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DONNE INQUIETE - All’improvviso, Robert Vaughn

15/12/2016

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Una fossetta sul mento e gli occhi scherzosi o impauriti, il cappello come western comanda o la giacca elegante. Un volto da grande e piccolo schermo, uomo con la pistola e miglior attore non protagonista: quella di Robert Vaughn è una carriera ricca di prove fra cinema e televisione, ma per molti il suo nome è legato a un paio di film soltanto. Forse non conoscevamo davvero quest’uomo con la brava stella sulla passeggiata più famosa di Hollywood, o forse abbiamo preferito innamorarci di alcuni dei volti che ci ha regalato senza pretendere di conoscerli tutti.
L'11 novembre il suo volto, i suoi personaggi conosciuti o ancora da scoprire, sono comparsi sui social unitamente alla notizia del suo decesso. Per chi lo ricordava bene, un’altra tacca luttuosa in questo 2016 che sembra falciare i grandi talenti senza tregua.
Per tutti gli altri, l’occasione per ricostruirlo attraverso i tanti film con Robert Vaughn che ancora non abbiamo visto.
Io l’ho ritrovato per caso fra le scene di un'opera che sembrava essermi sfuggita finora, nonostante la tematica trattata apparisse da subito vicina ai miei gusti: Donne Inquiete (The Caretakers), film del 1963 di Hall Bartlett.
I riflettori devono essersi spenti inesorabilmente su questo lavoro di Bartlett, liquidato da molti siti con qualche riga, debole abbozzo di una trama. Sembra che una lunga noncuranza si sia posata su questo dramma, nonostante il suo cast formidabile sfoderi una stella come Joan Crawford. E le sorprese non finiscono con lei.
Candidato all’Oscar per la miglior fotografia in b/n di Lucien Ballard, il film può contare su scene potenti, giochi di luce calibrati e un senso di angoscia dilagante, al punto che questa accuratezza nei dettagli finisce per sopperire a una trama che non è forse invecchiata nel migliore dei modi.
La netta divisione fra buoni e cattivi, in questa pellicola, rischia talvolta di lasciare perplesso lo spettatore. Presso l’ospedale psichiatrico Canterbury, luci e ombre sono ben definite: da un lato c’è il Dottor MacLeod (Robert Stack) uno psichiatra dalle idee innovatrici che lotta per promuovere nuove forme di terapia di gruppo, sbarazzandosi di lacci e strumenti di contenzione, inneggiando al dialogo. Dall’altro c’è la capo-infermiera Lucretia Terry, una vera regina delle camice di forza – chi meglio della Crawford avrebbe potuto impersonarla? – glaciale e inflessibile tiranna che addestra le giovani reclute a difendersi con le maniere forti. 
