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AMERICAN SNIPER - Un cecchino nella tempesta

4/1/2015

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Picture
C’è un scena in American Sniper che vale per densità e intelligenza l’intero film: Chris Kyle ha appena ucciso il temibile cecchino nemico e, mentre la sua squadra prepara la fuga, una tempesta di sabbia si abbatte sul complesso residenziale che fa loro da trincea e confonde tutto in un manto uniforme, dentro al quale terra e cielo diventano indistinti. Come il segnale divino di un dio della guerra (o il Nulla de La storia infinita), la tempesta acceca, sparpagliando uomini e armature.
In un passaggio di polvere il luogo del conflitto diventa un non luogo senza contorni, dove stavolta il nemico da abbattere è il vuoto in cui in un attimo si è dissolto tutto, terra e nemico. Clint Eastwood ci introduce brillantemente nei perimetri di una guerra obnubilante, con uomini addestrati a entrare nella testa di un nemico che è nemico e nient’altro, costretti a capire gli spazi tortuosi e i tempi senza ore di un luogo arido, lontano da gloria, bandiere strette alle bare, tavole abbondanti.
Si parte dritti dal ferro dei carri armati, da cingoli e corazzature sporche. Per terra, i soldati si trascinano ordinatamente, calpestando macerie, calcinacci, sangue raggrumato da sedimenti e sedimenti di polvere. Con lo sguardo vago e scoperto all’odio nemico, i soldati cercano un pericolo che cambia forma e mezzi, che proprio perché sembra invisibile è ovunque lo sguardo si posi. Dall’alto un uomo letale sorveglia il passo esitante dei suoi compagni, confinato in una torretta di controllo perché sa dove guardare, contro chi puntare.
Addestrato a gestire il respiro e a numerare le minacce abbattute, Chris Kyle (Bradley Cooper) è un corpo disteso con gli occhi sbarrati, uno sulla realtà dove i nemici non si vedono, l’altro sul mirino telescopico del suo M40, sguardo artificiale che rivela il pericolo e giustifica il gesto che non può esitare un secondo di più. Con uno stacco azionato da un colpo di fucile, il film scopre l’infanzia di Kyle: la caccia, la messa e una lezione sul sano, giustificato esercizio della violenza con cui il pater familias indottrina maggiore e minore dei suoi due figli. Da subito ci viene fatto capire che è da lì, dalla ruvida realtà del Texas, che derivano i sentimenti che fanno l’etica dell’eroe americano: ostinata volontà, cognizione del bene, senso del dovere, amor di patria.
La parentesi sulle origini si richiude sulla scena di apertura lasciata sospesa al momento dello sparo: con un espediente povero, certo furbo, la regia declama a gran voce che dietro al gesto deciso e fendente di un soldato c’è il suo mondo di ricordi e dottrine incapsulate e credute. Eastwood da questo momento non risolleverà più un film strozzato non tanto da sottese retoriche ben nascoste nella solidità della storia (cosa risaputa), ma da ambizioni di concisione e chiarezza ad ogni costo, che degenerano spesso in un tono da sommario semplificatorio laddove la storia meritava che le voci confuse e stridule, i fantasmi agghiaccianti che Kyle porta in braccio dalla battaglia prendessero forma, ferissero, sporcassero la narrazione.
Clint Eastwood è il regista che più coerentemente di tutti ha raccontato il sacrificio, quello deliberato per amore (I ponti di Madison county) e quello brutale e ingiustificato (l’assassinio della figlia di Sean Penn in Mystic river, sacrificio “accidentale” che fa emergere colpe e ombre di una microsocietà di crimine, malessere e omertà). Ci viene in mente il corpo esanime di Walt in Gran Torino, incorso nella morte per liberare dai suoi oppressori un ragazzo all’inizio respinto, o lo sguardo ammaccato e infine caduto nell’ombra del vecchio allenatore di Million dollar baby, disposto a “perdere se stesso” pur di sollevare una ragazza dal dolore di un’immobilità forzosa e assurda.
