono simulacri privi di affettività, passano attraverso gli schermi, riflettendo solo l’immagine di una donna sola e (s)vuotata, un involucro di solitudine. I dialoghi con l’altro avvengono attraverso le chat e i messaggi sono privi di corpo, di consistenza, così il vuoto creato tra il reale e l’immaginario è lo spazio in cui prende forma un drammatico tentativo di comunicazione, anche se il contatto ricercato è quello con la morte; la tangibilità del fantastico è cosa più concreta dell’incomunicabilità umana.
Tutto è funzionale ad instaurare una dialettica tra visibile ed invisibile, tra realtà e irrealtà: le opere di Hilma af Klint sono la giuntura tra due mondi, composizioni dialettiche tra diverse dimensioni, tra organico e inorganico, frutto di visioni fluttuanti in un tempo sospeso, dove la carne perde la sua consistenza e i corpi la loro composizione materica. Il cigno, del 1915, nel suo contrasto geometrico e cromatico, nell’incastro perfetto di due sezioni speculari, è la congiunzione astratta tenuta da vettori ideali, tesi come corde, che uniscono l’opposizione tra due piani paralleli ed opposti e, allo stesso tempo, un salto nel contrario.
L’occhio di Maureen è travolto, girato nel suo interno; osserva e si osserva, un’interiorità vacua che si riflette nell’esteriorità architettonicamente aspra, spigolosa e ostile, come il volto e il corpo della donna, privo quasi di sessualità, spoglio di forme e di curve. La mdp la segue da vicino, come un prolungamento dei suoi arti; è parte organica, a tratti si allontana, regalando allo sguardo un campo largo e acuendo il senso di smarrimento della ragazza. La solitudine si percepisce nella bidimensionalità dell’immagine schiacciata, soprattutto tra le pareti dell’appartamento di Kyra, dove i cromatismi virati sulla carnalità del seppia accompagnano le carezze e l’eccitazione di un orgasmo solitario; il piacere non è condiviso con nessuno, ma è solo un monologo.
Tutto precipita nel vuoto che ha una sua forma, una sua consistenza, si fa materico e si muove in scena, nelle assenze, nei movimenti degli oggetti; il vuoto è soggetto stesso del filmico, è percezione e percepito, osservato ed osservante, favorendo la dinamica tra lo sguardo e l’ambiente. L’immagine ha una sua dualità, è come se fosse riflessa in uno specchio, immagine speculare ed immagine reale, trovando la sua oggettivizzazione nell’elemento simbolico.
“I know you”. In quelle parole scritte su uno schermo, provenienti da un’entità sconosciuta, priva di corpo, è racchiusa l’indagine. La spinta è la conoscenza della propria identità; la ricerca è il contatto con se stessa: sentirsi, toccarsi, per trovarsi, per avere carne e consistenza. E il desiderio proibito risiede proprio nell’osservarsi e nell’essere osservato: “L’enigma sta nel fatto che il mio corpo è insieme vedente e visibile. Guarda ogni cosa, ma può anche guardarsi, e riconoscere in ciò che allora vede “l’altra faccia” della sua potenza visiva” (3).
3) M. Merleau - Ponty, L’occhio e lo spirito, p.18
Dalle ombre sezionate da riflessi sporadici di luce fredda, dalle tenebre interiori di Maureen finalmente arriva l’atteso segnale; il movimento a ritroso chiude un campo largo, concentrandosi sul dolore del viso e sul miracolo della conoscenza: mentre una lacrima scende fluida sul viso, su una domanda lo schermo si inonda di luce accecante, totale. “Sono io?”.
Come sostiene Paul Valéry: “la luce suppone d’ombra una smorta metà”.
Mariangela Sansone
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Regista: Olivier Assayas
Interpreti: Kristen Stewart, Lars Eidinger, Nora von Waldstätten
Fotografia: Yorick Le Saux
Sceneggiatura: Olivier Assayas
Anno: 2016
Durata: 105'
Uscita italiana: 13 aprile 2017