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SO DOVE VADO - La maledizione scozzese

30/10/2014

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Chiusa in casa da ore assisto a un diluvio torrenziale oltre i vetri; la campagna risponde al maltempo con un verde brillante di campi dissetati e tutto fa pensare alla Scozia. Il momento ideale per guardare un vecchio film.
Siamo diretti proprio in Scozia e ci arriveremo con il treno dove Joan Webster (Wendy Hiller) viaggia sola per raggiungere il futuro marito Robert Bellenger, l'anziano proprietario delle industrie chimiche britanniche, in attesa della giovane moglie su quella sperduta isoletta delle Ebridi di nome Kiloran della quale si proclama signore e padrone. Joan ha ricevuto un programma di viaggio dettagliato, e la notte sul treno diventa occasione per sognare: sogna l’isola di Kiloran e la Scozia, immagina montagne rivestite di tartan e tutto è permeato da una magica polvere onirica, bagliori tremolanti, mormorii ovattati, l’altisonante titolo di Lady Bellenger sempre più vicino.
Al risveglio Joan, da sempre testarda e determinata, ha un motivo in più per sorridere: l’isola è solo a mezz’ora di navigazione. Ora fra lei e il sogno c’è solo il mare, ma per sua sfortuna è un mare ammantato dalla nebbia.
Nonostante il programma di Bellenger prevedesse una barca che sarebbe venuta a prelevare la futura moglie al porto, la nebbia rende impossibile ogni spostamento per mare. Joan è testarda, sì, ma non tanto da sfidare la sorte; così si rassegna a passare la notte in una casa locale chiedendo ospitalità a un bizzarro trio di scozzesi: il capitano, un vecchio falconiere in cerca dell’aquila dorata che ha perduto nella nebbia; Catriona MacNeil, circondata dai suoi fedeli bracchi, una donna spartana che ha scelto di vivere sola sull’isola imbracciando il fucile; Torquil MacNeil (Roger Livesey), un misterioso ufficiale di marina in licenza che fuma la pipa e si diverte a riempirsi la bocca di leggende locali. 
Il mare mormora ed è una notte lunga per la futura sposa inglese, notte di preghiere rivolte al mare perché il maltempo lasci spazio al sole e Kiloran si avvicini una volta per tutte. Nell’alito denso della nebbia si riconosce il profilo severo dei resti dell’antico castello MacNeil: la leggenda vuole che nessun MacNeil possa varcare quella soglia, perché c’è un’oscura maledizione ancora incisa a monito su una delle pietre del rudere.
Spettrale e incantato, fumoso e selvaggio, così appare il paesaggio scozzese agli occhi di Joan. La sua scoperta di ogni angolo di Mull risulta più facile al braccio del giovane Torquil e il maestrale irrompe sulla scena spingendo ancora più lontano il proposito di imbarcarsi per Kiloran. Una prigionia intrigante e spaventosa, allietata dalle danze tipiche degli scozzesi, dal lamento acuto della cornamusa, dai caminetti accesi, dalle favole gaeliche tramandate dalle balie ai bambini e dal cuore semplice dei pescatori del luogo. Gente dura e ruvida come la cantilenante lingua che parlano, gente forgiata da vento e salsedine. E Torquil, irresistibile compagno d’avventura in kilt, è deciso a svelare a Joan le vere ricchezze della sua terra, fatta eccezione per le rovine del castello dove non gli è consentito di entrare: egli è infatti un MacNeil, il vero signore di Kiloran, sebbene più legato alla poesia dei tramonti che al patrimonio.
Bellenger è soltanto un affittuario, e mentre Joan tenta di raggiungerlo - per non venire meno alla propria rettitudine – le giunge voce dei fastosi progetti del futuro marito, fra catering e piscine: i pescatori del posto sbeffeggiano il vecchio riccone per la sua mancanza di arguzia mentre Joan tenta stoicamente di difenderlo, sostenendo la modernità e l’agiatezza del suo ceto. 
Così si scorge, dietro la miseria dei villaggi, l’impronta di una seconda Scozia, la Scozia dei ricchi colonizzatori, di coloro che usurpano castelli e ne fanno dimore da vacanze; una Scozia calpestata e straziata dai potenti e dai paganti. Bellenger, schermato da trenta minuti di mare in tempesta, è un’invisibile e odiosa sentinella: tanto vicino e tanto distante dal cuore, ridimensionato dai discorsi di chi l’ha dovuto accettare come “padrone”. A Joan non rimane che riflettere e interrogare il maestrale.
Un vero braccio di ferro fra ceti sociali dove Joan è il fragile ago della bilancia: tornerà a testa bassa al suo futuro di ricchezze o sceglierà coraggiosamente un presente semplice e genuino? Sarà una leggenda suggestiva a svelarcelo, ma occorrerà una tempesta e una vecchia ballata dal titolo “La ragazza coi capelli castani”.
Un'affascinante, aspra, imprevedibile commedia, disarmante nella sua tenerezza e avvincente come le favole marinaresche, a riconfermare l’ottima miscela di talento dei maestri Powell e Pressburger (i quali scrissero il soggetto dalla casa nel Devon, fuggendo alla guerra). Un gioiello che merita di essere riscoperto e amato dalla prima all’ultima scena. Si resta rapiti dalla dimensione di sogno e magia, di assenza gravitazionale, di lancette paralizzate attorno al racconto di un amore e di scoperta di territori fatati.
Che importa se piove? Noi sappiamo dove andare: questo film offre un ottimo riparo.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: I Know Where I'm Going!
Anno: 1945
Durata: 91'
Regia e sceneggiatura: Michael Powell, Emeric Pressburger
Fotografia: Erwin Hillier (con il nome Erwin Hiller)
Montaggio: John Seabourne Sr.
Musiche: Allan Gray (musiche originali)
Attori: Wendy Hiller, Roger Livesey, Pamela Brown, Finlay Currie