Questa allarmante inclinazione alle punizioni corporali sfocia persino in surreali lezioni di judo condotte da una Crawford in guaina nera e fisico di acciaio, decisa a tirare fuori prontezza e impeccabile tono muscolare dalle infermiere più giovani: insomma, è vera e propria autodifesa dalle pazienti e appare quasi eccessiva. Inoltre, il braccio di ferro logorante fra lo psichiatra gentile e illuminato e la tradizionalista sempre pronta ad assestare schiaffoni appiattisce ogni possibile sfumatura di carattere. I personaggi sono autenticamente buoni o irrimediabilmente cattivi, e solo alla fine del film si aprirà qualche lieve crepa nel muro dell’ostilità conservatrice. 
Il concetto altamente morale espresso dal titolo stesso, la voglia di prendersi cura di donne confuse ma ancora disposte a combattere, diventa vero messaggio dell’intero film, nel corso del quale saremo noi stessi ad affezionarci ad alcune pazienti. Dalla ninfomane sempre in vena di rispostacce volgari (Janis Paige), alla principessina schiava delle malinconie (Sharon Hugueny, qui bella come non mai), fino alla tenerezza di una attempata mamma di bambole (Ellen Corby, viso appassito e indimenticabile) e il ferreo mutismo di una ragazza sconvolta (Barbara Barrie). 
Ruolo di vera protagonista spetta a Lorna Melford (Polly Bergen), moglie rispettabile scivolata in un baratro emotivo dopo la perdita del figlio. Impossibile sorvolare sulla voce di Lorna nel doppiaggio italiano: gli amanti del genere riconosceranno subito Andreina Pagnani, la donna che diede un timbro immortale a Norma Desmond in Viale del tramonto e a molte altre eroine nere. 
Seguendo la vicenda di Lorna, che sta molto a cuore al Dottor MacLeod, conosceremo non solo la vita delle pazienti ma la quotidiana missione delle infermiere. Ancora una volta divise fra buonissime come Susan Oliver (che ameremo anni dopo in Star Trek) e spietate come Constance Ford.
In questo gineceo di donne che curano e donne che si rassegnano a farsi curare con la speranza che venga messa la parola fine alle scosse elettriche, ho dunque accolto con sorpresa l’arrivo di un uomo. Il signor Melford, sconfortato marito di Lorna, costretto a osservare il declino nervoso della donna che ama e puntualmente respinto da lei, fra urla e accuse. Robert Vaughn è quel volto: quello disperato e supplicante del giovane marito in visita che compare poche volte sullo schermo, con scatole di cioccolatini e inutili dichiarazioni d’amore.
Il Vaughn che abbiamo perso poche settimane fa era anche questo. Un versatile talento pronto a entrare in una clinica psichiatrica rincorrendo l’amore della moglie, una figura che scivola discreta nella pellicola di Bartlett per poche scene. Tenere, ben costruite, umane.
Potrebbe essere l’inizio di un’avventura per tutti: la riscoperta di un interprete che, senza mai fare troppo rumore, ha attraversato numerosi film ancora da vedere.
Oggi abbiamo un motivo in più per andare a cercarli.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: The Caretakers
Anno: 1963
Durata: 97'
Regia: Hall Bartlett
Sceneggiatura: Henry F. Greenberg
Fotografia: Lucien Ballard
Musiche: Elmer Bernstein
Attori: Robert Stack, Polly Bergen, Diane McBain, Joan Crawford, Constance Ford, Robert Vaughn

