L’incontro con Harriet Craig è stato provvidenziale, un vero sollievo per una maniaca del controllo. Perché? Perché Sola col suo rimorso è un gioiellino da recuperare e Harriet Craig è indubbiamente peggio di me.
Lei è una Joan Crawford arcigna e spigolosa, bruschi sorrisi di circostanza e sopracciglia inarcate, un gendarme che scende lo scalone della sua dimora e terrorizza il personale di servizio. Al passaggio di Harriet non vola una mosca, è lei a dettare le regole della casa: finestre chiuse alle undici del mattino perché il sole non scolorisca la tappezzeria, attenzioni maniacali attorno a un vaso cinese che contiene il riso come buon auspicio per la casa, pieghe lisciate con le dita e rituali scanditi per accogliere il padrone di casa. Lui, il signor Craig (Wendell Corey), al quale è permesso soltanto assentarsi per raggiungere l’ufficio.
Il resto è casa, Harriet, divani che non si possono sgualcire e libertà che è impossibile prendersi; il resto è l’irrespirabile tessuto interno di un amore egoista e blindato. Harriet non ammette dispersioni dell’attenzione del marito e la convoglia tutta sulla sua persona: persino l’innocente presenza di una vicina di casa dai modi gentili può far montare la rabbia nell’animo della tigre. Diffidente, nevrotica, all’occorrenza bugiarda, Harriet non risparmia armi per impedire al marito di sfilarsi il giogo del suo amore.
Nessuno può lasciarla, nemmeno la cugina che ha assunto come segretaria personale e che è legata a lei da un sottile raggiro psicologico. Quando la giovane attira l’attenzione di un corteggiatore, Harriet si adopera per sradicare il sentimento alla base. Non può permettere a nessuno di metterla in un angolo, non può allentare le sue redini d’acciaio, ma perseverare limando con falsa dolcezza i nervi di coloro che la circondano. Una donna spregevole e profondamente ferita da un padre che l’ha abbandonata in passato, spingendo la madre a una vita di depressione e pazzia. A quella madre Harriet farà visita svelando un remoto e malconcio spirito di figlia affettuosa, restando impotente spettatrice del tenero squallore che regna nella clinica psichiatrica e infine tornando a casa, incapace di affrancarsi dal passato.
Man mano che la sua maschera di perfezione si fa più coriacea e pesante, più folle diventa l’intento di legare a doppio filo gli affetti e più asettica diventa la casa in cui vive. Anche una cena coi colleghi del marito rappresenta un imprevisto scossone nelle regole della vita di Harriet. L’idea che il padrone di casa possa sbottonarsi e sorridere giocando a carte con l’attempata moglie del capo diviene un tarlo divorante nella mente della padrona. E la successiva notizia di un possibile trasferimento di Craig fuori dal paese per seguire un nuovo importante progetto è la goccia che fa traboccare il vaso.
Il flusso machiavellico dei pensieri di Harriet è inevitabilmente il nostro, la donna inscena piccoli siparietti come vittima e carnefice. Solita sospirare tremolante come un’inoffensiva mogliettina, è pronta a marciare sul campo di battaglia come una vera macchina da guerra e giocare a carte ben altro che scoperte. Trucchi e stratagemmi in vasta quantità, conversazioni pericolose, telefonate segrete: Harriet soppesa e misura le sue mosse, proprio come lucida il vaso cinese pieno di riso che tiene sul caminetto. L’intoccabile vaso cinese che un marito esasperato sta per frantumare assieme a un matrimonio ormai rimpinzato di sotterfugi e menzogne.
Terza versione cinematografica della commedia scritta da George Kelly nel 1925, è un melodramma lineare e scevro di orpelli, dove l’indagine psicologica è padrona della scena e le azioni si stagliano sullo sfondo piatto e immobile di una casa diventata mausoleo delle ossessioni. Colpi di scena modesti e calibrati con cura dal regista Vincent Sherman, senza mai tendere all’eccesso, ma mantenendo ogni emozione pressoché congelata sul fondo del cuore di Harriet.
La Crawford, da sempre ottima protagonista del vittimismo cinematografico, rende giustizia all’aridità di questa protagonista noir: è impossibile arrivare sino alla fine del film senza provare per lei la più viscerale avversione. Le sue maniere affettate e gli sguardi languidi studiati a tavolino, le sue scuse all’apparenza tanto sincere, i suoi piccoli trucchi quotidiani per alimentare nel cuore del marito un inevitabile senso di colpa. Allo spettatore manca l’aria, perché respira troppo a lungo quella di Harriet. Vi garantisco che la tentazione fortissima di spaccare quel vaso, spalancare quella finestra e sedersi di traverso sul divano irromperà dentro di voi.
A quel punto, riordinare la cucina in modo compulsivo sembrerà un'inezia.
Maria Silvia Avanzato
Sezione di riferimento: Vintage Collection
Scheda tecnica
Titolo originale: Harriet Craig
Anno: 1950
Durata: 103'
Regia: Vincent Sherman
Sceneggiatura: Anne Froelich, James Gunn
Musiche: George Duning, Morris Stoloff
Fotografia: Joseph Walker
Attori: Joan Crawford, Wendell Corey, Lucile Watson, Allyn Joslyn, William Bishop, K.T. Stevens