Mi trovo così a constatare che la definizione più efficace per un capolavoro di questa portata sia proprio il ritorno a quel ventre sconosciuto e materno dove ognuno di noi ha passato un breve lasso di tempo in attesa della vita. L’atmosfera de Il posto delle fragole si potrebbe definire “amniotica”, uno scenario morbido dove ogni cosa è sospesa, gravitante nel tepore, negli echi dei battiti cardiaci, nelle prime e maldestre scoperte vitali: un dito, una mano, un piccolo movimento quasi impercettibile per la madre, ma di devastante potenza per una creatura in formazione. In questo film ci si rifugia rassegnati e bambini, innocenti e disincantati, colmi di tenerezza e timorosi. Siamo tutti salvi e condannati, nel posto delle fragole.
Il professor Isak Borg (Victor Sjöström) racconta la sua favola dai margini taglienti, ci fa entrare nel suo studiolo e subito il suo racconto ci appassiona: a una settimana dal giubileo che lo vedrà riconosciuto per i suoi meriti di medico e studioso, l’uomo si sfila le vesti di scienziato e ci permette di guardare con calma e attenzione nella sua vita.
Una vita quieta, solitaria, prevedibile, a tratti dolce. L’inevitabile declino di un uomo che si trova a comporre un bilancio della propria esistenza, e che ripercorre le stagioni della vita in un sommario di memorie dal sapore incerto.
Ciò che turba il professore è un incubo nel quale precipitiamo noi stessi a poche scene dall’inizio del film: il paesaggio è denso di presagi di morte, lo spettatore è paralizzato, la luce è abbacinante, è uno specchio psicologico deformante dove l’anziano cammina senza capire cosa stia accadendo attorno a lui. Uno scenario che sembra figlio del pennello di Dalì, una sequenza forte e spietata.
Tormentato da brutti presentimenti per via di quell’incubo, l’uomo decide allora di raggiungere la località di Lund per il giubileo viaggiando in auto e non in aereo. Si tratta di un viaggio lungo che non lo spaventa affatto. Per quanto la premurosa governante cerchi di dissuaderlo, lui partirà comunque, con la nuora Marianne come unica compagna di viaggio. Quest’ultima (Ingrid Thulin) è una donna murata in se stessa, afflitta da preoccupazioni che l’hanno spinta a mettere in discussione il matrimonio con il figlio di Borg.
Il dialogo fra i due appare sterile, condizionato da antichi rancori e discorsi in sospeso: ed è allora che, mentre attraversano una campagna svedese rigogliosa di fiori e ombrosa di boscaglia, il professore chiede di fare una piccola deviazione. Conduce la nuora nel cuore di un bosco dove riposa una vecchia casa all’apparenza disabitata, casa in cui Borg ha visto scorrere i momenti più felici dell’infanzia; è lì che intende fermarsi a contemplare, rivangando immagini fra bellezza e nostalgia.
Questa è soltanto la prima delle tante, tristi e magnifiche fotografie che quest’uomo sfinito dalla vita vorrà scattare lungo il percorso. La vecchia casa si rianima di colpo delle risa dei bambini che l’hanno abitata; l’uomo incappa nell’adorabile sorriso di uno spettro, il suo primo amore. Di lì scivola in un vortice di memorie fragili e intime, straordinariamente incisive e così vivide che nutriremo un sospetto, ovvero che Ingmar Bergman, attento direttore d’orchestra di questa fantastica sinfonia, voglia realmente riportarci al calore emozionante del ventre materno.
La macchina procede sui sentieri ma questo film guarda all’indietro, guarda alle occasioni perse e alle parole non dette, alle felicità concesse una sola volta nella vita e all’innocenza sfumata. Il viaggio è generoso di incontri, c’è un trio di giovani autostoppisti, c’è una coppia in evidente crisi, sono molte le persone che si avvicendano sui sedili dell’auto e restituiscono al professor Borg un pezzetto di vissuto o uno spunto sul quale meditare.
Meditiamo anche noi, con dolcezza e perenne sottile paura della morte, rintanati nella magia di quel posto delle fragole dove i giovani vanno a cercare primizie con un cestino per le mani. In questa incredibile lezione offerta da Bergman smetteremo di domandarci “Quanto tempo mi resta da vivere?” per chiederci invece “Come ho impiegato il mio tempo sinora?”. Questo è il pensiero che il regista vuole insinuare in noi e lo fa senza deludere le aspettative dei romantici, senza affrettare i tempi, senza affondare la lama.
Lui indica il sentiero, non dice dove conduca.
Ci propone di percorrerlo a ritroso anziché puntare alla meta ultima, retrocede con attenzione per ogni piccolo sasso aguzzo, ogni stelo d’erba, ogni curva, ogni buca, ogni albero al ciglio della strada, ogni passo già compiuto.
Ogni occasione che abbiamo perso.
Ogni ricordo che abbiamo seminato e tornerà a prenderci, al tramonto.
Maria Silvia Avanzato
Sezione di riferimento: Vintage Collection
Scheda tecnica
Titolo originale: Smultronstället
Anno: 1957
Durata: 91'
Regia: Ingmar Bergman
Sceneggiatura: Ingmar Bergman
Fotografia: Gunnar Fischer
Montaggio: Oscar Rosander
Musiche: Erik Nordgren
Attori: Victor Sjöström, Bibi Andersson, Ingrid Thulin, Gunnar Björnstrand, Jullan Kindahl, Folke Sundquist
| |
| |