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VOLTO DI DONNA - Gelida come neve

1/3/2016

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Se di questo film si potesse isolare una singola scena, la stessa presenterebbe una corsa di cavalli imbizzarriti sulla neve: una gara di slitte interminabile dentro ognuno di noi, perché a quella è appeso il nostro sollievo di spettatori.
Non di una sola scena, tuttavia, possiamo fermarci a parlare. Specie quando ci troviamo di fronte a un film così acuto e accattivante, dove il candore della neve nasconde la voragine oscura di un delitto, forse il peggiore fra tutti. Non basta la buona vecchia coperta a farci da scudo quando l’avversaria sullo schermo è Anna Holm; basta guardarla per presagire guai.
​
Anna (Joan Crawford) è accusata di omicidio e al banco dei testimoni si alternano i membri della sua “banda”: sono spesso macchiette, penalizzate da un malconcio doppiaggio che tradisce accenti stranieri e incertezze di pronuncia, limite tipico dei film americani che importammo doppiati alla meglio dopo la liberazione. 
Anna è titolare di una piccola pensione nei pressi di un bosco e i suoi loschi compari lo raccontano in aula. Solitamente la banda mette a punto ingegnosi ricatti rivolti ai clienti della pensione, spesso mariti adulteri o mogli di facili costumi a caccia di flirt. Anna non è soltanto a capo del piccolo gruppo di ricattatori, ma ha un’altra inquietante caratteristica: un volto deturpato e un cuore di pietra. Non di rado la prendono in giro. Lei risponde mostrando l’irrimediabile orrore delle sue cicatrici. Non ha paura di mostrarsi, la mostruosa Anna Holm.
Nel suo passato c’è stato un incendio fatale. Ora Anna è incattivita e vendicativa come una bambina, fa voce grossa e pesta i piedi, porta a spasso la croce del suo cuore digiuno d’amore. Cuore che si sbriciola in argilla friabile non appena conosce Torsten (Erik nella versione italiana, interpretato da Conrad Veidt), unico uomo capace di parlarle senza farle pesare i segni che ha sul viso. Cappellini nuovi e camicette, molti sono i trucchi che la donna studia allo specchio pur di piacere al terribile Conrad.
Quando le capita fra le mani la ricca moglie di un medico, Vera Segert, Anna decide di andare personalmente a casa sua a ricattarla, minacciando di raccontare ai quattro venti le sue squallide avventure extraconiugali. Perde le staffe e alza persino le mani sul quel visino d’angelo che tanto piace agli uomini, che tanto la fa sentire diversa e imperfetta. Il tutto per qualche soldo, per bei vestiti, per l’amore.
Quando il marito di Vera, Gustav Segert (Melvyn Douglas) irrompe in casa, scambia Anna per una ladra entrata dalla finestra. Alla luce di una lampada l’uomo cattura le fattezze di quel viso martoriato, lo prende fra le mani, lo osserva stupefatto e quindi rivela di essere un chirurgo plastico. Un chirurgo che forse può aiutare Anna a ritrovare un volto di donna.
La bellezza diventa così l’anticamera dell’amore: Anna vede nella perfezione degli zigomi una possibilità in più per legare il cuore di Torsten al suo. Questa vanità ferita, questo bestiale desiderio di rivalsa è tutt’uno con lei; la donna che vediamo sullo schermo è un fascio d’odio e incomprensione. Non appena recupera la bellezza si abbandona alle braccia di Torsten con sicurezza nuova e inscalfibile.
Una storia d’amore folle, perversa, che non basta a se stessa ma ha sete di sangue e ricchezza. Per questo, seduto al piano eseguendo “la melodia del tessitore”, tratta dal repertorio musicale tradizionale della Svezia, Torsten snocciola ad Anna un piano disumano e preciso. Ci sarebbe modo di arricchirsi ereditando le fortune di uno zio console che vive in una vecchia e gloriosa dimora fra le montagne. Tuttavia è necessario eliminare l’erede più prossimo, il nipote Asterio: un bimbo di quattro anni dalla salute cagionevole. Non sarebbe certo difficile per una governante affettuosa e dal viso pulito occuparsi della questione.

