“Vado dal mio amante”.
Questa storia di pericolosi riflessi, di portoni con apertura rompicapo e di passaggi segreti, ha inizio così. Con una bella donna gallese nel museo delle cere di Madame Tussauds dove è attesa per un appuntamento proibito. I suoi pensieri prendono voce e discendiamo a ritroso in una storia che ben presto si scrolla di dosso la nebbia londinese per regalarci l’illusione di una Venezia antica e sognante.
Anni '30. Mifanwy Conway è una ragazza capricciosa, luce degli occhi del giudice, suo padre: passa le serate con un gruppo di amici in un club dove fuma una sigaretta dietro l’altra, è volubile in amore, testarda e viziata. Quando il suo sguardo incontra quello altezzoso e sprezzante di Paul Mangin (Eric Portman) è subito folgorazione. Lui, ricco collezionista d’arte, ha modi e costumi di un’epoca remota: imprevedibile, gelido, insaziabile esteta, chiede a Mifanwy un valzer e subito scivola via dal locale senza troppe spiegazioni. Sta alla ragazza seguirlo calcando sulla testa una mantella per poi salire con lui a bordo di una carrozza d’altri tempi. Alla fine di quel viaggio c’è il palazzo di Mangin, un luogo dove una giovane gallese perderà la cognizione del tempo e noi con lei.
Non ci sono parole per descrivere il lavoro maestoso compiuto da André Thomas alla fotografia: saloni sconfinati ammantati da luci morbide e vaporose, tendaggi fruscianti, arpe e arazzi, scaloni e corridoi interminabili. Il tempio di Mangin è un tripudio di suggestioni rubate al gusto classico, le lancette dell’orologio sembrano essere state spostate indietro di quattro secoli, non c’è monile o carillon che non approdi ai nostri occhi lasciandoci stupefatti. Aprire, sbirciare, guardare in controluce: nella miniera dei tesori di Mangin è facile perdersi. “Io sono il presente, qui e subito!” esclama Mifanwy sorseggiando un calice di vino davanti all’imponente camino di quel luogo sospeso fra museo e castello. “Io scelgo il passato, la certezza” risponde l’uomo con un debole sorriso. Le fiamme ardenti alle loro spalle alimentano un fuoco speciale, quello dell’illusione che ci accompagnerà scena dopo scena alla scoperta di un mistero dolce, sinistro, infine sconvolgente.
Il mistero degli specchi diventa così una vera epopea poetica, un monumento al tema del sogno e un affresco perfetto del più doloroso e nostalgico degli amori. Mentre Mifanwy passa le giornate nella sua nuova stanza dei giocattoli pericolosi, vestita e agghindata come una dama rinascimentale, Paul Mangin la fissa, la osserva, la corregge e la plasma. Acconcia i suoi capelli, stira con le dita le pieghe della sua camicia da notte, fa di lei una musa e una bambola di tragica bellezza. Per Mifanwy essere “ammaliata da Paul” è la soluzione a un’esistenza leggera e piena di noia trascorsa a fuggire dal controllo paterno. C’è in lei il desiderio irrefrenabile di ogni donna: divenire segreta principessa di un mondo irreale, ingannare il passaggio delle ore, incastonarsi in una vita nuova, sconosciuta, ipnotica. Piena di meraviglie e, ben presto, di segnali inquietanti.
Un gatto bianco che scivola nelle stanze suscitando l’irritazione di Paul, un’ombra che si aggira notte e giorno per il palazzo, un ritratto perfido che riposa dietro una tenda, la grande sala degli specchi dove ogni parete è un tranello e la paura sul volto di Mifanwy diviene sdoppiata, ingigantita, mostruosa.
In quella specie di illecito amore nato davanti al caminetto c’è qualcosa di profondamente disturbante: l’ipnosi romantica cede il passo al terrore dell’isolamento e quando la ragazza gallese si guarda attorno capisce di essere diventata uno dei preziosi oggetti di Paul, al pari di un manichino. La danza magica si interrompe bruscamente, l’idolatria per il passato diventa voragine e ben presto le sagome spaventose del destino e della reincarnazione fanno il loro ingresso a palazzo. Sullo sfondo c’è una donna di nome Venetia vissuta in Italia nel 1400, con un sorriso beffardo e un piano di vendetta.
Definita “una storia fantastica e maledetta” da Mereghetti e un “capolavoro in bianco e nero degno di Cocteau” da Mario Gerosa, questo film colpisce l’immaginario andando ben oltre la semplice visione. La delicatezza del sogno incontra gli spigoli aguzzi della morte e riesce difficile attribuire un’opera di questo tipo a Terence Young, che passerà alla storia con James Bond anni dopo. Eppure il genio giovanile di questo regista ci ha regalato forse una delle visioni più sofisticate e squisitamente macabre degli anni quaranta, una favola amara e piena di rimpianti, una lezione sul tempo, l’ossessione e la magia degli incontri, in cui trova posto anche un esordiente Christopher Lee.
Così ci si emoziona assistendo all’incrocio di anime complementari, lo sfioramento di pelle di due amanti incontrollabili e impossibili, destinati a sparpagliarsi nel vento che sovrasta un incendio.
Maria Silvia Avanzato
Sezione di riferimento: Vintage Collection
Scheda tecnica
Titolo originale: Corridor of Mirrors
Anno: 1948
Durata: 105'
Regia: Terence Young
Soggetto: Chris Massie
Sceneggiatura: Rudolph Carier
Fotografia: André Thomas
Musiche: Georges Auric
Attori: Christopher Lee, Joan Maude, Lois Maxwell, Barbara Mullen, Eric Portman, Edana Romney