Procediamo con ordine. Tonk, tonk, tonk, questo è il suono dei pezzetti di cioccolato che stacco dall’uovo con ammirevole tenacia per tutto il pomeriggio, giustificandomi con un “non ho spazio in frigo, devo farlo scomparire”. Mentre sto lì a ingozzarmi, annoiata, decido di procacciarmi un po’ di compagnia frugando nella mia infinita riserva di Dvd. Brutta cosa, il collezionismo: capita di possedere film senza nemmeno saperlo. Ed ecco che affiora il tipico esempio di “farabutto titolo italianizzato”. In lingua originale, questo film, mi avrebbe fatto scintillare gli occhi con un intrigante House on Telegraph Hill (La casa sulla collina del telegrafo). Ora, fra un boccone di cioccolata appiccicosa e l’altro, mi sembra solo un piattissimo "Ho paura di lui" e subodoro un drammone con scivoloni noir.
Ma c’è una garanzia, ed è il nome del regista: Robert Wise. Lui non può deludermi, tantomeno il giorno di Pasqua. Con l’uovo di preistoriche proporzioni a portata di mano, entro in sordina in questo film straordinario, ineccepibile nei suoi cambi di direzione imprevisti, nei suoi spudorati e sapienti colpi di scena: è ciò che ci vuole per mandare giù tutto questo cioccolato, è puro veleno.
Resto sorpresa di fronte al viso della nostra Valentina Cortese, perla italiana in un cast americano e distante anni luce dallo stereotipo di protagonista femminile: con un viso dolcissimo e leggermente imperfetto, occhi scuri traboccanti di fervore e sorrisi frettolosi, impersona la polacca Victoria Kowelska e ci racconta la sua vita attraverso la voce fuori campo. Rinchiusa in un lager nazista, narra con rassegnata sofferenza la sua massacrante quotidianità e il legame con Karin, unica amica e compagna di sventura. Quest’ultima è gravemente malata e non fa che raccontarle del figlioletto Chris, mandato in America dalla zia poco prima della guerra: alla morte della zia Karin e Chris diventeranno molto ricchi.
Victoria ascolta come ipnotizzata quella favola di splendore e ricchezza, lontanissima dalla prigionia del lager. L’ascolta fino a quando Karin non muore, col desiderio insoluto di riabbracciare il suo bambino. Allora vi pongo la domanda che vi ho già fatto all’inizio: avete mai finto di essere un’altra persone? Victoria Kowelska sì. Assume l’identità dell’amica Karin, sperando dopo la liberazione in una vita dignitosa nella bella casa della parente americana. E si può dire che le cose vadano, nonostante qualche inghippo iniziale, proprio in questo modo: c’è un’atmosfera tutta letteraria, alla “Ho sposato un’ombra”, e il piatto si preannuncia ricco.
Victoria giunge a San Francisco dove conosce Alan, il tutore legale (e parente di famiglia) del piccolo Chris. Scopre che la ricca zia è morta e Alan le racconta della bella casa sulla collina del telegrafo (quanto sarebbe stato più lusinghiero, questo titolo!) di proprietà della defunta zia. Lì vive il piccolo Chris, assieme al tutore e a una governante. E qui, amici miei, i tonk tonk tonk del cioccolato si fanno riavvicinati, perché si scorgono le basi per una succosa tragedia. Victoria, spacciandosi per Karin, sposa Alan su due piedi sebbene la sua voce fuori campo ci riveli di non essere innamorata di quell’uomo, ma solo bisognosa di sposare un americano e sistemarsi. La necessità non ha legge.
Scorrono meravigliosi i fotogrammi della rinascita della nuova “Karin”, fra balli e abiti da sera, tanto che nasce un sottocutaneo pizzicore indignato di fronte all’astuzia della protagonista. Specie quando arriva a casa e abbraccia amorevolmente Chris, figlio di un’altra donna. Ma il farabutto titolo italianizzato ha davvero corrotto la magia di questo film, perché il grande orchestrante di quest’opera è quella magnifica casa: sì, meritava il suo nome nel titolo. In un arguto gioco di luce e ombra, l’edificio di sapore Psychiano si rivela una piccola wunderkammer. Assieme alla nuova “Karin”, ci scopriamo curiosi di girovagare fra porte chiuse e stanze segrete: lo sguardo benevolo della vecchia zia, dal ritratto appeso al muro, sembra in anticipo sui nostri pensieri. Fra biblioteche e corridoi, la governante Margaret osserva la nuova venuta e sta appollaiata come un’aquila alla finestra.
Questa casa sulla collina è una nuova e magnifica prigione, la metafora del castello di bugie che “Karin” si è costruita attorno. Il misterioso capanno in giardino sembra il campanello di allarme su un imminente pericolo e infuria l’aria mefitica del complotto: “Karin” ha preso in prestito una vita difficile e lo scoprirà a sue spese. Qualcuno vuole uccidere lei e quel bambino che sta imparando ad amare. E gli spettri del passato non dormono mai, come dimostra il ritorno in scena di un giovane soldato americano già incontrato in tempo di guerra.
Claustrofobico e geniale, limpido distillato di paura: il film di Wise è un valzer attento e calibrato di figure ora angoscianti, ora materne. Resto anch’io intrappolata nella grande casa sulla collina del telegrafo, fino all’ultima, emozionante scena.
Tonk, tonk, tonk.
Ben venga il cioccolato, ma attenti a cosa vi versano nel bicchiere.
Maria Silvia Avanzato
Sezione di riferimento: Vintage Collection
Scheda tecnica
Titolo originale: House on Telegraph Hill
Anno: 1951
Durata: 93 min
Regia: Robert Wise
Sceneggiatura: Elick Moll e Frank Partos
Fotografia: Lucien Ballard
Montaggio: Nick DeMaggio
Musiche: Sol Kaplan
Attori: Richard Basehart, Valentina Cortese, William Lundigan