George Cukor è più nero e arrabbiato del solito. Volto di donna tocca assieme ad Angoscia un picco di cupezza assolutamente indimenticabile. Sullo schermo si muovono tre film uniti in uno, annodati fra loro, spaventosi e grotteschi. Il racconto dei testimoni convocati in aula, il flashback sulle malefatte di Anna e la ricostruzione della vita come governante sotto il falso nome di Signorina Polsen. 
Il film dilaga nell’ultima parte, tuffandosi nei paesaggi ammantati dalla neve, inquadrando la solida serenità della grande casa dove il console vizia il piccolo Asterio e dove Anna strozza con fermezza la propria compassione, decisa ad attuare un piano omicida senza scusanti. 
Abeti dalle fronde cariche di neve, le slitte che resteranno impresse al pubblico per sempre, danze tradizionali eseguite nei costumi tipici e con la morte nel cuore. Cukor parte per la Svezia e ci trascina con lui al cospetto di un bambino, frammento di bontà e innocenza esposto a tremendi pericoli. Così assistiamo al remake dell’omonimo film del 1937, per la regia di Molander, dove Anna Holm era una giovane Ingrid Bergman.
E comprendiamo che questa Crawford sfigurata, velenosa e in fondo piena di dolore, ha tenuto testa alla collega svedese.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: A Woman's Face
Anno: 1941
Durata: 106'
Regia: George Cukor
Soggetto: dal lavoro teatrale Il etait une fois di Francis de Croisset
Sceneggiatura: Donald Ogden Stewart, Elliot Paul Christopher Isherwood e altri
Fotografia: Robert Planck
Musiche: Bronislau Kaper
Attori: Joan Crawford, Melvyn Douglas, Osa Massen, Conrad Veidt, Reginald Owen

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SO CHE MI UCCIDERAI - L'aspirante uxoricida

