Fissare l’età della Temple a ottantacinque anni suscita quasi un lieve stupore: si ha l’impressione che lei viva da sempre, da molti anni prima, da quando la macchina da presa americana ha deciso di consacrare a mito un enfant prodige. La sua leggenda resiste nei cartoni animati, sulla copertina di un cd dei Beatles, in un quadro di Dalì, addirittura nel colore rosato di un cocktail. Sono dediche alla bambina prodigio e le sopravvivono assieme ai suoi indimenticabili film.
C’è un fondo amaro, in questo cocktail rosa, che a tratti rimanda a quella Baby Jane Hudson che ha trovato in Bette Davis la giusta gradazione di grottesco. C’è la tenerezza e la ferocia delle piccole vite luccicanti destinate a un naturale declino. Per Shirley l’infanzia è finita a tre anni, con i primi passi di danza, per arrivare pronta ai suoi sfavillanti sette anni di ingaggi cinematografici. Censurata, educata, addestrata, seguita passo passo da una madre decisa a fare di lei una stella. Le schiariscono i capelli, le fanno i boccoli, le insegnano a perfezionarsi nella danza e presto diventa l’acuta, pestifera, ottimista, tenera figlioletta di una nazione intera. “Finché il nostro paese avrà Shirley Temple, staremo bene” dice il presidente Roosevelt mettendo fra le sue piccole mani la fame di speranza di un popolo. Frattanto la data di nascita sui documenti di Shirley viene modificata per consentirle il miracolo di un’infanzia infinita, sino a impedirle di saper dare una risposta alla domanda “Quanti anni hai?”.
Ha gli anni stabiliti dal copione.
Balla in zoccoletti olandesi, mostra soddisfatta le fossette in La regina dei monelli, agguanta il successo con L’idolo di Broadway e scavalca il divario culturale ne Alle frontiere dell’India, restando indelebilmente scolpita nella nostra memoria e prima ancora in quella dei nostri nonni. Shirley è un’erede involontaria della “ragazza coi riccioli” Mary Pickford, ma ha in più il senso del ritmo e il prodigio del sonoro. Un paese intero vuole adottare l’orfanella dello schermo, vuole identificarsi con la piccola ballerina voltando le spalle alla Grande Depressione, anche se non manca chi la ritiene uno spettacolo per depravati, chi storce il naso davanti alle gonne corte su un corpo inevitabilmente destinato a lasciare il bozzolo infantile.
Shirley cresce, anche se i copioni dicono il contrario, e sboccia in una ragazza non più tanto bionda e disposta a impegnarsi per nuovi ruoli. Che arrivano senza fare rumore, che poi non arrivano più. L’America non può permettere a “Riccioli d’oro” di diventare una donna. Dopo alcuni tentativi (con il ruolo di sorellina minore marchiato a fuoco sulla pelle, si pensi all’interpretazione della cuginetta in Al tuo ritorno di Dieterle) Shirley lo capisce e si fa da parte a soli ventidue anni. Questo basta a spazzare altrove lo spettro dell’irresistibile e decadente Baby Jane Hudson: Shirley Temple non si è ostinata a rincorrere “Riccioli d’oro”, è diventata una donna matura attiva in politica e più forte di un tumore al seno.
Noi ci occupiamo di cinema, per questo ci fermiamo qui assieme ai riflettori spenti, senza indagare gli ultimi anni di una bambina leggendaria e le sue imprese.
Ottantacinque anni passati là fuori, davanti alle folle. Invecchiando e raccogliendo guanti di sfida, senza sete di elisir di eterna giovinezza; una donna capace di fermarsi, trasformarsi, tenere alta la bandiera della grazia e rivolgere uno sguardo generoso sul mondo, spezzando la malattia e distruggendo il silenzio.
Adesso, più di prima, l’immortalità è sua.
Maria Silvia Avanzato
Sezione di riferimento: Vintage Collection
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