In un passaggio di polvere il luogo del conflitto diventa un non luogo senza contorni, dove stavolta il nemico da abbattere è il vuoto in cui in un attimo si è dissolto tutto, terra e nemico. Clint Eastwood ci introduce brillantemente nei perimetri di una guerra obnubilante, con uomini addestrati a entrare nella testa di un nemico che è nemico e nient’altro, costretti a capire gli spazi tortuosi e i tempi senza ore di un luogo arido, lontano da gloria, bandiere strette alle bare, tavole abbondanti.
Si parte dritti dal ferro dei carri armati, da cingoli e corazzature sporche. Per terra, i soldati si trascinano ordinatamente, calpestando macerie, calcinacci, sangue raggrumato da sedimenti e sedimenti di polvere. Con lo sguardo vago e scoperto all’odio nemico, i soldati cercano un pericolo che cambia forma e mezzi, che proprio perché sembra invisibile è ovunque lo sguardo si posi. Dall’alto un uomo letale sorveglia il passo esitante dei suoi compagni, confinato in una torretta di controllo perché sa dove guardare, contro chi puntare.
Addestrato a gestire il respiro e a numerare le minacce abbattute, Chris Kyle (Bradley Cooper) è un corpo disteso con gli occhi sbarrati, uno sulla realtà dove i nemici non si vedono, l’altro sul mirino telescopico del suo M40, sguardo artificiale che rivela il pericolo e giustifica il gesto che non può esitare un secondo di più. Con uno stacco azionato da un colpo di fucile, il film scopre l’infanzia di Kyle: la caccia, la messa e una lezione sul sano, giustificato esercizio della violenza con cui il pater familias indottrina maggiore e minore dei suoi due figli. Da subito ci viene fatto capire che è da lì, dalla ruvida realtà del Texas, che derivano i sentimenti che fanno l’etica dell’eroe americano: ostinata volontà, cognizione del bene, senso del dovere, amor di patria.
La parentesi sulle origini si richiude sulla scena di apertura lasciata sospesa al momento dello sparo: con un espediente povero, certo furbo, la regia declama a gran voce che dietro al gesto deciso e fendente di un soldato c’è il suo mondo di ricordi e dottrine incapsulate e credute. Eastwood da questo momento non risolleverà più un film strozzato non tanto da sottese retoriche ben nascoste nella solidità della storia (cosa risaputa), ma da ambizioni di concisione e chiarezza ad ogni costo, che degenerano spesso in un tono da sommario semplificatorio laddove la storia meritava che le voci confuse e stridule, i fantasmi agghiaccianti che Kyle porta in braccio dalla battaglia prendessero forma, ferissero, sporcassero la narrazione.
Clint Eastwood è il regista che più coerentemente di tutti ha raccontato il sacrificio, quello deliberato per amore (I ponti di Madison county) e quello brutale e ingiustificato (l’assassinio della figlia di Sean Penn in Mystic river, sacrificio “accidentale” che fa emergere colpe e ombre di una microsocietà di crimine, malessere e omertà). Ci viene in mente il corpo esanime di Walt in Gran Torino, incorso nella morte per liberare dai suoi oppressori un ragazzo all’inizio respinto, o lo sguardo ammaccato e infine caduto nell’ombra del vecchio allenatore di Million dollar baby, disposto a “perdere se stesso” pur di sollevare una ragazza dal dolore di un’immobilità forzosa e assurda.
Così, proseguendo idealmente, incrociamo la vita e la morte di Chris Kyle, il cecchino più abile della storia americana, come recitano trailer e tag-line, ultimo tra gli eroi di Eastwood a esercitare in battaglia quella grazia nelle avversità amata da Hemingway, disposizione alla vita che si addice a uomini veri, degni di un’accorata celebrazione al cinema. Per quattro volte in missione in Iraq, fu insignito di medaglie al merito e soprannomi eloquenti: “La leggenda” o “Il diavolo di Maradi” (con quest’ultimo nome era noto tra i combattenti iracheni). Fu ucciso nel febbraio 2013 in un poligono da tiro da un commilitone afflitto da disordine da stress post-traumatico, disturbo da cui egli stesso era affetto. Nel film la malattia è raccontata superficialmente, senza un momento di convincente approfondimento degli effetti di un male che nasce dai cumuli di paure e premure che il conflitto impone ai soldati. Uomini mai fin troppo addestrati a sopravvivere ai giorni e alle notti senza fine di una guerra sulle cui ragioni non occorre interrogarsi troppo.
La regia di Eastwood manca di tutto ciò che fa grande e moderno il cinema di guerra di Kathryn Bigelow, soprattutto in Zero Dark Thirty: una narrazione ipertesa e lacerata, dove il racconto della guerra è affidato a immagini e personaggi che ben raccontano la concitazione del conflitto, non nascondendone l’artificiosità e la complessità non riducibile a schemi ordinati. In American Sniper seguiamo tutti gli spostamenti dei Navy Seals, entriamo con frequenti soggettive nel mirino dei due cecchini, vediamo il luogo degli scontri dall’alto di un satellite; americani e terroristi sono schierati su due fronti non comunicanti. Il racconto della guerra è chiaro come in una cronaca televisiva statunitense.
Allo spettatore non è richiesto lo sforzo di ricostruire dai pezzi sparsi perché la narrazione attribuisce loro un senso chiaro e non negoziabile: la città americana è luogo dove divertirsi e addestrarsi a un mondo “di lupi, agnelli e cani pastori”, farsi una vita e una moglie; la città islamica è luogo immobile, retrivo e privo di gioia. Fin qui, come testimonianza in fieri di una guerra che sembra esserci sempre stata, il film guadagna, se non originalità, credibilità e tempi adeguati per poi perdere entrambi quando ritorna in patria.
Resta, al di là di tutto, la forza di quei momenti in cui, nello sguardo del cecchino, avvertiamo la fermezza e l’esitazione sovrapporsi in una partita dove il battito di un cuore è appeso ai secondi. Per il resto, Eastwood si limita a “puntare” la macchina da presa su ciò che è già rimasticato e più risaputo, non per raccontare il retroterra di una vita, ma per darcene giusto un’idea chiara e semplice: le immagini in Tv che scatenano in Kyle l’ansia di servire il proprio paese, il corteggiamento al bar, i rumori della guerra che ritornano e isolano dalla realtà, la morte di Chris non mostrata e sostituita da didascalia e sequenze celebrative (immagini del vero funerale con la popolazione accorsa a sventolare bandiere) per ribadirne l’identità di eroe.
Resta, sopra a tutto, la tempesta di sabbia, il muro sporco che la guerra erige e che nemmeno lo sguardo acuto e implacabile del più famoso cecchino della storia americana può fendere o penetrare.
Matteo Mele
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: American Sniper
Anno: 2014
Regia: Clint Eastwood
Durata: 132’
Attori: Bradley Cooper, Sienna Miller, Kyle Gallner, Max Charles, Luke Grimes
Sceneggiatura: Jason Hall (dal romanzo autobiografico American Sniper: The Autobiography of the Most Lethal Sniper in U.S. Military History)
Fotografia: Tom Stern
Uscita italiana: 1 gennaio 2015