20/1/2015

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Avete mai osservato il volto di Casanova? A molti potrebbe sembrare un giovane pallido, ammiccante, fronte alta e lineamenti duri. Secondo altri, invece, il noto seduttore aveva un porro sul mento e una cicatrice sulla palpebra.
La pensa così Lester Blaine, il giovane attore che ha appena perso il lavoro perché giudicato “non abbastanza attraente per la parte”. “Voi l’avete mai visto Casanova?” chiede alla severa drammaturga Myra Hudson (Joan Crawford), che l’ha appena fatto licenziare. Eppure quel viso non funziona, non fa tremare una donna, non è da Casanova. Infatti è il viso dell’attore Jack Palance, rimasto sfigurato durante la seconda guerra mondiale e successivamente sottoposto a un intervento chirurgico: i solchi dell’operazione, i lineamenti rimodellati col bisturi e resi molto severi fecero del divo un’icona di malvagità cinematografica.
Ma torniamo in quel teatro dove Lester Blaine ha appena gridato il suo disappunto alla drammaturga in carriera che lo osserva seduta sotto il palco. La famosa e affermata Myra Hudson di lì a poco torna a San Francisco e non immagina che a bordo del treno appena preso ci sia anche quel Lester Blaine che ha fatto licenziare qualche ora prima. Quello che è insorto contro di lei con la durezza del suo volto.
Se la bellezza non gioca a favore di Lester, la parlantina fa di lui un tipo piuttosto interessante: Myra impiega poco a capirlo; ha luogo un fulminante corteggiamento sul treno, fra carte da gioco, cene, confidenze e colte citazioni. Lui è giovane e ha un fascino singolare. Lei è matura, ricca e un po’ annoiata. Sposarsi è doveroso.
Il matrimonio fra i due invade le cronache mondane; i signori Blaine si abbracciano teneramente lungo le scalinate di pietra della casa al mare, bevono dalla stessa coppa nello scintillio dei ricevimenti, si svegliano ubriachi d’amore e ansiosi di scendere in spiaggia per un tuffo. Myra è pazza di lui, risucchiata da una spirale deliziosamente masochistica come spesso richiedono i ruoli della Crawford. A ogni piccola oscillazione del rapporto Myra vede rosso e quando i suoi legali le chiedono di fare testamento non esita a lasciare tutto al novello sposo. Ma qualcosa va immediatamente storto.
C’è un registratore lasciato acceso in una stanza, c’è un malinteso per iscritto, c’è l’aria che si fa pesante mentre un’angelica biondina compare sulla porta di casa: si chiama Irene, ha una dolcezza costruita che farebbe impazzire chiunque; è ambigua, frivola, bella, perché a interpretarla c’è Gloria Grahame, che si difende bene pur dovendosi confrontare con l’immenso talento della Crawford. Una bionda infinitamente scomoda e un viso noto per il maritino Lester Blaine, che ha con lei un antico conto in sospeso. I due, in passato implicati in una serie di truffe, sono stati amanti e complici per troppo tempo: ora Irene è tornata attratta dal profumo del denaro e vuole irretire Lester per riempirsi le tasche di soldi. Lui è d’accordo e le braccia della vecchia fiamma sono una gran liberazione dopo la sua prova recitativa al fianco di una donna ricca, matura, mai realmente amata.
Il piano omicida è pronto, la coppia diabolica c’è, la povera moglie appassionata anche. Ma ora provate a immaginare cosa accadrebbe se quella povera moglie a un passo dalla morte avesse scoperto gli intenti criminali del marito. In che modo potrebbe rispondere a un piano perverso?
La risposta è semplice: con un piano perverso.
Sudden Fear (questo il titolo originale) è il racconto tachicardico di una strategia nera: quella di Lester per uccidere la moglie e quella della moglie per salvarsi la pelle. Sono due piani minuziosi che avanzano di pari passo, mentre Miller si diletta a tratteggiare un’atmosfera concitata e irritante attorno ai due nervosi protagonisti. L’orologio dal pendolo a forma di stella scandisce momenti lunghissimi, il bluff fra i coniugi Blaine è un gioco sul filo del rasoio. 
Myra non perde i suoi modi affettati, Lester continua a recitare la parte dell’innamorato, ma fra loro c’è un abisso incolmabile fatto di tragici sospetti. Nottate angoscianti passate sotto le lenzuola a occhi sbarrati, temendo che l’altro avanzi nell’oscurità. Incidenti e sotterfugi. Intrusioni clandestine a casa del nemico. Lancette spostate, biglietti falsi, scatolette dal contenuto pericoloso. Una grande recita spietata da cui nessuno uscirà a testa alta, una guerra fredda senza esclusioni di colpi, un braccio di ferro d’astuzie.
I coniugi Blaine paiono oscuri antenati dei coniugi Roses ma non c’è ombra di ironia nella loro gara a “chi uccide prima l’altro”. C’è il grande contrasto dell’odio che si staglia su ville principesche, lembi di mare in burrasca, caminetti scoppiettanti e raccolti, sterminate camere da letto tutte specchi e drappi di velluto. C’è una vita da rotocalco che fa acqua da tutte la parti e un devoto maritino che vuole leggere alla moglie una sinistra fiaba della buonanotte.
Casanova, bello o brutto che fosse, era certamente uomo d’altra pasta.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: Sudden Fear
Anno: 1952
Durata: 110'
Regia: David Miller
Sceneggiatura: Robert Smith
Fotografia: Charles B. Lang
Musiche: Elmer Bernstein
Attori: Joan Crawford, Jack Palance, Gloria Grahame, Bruce Bennett, Virginia Huston

