Adattando la pièce da lui stesso portata a teatro con grandissimo successo, Roman e il suo cucciolo (oltre 250mila spettatori in giro per la penisola), dà luogo, per la storia dell’immigrato romeno Roman e del figlio Nicu, a un setting spettrale calato in un b/n pestissimo, mirato a ostruire volutamente ogni possibile inserto di pallore nel tessuto delle immagini, sporcando ogni illuminazione, ingrigendo il tutto. Uno scenario quanto più possibile brutalizzato che va a fare il paio con la personalità e l’esistenza di Roman, interpretato dallo stesso Gassman, che è devoto alla Madonna Nera e fa lo spacciatore, è un cafone arrogante e incolto che vive e ha cuore solo per il benessere del figlio.
Nel passare dalla scena teatrale al circoscritto spazio cinematografico, il senso di irrealtà urlata, che addensa troppo il nero e infiacchisce troppo il bianco, allontana non soltanto la percezione cristallina dei colori ma anche quella del cuore e dell’essenza della storia. La rappresentazione di un calderone di culture violente, all’insegna dell’essenziale dualismo integrativo tra borgata e immigrati, suggerisce una barbarie dentro cui l’umanità fatica ad insinuarsi, ma che presto degenera in un accento romeno forzato e astratto nella ripetizione di una maniera esasperata, annegando anche nella stereotipia di molte caratterizzazioni di contorno.
Nonostante tutto, però, la regia di Gassman tiene, sorprendentemente e un po’ inspiegabilmente, a dispetto delle sue debolezze e delle zappe che si getta sui piedi da sola, sbarcando il lunario forse proprio grazie alla mostruosa voglia di dare una voce meritevole a questa storia. Un’urgenza, una precisa volontà di diversità che è talmente bruciante da rischiare di bruciarsi, di infiammare troppo quanto di buono presente al suo interno, scadendo così nella mera contemplazione delle proprie ceneri e nulla più. E invece no, o per lo meno, non del tutto: si tallona lo squallore orrido di spaccio e ignoranza facendo della desolazione morale e della superficialità subumana una cifra stilistica, di sicuro non equilibrata nella ri-mediazione da una forma artistica all’altra, ma allo stesso tempo così ostinata nei suoi difetti da generare in chi guarda un interesse, un’affezione, il senso di un’immediatezza necessaria.
Razzabastarda è un’opera che catalizza i suoi sforzi nella giusta direzione, e che attraverso la prontezza anche estrema e sicuramente caricata della sua resa riesce comunque a non involversi del tutto. La seconda parte degenera un po’ nel pasticciaccio brutto anche da un punto di vista narrativo, le direzioni si sparigliano e si perde un attimo la bussola, il filo di un equilibrio narrativo che viene purtroppo ad affastellarsi. C’è un vuoto, un avvallamento, una mancanza, come un black-out di sceneggiatura più simile a un passaggio sbagliato dovuto al fatto di aver faticato un po’ nel dilatare la pièce interpretata tra gli altri, in passato, anche da Robert De Niro in un più diluito prodotto cinematografico.
Gassman ha a cuore questa storia, e si vede: non si spiegherebbe altrimenti una tale verve attoriale sputacchiante e molto fisica, che va al di là della necessità drammaturgiche del suo personaggio, che risulta fin troppo sopra le righe ma che al contempo sintetizza al meglio l’essenza di un’opera prima ambiziosa e coercitiva, che violenta lo spettatore con uno scopo preciso. Un film che è degno rappresentante di quelle Prospettive Italia sotto la cui egida fu presentato lo scorso novembre al Festival del Film di Roma.
Davide Eustachio Stanzione
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Anno: 2012
Regia: Alessandro Gassman
Sceneggiatura: Vittorio Moroni, Alessandro Gassman
Fotografia: Federico Shlatter
Musiche: Aldo De Scalzi
Durata: 106’
Uscita in Italia: 18 Aprile 2013
Interpreti principali: Alessandro Gassman, Manrico Giammarota, Sergio Meogrossi, Michele Placido.