Derek Cianfrance riprende l’idea eschilea del destino dipingendo un affresco dai toni cupi, popolato da personaggi tragici, che emergono, come il Kurtz di coppoliana memoria, dalle tenebre dell’umanità; l’architettura di una società americana stratificata e della sua provincia hopperiana fa da scenario a due destini che si incontrano per caso e restano segnati per sempre.
Entrambi marci, entrambi persi, l’uno per necessità e per un destino funesto, l’altro per natura ed indole. Luke “il bello” (Ryan Gosling) ha tatuata la sua essenza sulle nocche, su cui spiccano le lettere che compongono la parola “handsome”, come “Love” e “Hate” guizzavano tra le dita del reverendo Harry Powell di Laughton; è uno spirito libero, uno stuntman che si sposta di città in città con la sua moto, iconico archetipo cinematografico, dal Driver di Hill al Motorcycle boy di Francis Ford Coppola. La sua entrata in scena è ieratica, descritta con un gusto estetico dalla forte eco anni ’80; la mdp lo segue da presso con un intenso piano sequenza, mentre incede con piglio deciso, sfoggiando una t-shirt dei Metallica, e quando lo show improvvisamente inizia, tra l’assordante rombo dei motori, l’atmosfera si sospende, il tempo e lo spazio si congelano, insieme all’attenzione dello spettatore. La sua difficile storia d’amore con Romina (Eva Mendes) viene ulteriormente complicata, ma allo stesso tempo infervorata, dalla scoperta di un figlio; Luke vive in modo viscerale la sua paternità, al punto da sacrificarsi totalmente pur di riuscire a far fronte alle esigenze di suo figlio. Proprio l’irrefrenabile amore verso la sua creatura farà emergere il suo lato oscuro e marcio.
Il suo è un destino già segnato, lo si legge sulla sua pelle, sulle rune tatuate in ogni parte del corpo e dell’inseparabile motocicletta. Poi c’è Avery (Bradley Cooper), un poliziotto la cui ambizione sfrenata getterà luce sul suo vero Io, e che, in maniera simmetrica e contraria rispetto a Luke, sarà pronto a sacrificare ogni cosa, moglie, figlio, colleghi e amici, per la smania di potere e di autoaffermazione; l’incontro con Luke segnerà la svolta radicale della sua vita, rendendolo prima eroe celebrato dai media e poi animale politico interessato soltanto al corteggiamento del proprio elettorato. Lo sdegno del regista verso il personaggio di Avery sembra sottolineato dalla presenza insistente di una mosca sul suo volto in una scena cruciale del film, metafora dell’intima natura escrementizia sociale di quello che dovrebbe esserne un adamantino esemplare.
La narrazione si dipana attraverso gli anni e le generazioni ed arriva, quindici anni dopo, fino ai figli dei due protagonisti, specchi dei loro genitori, destinati a percorrere strade già segnate ed a reiterare i comportamenti dei padri, vittorie e sconfitte comprese, tutto senza lieto fine, ma con la sobria consapevolezza di un fato inesorabile ed ineludibile. AJ e Jason sono gli eredi di un’umanità feroce, che fagocita il prossimo velocemente senza pensare alle conseguenze, uomini imperfetti e forse per questo ancora più veri.
Atena, nella trilogia eschilea, ricordava che spetta alle Erinni di “regolare tutto tra gli uomini”, di donare “agli uni i canti, agli altri le lagrime”, così ad alcuni uomini sono riservate gioie e glorie, ad altri lacrime e dolore; non c’è salvezza, non c’è possibilità di mutare il destino.
Come un tuono (titolo originale The Place beyond the pines) era stato pensato ben prima di girare Blue Valentine e ha avuto una genesi fortemente travagliata, ben 37 riscritture nell’arco di cinque anni, prima di trovare un produttore. Dotato di un tessuto narrativo discontinuo, il film è riconducibile a tre percorsi diegetici, talmente indipendenti da risultare quasi tre opere individuali, che si ricongiungono e chiudono degnamente nell’ultimo atto del film, forse il più difficile. Il regista americano non indugia sui terreni del melodramma, non solletica le corde del moralismo semplicistico e lacrimoso: il suo intento si ravvisa nel gusto per la costruzione sfaccettata dei personaggi, personalità complesse e mai banali, e nel lavoro di contrapposizione estetica/etica tra Luke ed Avary.
Cianfrance, alla sua terza regia, ha confezionato un’opera sofferente che trascina lo spettatore in un luogo suggestivo, sul confine tra l’epica ed il realismo, “un posto oltre i pini”, come nel vecchio detto Iroquois. Il film abbonda di citazioni, ma mantiene la sua autenticità; l’autore ha fatto propri gli insegnamenti dei suoi maestri Stan Brakhage e Phil Solomon: lo si intuisce, tra l’altro, dall’uso del colore, saturo, sgranato e pieno. Ma il regista riesce a offrire uno stile personale, e a concedersi alla sperimentazione del linguaggio estetico.
Una menzione particolare merita la splendida e toccante colonna sonora affidata da Derek Cianfrance a Mike Patton, geniale artista poliedrico, musicista da sempre ossessionato dalla ricerca di nuove sonorità e di linguaggi musicali alternativi. Ex front leader degli indimenticabili Faith No More, ha deliberatamente abbandonato la scena rock mainstream per dedicarsi in maniera infaticabile ad una serie infinita di progetti e collaborazioni artistiche incredibilmente eterogenee, dalle sperimentazioni con John Zorn, ai dischi con i Tomahawk e i Fantomas, concedendosi perfino una recente immersione nella musica italiana pop anni sessanta, insieme a Roy Paci, Vincenzo Vasi e l’orchestra filarmonica Toscanini, con il memorabile tour “Mondo cane”.
Mariangela Sansone
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: The Place Beyond the Pines
Anno: 2012
Regia: Derek Cianfrance
Sceneggiatura: Derek Cianfrance, Ben Coccio, Darius Marder
Fotografia: Sean Bobbitt
Musiche: Mike Patton
Durata: 140’
Uscita in Italia: 4 aprile 2013
Interpreti principali: Ryan Gosling, Bradley Cooper, Eva Mendes, Rose Byrne, Ray Liotta.