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SOLA COL SUO RIMORSO - Il cuore di pietra

4/3/2014

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Ho importanti manie di controllo sulla cucina; le altre stanze sono tralasciabili. Se l’ordine non regna in cucina, l’ordine non regna in me. Essere fissati va bene, ma restare in cucina fino alle tre del mattino con il ruolo di piccolo difensore dell’ordine ha un retrogusto malsano, non trovate?
L’incontro con Harriet Craig è stato provvidenziale, un vero sollievo per una maniaca del controllo. Perché? Perché Sola col suo rimorso è un gioiellino da recuperare e Harriet Craig è indubbiamente peggio di me.
Lei è una Joan Crawford arcigna e spigolosa, bruschi sorrisi di circostanza e sopracciglia inarcate, un gendarme che scende lo scalone della sua dimora e terrorizza il personale di servizio. Al passaggio di Harriet non vola una mosca, è lei a dettare le regole della casa: finestre chiuse alle undici del mattino perché il sole non scolorisca la tappezzeria, attenzioni maniacali attorno a un vaso cinese che contiene il riso come buon auspicio per la casa, pieghe lisciate con le dita e rituali scanditi per accogliere il padrone di casa. Lui, il signor Craig (Wendell Corey), al quale è permesso soltanto assentarsi per raggiungere l’ufficio. 
Il resto è casa, Harriet, divani che non si possono sgualcire e libertà che è impossibile prendersi; il resto è l’irrespirabile tessuto interno di un amore egoista e blindato. Harriet non ammette dispersioni dell’attenzione del marito e la convoglia tutta sulla sua persona: persino l’innocente presenza di una vicina di casa dai modi gentili può far montare la rabbia nell’animo della tigre. Diffidente, nevrotica, all’occorrenza bugiarda, Harriet non risparmia armi per impedire al marito di sfilarsi il giogo del suo amore.
Nessuno può lasciarla, nemmeno la cugina che ha assunto come segretaria personale e che è legata a lei da un sottile raggiro psicologico. Quando la giovane attira l’attenzione di un corteggiatore, Harriet si adopera per sradicare il sentimento alla base. Non può permettere a nessuno di metterla in un angolo, non può allentare le sue redini d’acciaio, ma perseverare limando con falsa dolcezza i nervi di coloro che la circondano. Una donna spregevole e profondamente ferita da un padre che l’ha abbandonata in passato, spingendo la madre a una vita di depressione e pazzia. A quella madre Harriet farà visita svelando un remoto e malconcio spirito di figlia affettuosa, restando impotente spettatrice del tenero squallore che regna nella clinica psichiatrica e infine tornando a casa, incapace di affrancarsi dal passato.
Man mano che la sua maschera di perfezione si fa più coriacea e pesante, più folle diventa l’intento di legare a doppio filo gli affetti e più asettica diventa la casa in cui vive. Anche una cena coi colleghi del marito rappresenta un imprevisto scossone nelle regole della vita di Harriet. L’idea che il padrone di casa possa sbottonarsi e sorridere giocando a carte con l’attempata moglie del capo diviene un tarlo divorante nella mente della padrona. E la successiva notizia di un possibile trasferimento di Craig fuori dal paese per seguire un nuovo importante progetto è la goccia che fa traboccare il vaso.
Il flusso machiavellico dei pensieri di Harriet è inevitabilmente il nostro, la donna inscena piccoli siparietti come vittima e carnefice. Solita sospirare tremolante come un’inoffensiva mogliettina, è pronta a marciare sul campo di battaglia come una vera macchina da guerra e giocare a carte ben altro che scoperte. Trucchi e stratagemmi in vasta quantità, conversazioni pericolose, telefonate segrete: Harriet soppesa e misura le sue mosse, proprio come lucida il vaso cinese pieno di riso che tiene sul caminetto. L’intoccabile vaso cinese che un marito esasperato sta per frantumare assieme a un matrimonio ormai rimpinzato di sotterfugi e menzogne.
Terza versione cinematografica della commedia scritta da George Kelly nel 1925, è un melodramma lineare e scevro di orpelli, dove l’indagine psicologica è padrona della scena e le azioni si stagliano sullo sfondo piatto e immobile di una casa diventata mausoleo delle ossessioni. Colpi di scena modesti e calibrati con cura dal regista Vincent Sherman, senza mai tendere all’eccesso, ma mantenendo ogni emozione pressoché congelata sul fondo del cuore di Harriet. 
La Crawford, da sempre ottima protagonista del vittimismo cinematografico, rende giustizia all’aridità di questa protagonista noir: è impossibile arrivare sino alla fine del film senza provare per lei la più viscerale avversione. Le sue maniere affettate e gli sguardi languidi studiati a tavolino, le sue scuse all’apparenza tanto sincere, i suoi piccoli trucchi quotidiani per alimentare nel cuore del marito un inevitabile senso di colpa. Allo spettatore manca l’aria, perché respira troppo a lungo quella di Harriet. Vi garantisco che la tentazione fortissima di spaccare quel vaso, spalancare quella finestra e sedersi di traverso sul divano irromperà dentro di voi.
A quel punto, riordinare la cucina in modo compulsivo sembrerà un'inezia.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: Harriet Craig
Anno: 1950
Durata: 103'  
Regia: Vincent Sherman
Sceneggiatura: Anne Froelich, James Gunn
Musiche: George Duning, Morris Stoloff
Fotografia: Joseph Walker
Attori: Joan Crawford, Wendell Corey, Lucile Watson, Allyn Joslyn, William Bishop, K.T. Stevens