Così, proseguendo idealmente, incrociamo la vita e la morte di Chris Kyle, il cecchino più abile della storia americana, come recitano trailer e tag-line, ultimo tra gli eroi di Eastwood a esercitare in battaglia quella grazia nelle avversità amata da Hemingway, disposizione alla vita che si addice a uomini veri, degni di un’accorata celebrazione al cinema. Per quattro volte in missione in Iraq, fu insignito di medaglie al merito e soprannomi eloquenti: “La leggenda” o “Il diavolo di Maradi” (con quest’ultimo nome era noto tra i combattenti iracheni). Fu ucciso nel febbraio 2013 in un poligono da tiro da un commilitone afflitto da disordine da stress post-traumatico, disturbo da cui egli stesso era affetto. Nel film la malattia è raccontata superficialmente, senza un momento di convincente approfondimento degli effetti di un male che nasce dai cumuli di paure e premure che il conflitto impone ai soldati. Uomini mai fin troppo addestrati a sopravvivere ai giorni e alle notti senza fine di una guerra sulle cui ragioni non occorre interrogarsi troppo.
La regia di Eastwood manca di tutto ciò che fa grande e moderno il cinema di guerra di Kathryn Bigelow, soprattutto in Zero Dark Thirty: una narrazione ipertesa e lacerata, dove il racconto della guerra è affidato a immagini e personaggi che ben raccontano la concitazione del conflitto, non nascondendone l’artificiosità e la complessità non riducibile a schemi ordinati. In American Sniper seguiamo tutti gli spostamenti dei Navy Seals, entriamo con frequenti soggettive nel mirino dei due cecchini, vediamo il luogo degli scontri dall’alto di un satellite; americani e terroristi sono schierati su due fronti non comunicanti. Il racconto della guerra è chiaro come in una cronaca televisiva statunitense.
Allo spettatore non è richiesto lo sforzo di ricostruire dai pezzi sparsi perché la narrazione attribuisce loro un senso chiaro e non negoziabile: la città americana è luogo dove divertirsi e addestrarsi a un mondo “di lupi, agnelli e cani pastori”, farsi una vita e una moglie; la città islamica è luogo immobile, retrivo e privo di gioia. Fin qui, come testimonianza in fieri di una guerra che sembra esserci sempre stata, il film guadagna, se non originalità, credibilità e tempi adeguati per poi perdere entrambi quando ritorna in patria.
Resta, al di là di tutto, la forza di quei momenti in cui, nello sguardo del cecchino, avvertiamo la fermezza e l’esitazione sovrapporsi in una partita dove il battito di un cuore è appeso ai secondi. Per il resto, Eastwood si limita a “puntare” la macchina da presa su ciò che è già rimasticato e più risaputo, non per raccontare il retroterra di una vita, ma per darcene giusto un’idea chiara e semplice: le immagini in Tv che scatenano in Kyle l’ansia di servire il proprio paese, il corteggiamento al bar, i rumori della guerra che ritornano e isolano dalla realtà, la morte di Chris non mostrata e sostituita da didascalia e sequenze celebrative (immagini del vero funerale con la popolazione accorsa a sventolare bandiere) per ribadirne l’identità di eroe.
Resta, sopra a tutto, la tempesta di sabbia, il muro sporco che la guerra erige e che nemmeno lo sguardo acuto e implacabile del più famoso cecchino della storia americana può fendere o penetrare. 

Matteo Mele

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica  

Titolo originale: American Sniper
Anno: 2014
Regia: Clint Eastwood
Durata: 132’
Attori: Bradley Cooper, Sienna Miller, Kyle Gallner, Max Charles, Luke Grimes
Sceneggiatura: Jason Hall (dal romanzo autobiografico American Sniper: The Autobiography of the Most Lethal Sniper in U.S. Military History)
Fotografia: Tom Stern
Uscita italiana: 1 gennaio 2015

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