
Big Eyes tuttavia, è bene precisarlo fin da subito, non è certo un film non burtoniano. Ma lo è in forma diversa, più indiretta e meno prevedibile. Ragion per cui non è difficile immaginare che si presterà a essere equivocato o snobbato (cosa che è già avvenuta al botteghino americano, dove ha appena fatto registrare un flop sonorissimo), a essere scambiato per un blando tv movie senza nerbo, il cui regista appare irriconoscibile se confrontato, naturalmente, con i fasti del passato e i freak del suo cinema che così in profondità hanno bucato l’immaginario collettivo, ergendosi a simboli senza tempo del disadattamento e della relazione travagliata tra il conformismo della società e la non conformità del singolo.
Non bisogna commettere neanche l’errore opposto, però. Ovvero far finta che Tim Burton sia ancora il regista de Il mistero di Sleepy Hollow o di Big Fish, perché oggi la ricchezza delle sue invenzioni pare ben più al ribasso e l’estro non è certo quello di un tempo. Errato anche, a detta del sottoscritto, ricollegare quest’ultimo Big Eyes a Ed Wood solo perché gli sceneggiatori Scott Alexander e Larry Karaszewski sono i medesimi o perché si tratta di un ritorno di Burton al genere biografico, visto che la divertita, partecipe compassione, mista a un sincero senso di fratellanza artistica, che nutriva per quel personaggio è decisamente assente nel suo ultimo film, ben più anodino e privo di sussulti per ciò che riguarda l’identificazione di Burton con i suoi personaggi (un aspetto che da sempre fa la forza del suo cinema, fondato su un rapporto diretto e il più possibile non mediato tra il regista e i suoi alter ego).
Occorre allora, in definitiva, prendere Big Eyes per quello che è: un film in cui Burton rinuncia a Burton, a ridosso (sarà un caso?) del recentissimo divorzio dalla compagna e musa Helena Bonham Carter, per concedere una boccata d’aria al suo cinema, facendo piazza pulita in maniera liberatoria, per una volta, del burtonismo e delle tinte visionarie e malinconiche. Burton in questo caso rivolge la mente addirittura ai colori più assolati dei primissimi esordi (Pee Wee’s Big Adventure), ritrova quasi la natia California, rimette mano alle villette a schiera di Edward mani di forbice e sintonizza le gradazioni cromatiche del film su tonalità zuccherose e pastello. Un riappropriarsi delle proprie origini che Burton sembra far proprio per ridare ossigeno a una carriera che l’ha visto ridursi ed essere ridotto all’ombra di se stesso. Una presa di posizione che non sempre lo ripaga, certo, perché non è questo il territorio a lui più congeniale, ma che perlomeno lo riabilita come artista (e come uomo, a un livello più intimo di ricerca personale), oltre a conferire un minimo margine di interesse a un cinema che negli ultimi tempi era apparso troppo mummificato. Meglio un Burton con qualcosa da dire, insomma, che un Burton che rifà se stesso all’infinito, limitandosi a strizzare l’occhio ai fan. L’arte, dopotutto, “deve elevare e non ammiccare”, come si dice nel film.
Attraverso la storia di Margaret Keane, autrice di quadri raffiguranti bambini dagli occhi giganteschi e infelici piuttosto noti e di successo negli anni ’60, e del marito Walter, che della paternità di quelle creazioni si impadronì spacciandole per proprie finché la moglie non decise di far emergere la verità, Burton, con una imperturbabilità stilistica derivante dal non dover pagare pegno alla propria estetica consueta (perfino le musiche di Danny Elfman sono stavolta più discrete del solito), ci regala un’insperata anche se non troppo innovativa riflessione sul rapporto tra arte e marketing, o per meglio dire sulle modalità con cui l’arte dialoga con le contingenze del mondo e fa i conti con la sua incontrovertibile subalternità a delle esigenze commerciali (anche qui, come in Inside Llewyn Davis dei Coen, altro film sul legame tra produzione artistica e pubblico, la fotografia di Bruno Delbonnel crea un’atmosfera di familiarità soffusa, pronta per essere tradita).
Ma a dispetto delle apparenze, e di quanti vorranno tacciare il film di scarso burtonismo sostenendo le loro argomentazioni solo su basi estetiche, Margaret Keane è un altro freak nella personale galleria di Burton, una donna esile e remissiva costretta alla reclusione domestica e all’anonimato da un realtà imprenditoriale, portata avanti dal consorte, capace soltanto di declassare la sua sensibilità a mero prodotto di consumo. Facendo dei suoi ritratti cartoline di poco valore, che tutti vogliono possedere ma che non sono altro che riproduzioni scialbe degli originali, in linea con un’idea di arte per le masse che rende l’opera un feticcio da inseguire anche in modo meccanico ed effimero, esattamente come i quindici minuti di celebrità di warholiana memoria, oggetto del desiderio di chicchessia, anche di coloro che continuano a non essere disponibili ad ammetterlo (ed è proprio una frase dell’artista americano sulle opere della/dei Keane ad aprire il film, non a caso). Senza contare, a proposito di burtonismo non sbandierato ma sostanziale, che i colori sgargianti fungono da contrappunto a scene che sono tra le più tristi e sconfortate di tutto il film, a riprova di uno spirito dark che esce dalla porta e rientra dalla finestra, come testimoniano i primi piani lacrimosi di Amy Adams e l’ira espressionista di un comunque troppo caricaturale Christoph Waltz.
Ha ragione lo stesso Waltz, quando si esprime sul film in questi termini: “Una storia raccontata in modo diretto e abbastanza convenzionale, ma con ingredienti molto poco convenzionali e da un regista molto poco convenzionale”. Perché solo un regista smaccatamente off come Burton, da sempre un alieno rispetto all’industria pur avendo realizzato film di grande riscontro commerciale, poteva firmare una meditazione così limpida e tersa su cosa voglia dire essere un artista, vero o presunto tale, non evitando di mettersi in gioco direttamente, anche nell’accettazione serena e sorniona dei propri stessi limiti: perché quando il critico del New York Times interpretato da Terence Stamp tuona contro i lavori della Keane parlando di “an infinity of kitsch” è chiaro che Burton sta puntando il dito proprio contro se stesso, quasi sindacando le sue passioni più ombelicali ma anche artisticamente meno nobili. Una consapevolezza delle proprie debolezze degna della maturità, o di un regista che si è palesemente stancato di farsi rinchiudere sempre nelle stesse categorie, tanto da volersi mettere a nudo senza mediazione alcuna.
A questo punto non resta che aspettare i prossimi sviluppi della sua filmografia, sperando che Big Eyes sia davvero la prima pagina di un nuovo, rigenerante inizio, in grado di produrre risultati anche superiori.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Anno: 2014
Durata: 105’
Regia: Tim Burton
Interpreti: Amy Adams, Christoph Waltz, Krysten Ritter, Jason Schwartzman, Danny Huston, Terence Stamp, Jon Polito
Sceneggiatura: Scott Alexander, Larry Karaszewski
Musiche: Danny Elfman
Uscita italiana: 1 Gennaio 2014