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GLI OCCHI DEGLI ALTRI - Scherzi di ragazze perbene

26/8/2013

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Pomeriggi dopo la scuola e grande penuria di buone idee: la casa della mia amica tracimava di souvenirs di viaggio e i suoi genitori sembravano sempre impegnati a lavorare dall’altra parte del mondo. Il risultato era molto tempo libero, una casa grande, una noia fulminante che colpiva un attimo dopo aver svuotato il frigo o usato i cosmetici della madre assente. E cosa rimaneva da fare se non alzare la cornetta del telefono e penetrare velenose nella vita degli sconosciuti? Benvenuti nel passatempo più antico e gettonato del mondo: lo scherzo telefonico. Nel mio caso, si è trattato di interi pomeriggi passati a indagare circa l’igiene personale altrui. “Salve, è un sondaggio, lei ogni quanto si lava?”. Seguivano risate sguaiate. Ci divertivamo con poco.
Ricordo anche l’ultima di quelle telefonate segrete, il terribile errore che prima o poi doveva capitare: chiamammo la casa sbagliata, una casa dove si era appena verificato un lutto. Cornetta riagganciata e fine degli scherzi, senso di colpa per molte notti.
Ma se “giocare col telefono” è una vera bambinata, l’adolescente Libby Mannering (Andi Garrett) non resiste alla tentazione. La  vita in un’isolata casa di campagna, lontana dai locali e dai ragazzi, comincia a pesarle un po’. Quando mamma e papà annunciano di doversi assentare per una notte e la bambinaia non si presenta a casa, Libby viene incaricata di occuparsi della sorellina Tess (Sharyl Locke): “è una sola notte”, “non preoccupatevi”, “penso io a tutto”. Con queste raccomandazioni da copione, Libby saluta i genitori e pregusta una notte di assoluta libertà. 
Personalmente, inizio a detestare cordialmente Libby già in questo punto: ma vi anticipo che, scena dopo scena, la troverò sempre più seccante. Dopo aver invitato a casa un’amica, Libby e la febbricitante sorellina Tess propongono di fare un gioco per uccidere la noia. Indovinate su cosa ricade la scelta.
Armato di telefono, il trio di “brave ragazze”, si scatena in una serie di chiamate buone per far infuriare tre quarti della città: seminano zizzania fra coppie sposate e prendono di mira tutti coloro che hanno un cognome buffo. Un grande classico: il gioco funziona e tiene occupate le ragazzine per un bel pezzo. Frattanto affranti genitori in libera uscita tentano di chiamarle e trovano sempre occupato. 
Se non fossimo in Gli occhi degli altri di William Castle ma a casa della mia amica nel 1998, tutto si risolverebbe col ritorno dei nervosi genitori e una sfuriata plateale. Ma siamo nel film e il prossimo numero sull’elenco appartiene a Steve Marak (John Ireland). Proprio quello Steve Marak che ha appena pugnalato a morte la sua amante nella doccia, accecato di gelosia. Quindi abbiamo un omicidio ancora caldo e tre pericolose ragazzine sole in casa con il telefono che scotta. Provate a immaginare cosa accadrebbe se chiamassero Marak pescandolo a caso dall’elenco e gli dicessero “Ho visto cosa hai fatto e so chi sei”.
Ecco che, nell’atmosfera irritante e patinata del perbenismo da famigliola americana, irrompe lo spettro nero e furioso dell’omicidio. Libby, la sempre più ingenua e svampita Libby, prende gusto al gioco: intuito che Marak ha qualcosa da nascondere inizia a punzecchiarlo. Quindi scende in campo la fantasia frivola da ragazzina: comincia a immaginare il misterioso interlocutore, si invaghisce della sua voce. Non rimane che mettere l’abito buono, truccarsi a dismisura e correre a incontrarlo sulla macchina della mamma.
Un concatenarsi urticante di situazioni dove verrebbe voglia di saltare dentro lo schermo, scuotere poderosamente Libby per le spalle e intimarle di filare a letto. Ma suprema nemesi di tanta leggerezza, è la magnifica Joan Crawford. L’arrivo di Amy Nelson sembra, sulle prime, provvidenziale. Amy appare ai nostri occhi come una Crawford non più nel fiore degli anni e malata d’amore, una vera boccata d’aria fresca: è la vicina di casa di Marak, perdutamente innamorata di lui. Un amore scomodo, infame e doloroso. Amore che passa attraverso il ricatto e il rancore: lei, non più giovane, ha messo gli occhi su di lui ed esige il suo amore ad ogni costo. Un vortice di gestualità drammatica e di espressioni estatiche, sino al bacio “doloroso” e incredibile che piomba sullo schermo a metà del film, lasciando il segno. Lei, qualche ruga negli attenti chiaroscuri, i capelli schiariti raccolti in una monumentale costruzione di crocchie, la vistosa collana di perle, l’abito nero, il viso incattivito dalle pene del cuore. La vera eroina del film è questo fiore mai appassito, rabbioso, deluso e intramontabile.
E vale la pena di attendere (e forse perdonare) il finale, appiattito da un certo senso comico che fa da cornice a buona parte delle scene. Vale la pena di seguire col cuore in gola le peripezie delle brave ragazze e il passo inesorabile dei carnefici. Vale infine la pena di scuotere la testa e lasciarsi andare a un sorriso.
Dopotutto, certe cose si fanno per ridere.
Si fanno per morire.
Dalle risate.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: I Saw What You Did
Anno: 1965
Durata: 82'
Regia: William Castle
Sceneggiatura: William P. McGivern
Fotografia: Joseph F. Biroc
Montaggio: Edwin H. Bryant
Musiche: Van Alexander
Attori: Joan Crawford, John Ireland, Leif Erickson, Sara Lane, Andi Garrett

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