Quando ho aperto il vecchio portone per la prima volta, il buio mi ha stordita. Vagavo fra le stanze morte con la paura sottile d’incontrare qualche “fastidioso abitante”, siccome la natura è il vero padrone di casa da molti anni. Ma la luce filtra ancora ostinata attraverso i vetri impolverati, ogni seggiola immobile innanzi al camino sembra sul punto di raccontare una storia.
Perché vi ho portati qui dentro con me?
Perché questa casa apparteneva a mio padre, molti anni fa, e qui avrebbe voluto vivere. Perché, deposta la penna, le strampalate scrittrici come me impugnano un pennello e decidono di risanare le ferite di quell’antico rifugio dove a malapena arriva la corrente elettrica. Naturalmente sono un pessimo muratore e voi vi chiederete perché mi sia messa in testa di riportare alla vita la casa morta.
Vi risponderò con toni Old America: perché “sento la terra dei miei vecchi”.
Lo stesso pensiero attraversa la mente dell’anziana Ella Garth (Jo Van Fleet), seduta sulla sua sedia a dondolo, nella veranda della sua stamberga di legno, tutta assi inchiodate. Di fronte a lei il Tennessee, imprevedibile signore di ogni vita umana nel raggio di chilometri, scintilla piatto e incantato. A monte, invece, il Tennessee Valley Authority (TVA) sta avviando i lavori di costruzione di una diga che imbriglierà i capricci del fiume salvando molte vite e raccolti. Così la zona si è rapidamente spopolata, fatta eccezione per Garthville, l’isolotto dove vive Ella Garth, seduta su quella sedia a dondolo. Sedia che non intende lasciare.
Personalità coriacea e scintillio diffidente negli occhi, Ella Garth lotterà con le unghie per la “terra dei suoi vecchi” e lo farà aspettando che le acque deviate dalla diga la vengano a inghiottire.
Si tratta di un bel grattacapo per Chuck Glover (Montgomery Clift) del TVA, incaricato di convincere la vecchia signora a vendere casa e terreni per trasferirsi altrove e permettere alle acque di sormontare quel pezzetto di terra insulare. La sua prima spedizione all’isola assume, grazie alla mano sicura di Elia Kazan, i contorni di un’avventura primitiva. Fra gli altissimi canneti fruscianti, le ombre dei membri della famiglia Garth scivolano come visioni passeggere: sono arrabbiati, sprezzanti, bislacchi. Ci sono gli schiavi neri e l’eco malinconico dei loro canti, la loro testa bassa e la reverenza nel togliersi il cappello, nel dialogare con Dio. A nulla serve il grande cartello che intima ai funzionari del TVA di stare alla larga dall’isola: Glover arriva a casa Garth e lì trova la dama di pietra, arpionata saldamente alla sua sedia a dondolo.
Attorno a lei, come spettri attraversati dal sole, si muovono le donne di famiglia: uno schieramento di anime mute e immobili, ritrose e inespressive, decise a restare come vele issate al cielo nella striscia di terra che appartiene loro da sempre. Per Glover sarà una sfida sfiancante, specie ora che i suoi occhi hanno trovato rifugio in quelli della fragile e splendida Carol Garth (Lee Remick), nipote di Ella. Carol è una giovane vedova trasfigurata dalle paure, che guarda ancora alla casetta bianca e distrutta sull’altra sponda del fiume, lì dove ha vissuto col marito e lasciato i ricordi, a marcire.
Questo film si dipana adagio, col suono orgogliosamente americano dell’armonica a bocca, con atmosfere intrise di blues, dove la miseria e la sacra semplicità dell’America rurale emergono impertinenti. Da un lato c’è uno spaccato ruvido e sincero sugli schiavi neri d’America, sulla loro disperazione, fluida e palpabile nella magia del canto spiritual. C’è il piccolo cimitero sul promontorio dell’isola, dove ogni lapide racconta anni di sforzi e privazioni, un tempio di antichi eroi mai dimenticati. C’è il polso di ferro della vecchia Ella Garth, il suo immenso cuore dalle vie sbarrate, i suoi occhi ridotti a fessure, i modi inaciditi dai lunghi inverni.
Il Tennessee, sopra ognuno, è il grande mostro buono che salva o condanna all’improvviso, con correnti infuriate. Eppure, per la gente di Garthville, un fiume non si può domare con una diga: va rispettato e ascoltato, va spesso perdonato. Per questo Ella e i suoi hanno deciso di morire assieme nel giorno dell’apertura della diga, pur di non abbandonare la propria terra; testardi, cristallini e sereni di fronte al Dio che li aspetta.
L’impacciato Chuck Glover suscita in noi tenerezza: osteggiato e perseguitato dai paesani, deciso a far valere i diritti degli schiavi a costo di essere punito dai padroni bianchi, donchisciottesco protagonista di un braccio di ferro impossibile. Un film che rientra pienamente nello stile di Kazan e fruga con le dita lì dove la piaga sociale è più profonda e sanguinante.
Dunque lasciate che le inossidabili vecchiette come me lottino aggrappate a quattro muri sul punto di crollare: il cuore conosce linguaggi più forti delle correnti.
Maria Silvia Avanzato
Sezione di riferimento: Vintage Collection
Scheda tecnica
Titolo originale: Wild River
Regia: Elia Kazan
Sceneggiatura: Paul Osborn, Borden Deal, William Bradford Huie
Attori: Montgomery Clift, Lee Remick, Jo Van Fleet
Musiche: Kenyon Hopkins
Fotografia: Ellsworth Fredricks
Anno: 1960
Durata: 110'