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L'OCCHIO CHE UCCIDE - Follia d'imago mortis

26/3/2014

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Ho anch’io la mia finestra di fronte, che spicca su un giardinetti per villette retrò. Un po’ di bucato steso, un cane che ciondola fra gli alberi in attesa della cena e la finestra. In quella finestra di fronte non accade niente di avvincente, ha palpebre velate fatte di tende bianche. Tempo fa, incuriosita, ho notato che una ragazza è solita sedersi a quella finestra e guardare verso di me. L’ho studiata cercando di mettere a fuoco la sua faccia e sentendomi a tratti importuna. Poi ho scoperto che non sono io, l’importuna, perché è lei che guarda me, è lei che vuole mettermi a fuoco. Così ogni giorno c’è un rimbalzo d’occhi da vetro a vetro e non saprei dire chi delle due stia spiando l’altra.
Per Mark Lewis (Carl Boehm) lo sguardo è un’arma differente, specie quando è filtrato dalla sua inseparabile cinepresa. Lui è un ragazzone biondo e ben piantato, con occhi seri e profondi e la tendenza a non parlare se non interpellato. Attraversa una Londra caotica con il suo cappotto marrone e i capelli in ordine, la cinepresa non lo abbandona mai e a volte ci mostra parte della sua visione, dandoci l’illusione di essere finiti a sbirciare dentro un obiettivo quadripartito. 
Mark lavora sopra una vecchia edicola che ama commerciare generi differenti; fiammiferi, quotidiani, sigarette e foto di belle ragazze svestite in pose provocanti. La pornografia è una recente scoperta per i britannici e la buona società non disdegna l’acquisto di quelle innominabili foto in più, nascoste fra le pagine del Times. Sopra la piccola rivendita proibita c’è uno studio fotografico ben attrezzato, dove il biondo ed enigmatico Mark immortala modelle con lingerie trasparente e corpo esplosivo. Fotografo di quelle oscenità che Londra brama e ripudia, cineoperatore per un piccola produzione che propone commedie piatte e insapore. Poi torna a casa, in una vecchia palazzina che ha dovuto in parte affittare: per sé ha tenuto soltanto il secondo piano, una grande camera oscura dove sviluppare gli scatti e una saletta di proiezione dove rivedere le sue pellicole migliori. 
È lì che Mark ama sedersi ogni notte, accompagnato dal ticchettio concitato del proiettore e immerso in un buio riposante, per rivedere i migliori momenti di paura che è riuscito a catturare: la paura che scorre disperata sul viso delle donne che ha scelto come modelle e ucciso durante il giorno. Perché l’introverso e taciturno Mark Lewis è un assassino e noi siamo appena entrati in casa sua.
Possiamo imparare a conoscerlo salendo una rampa di scale e bussando alla sua porta, come farà la giovane scrittrice Helen (Anna Massey): rossa di capelli, non tanto attraente quanto sveglia e combattiva, Helen vive al primo piano con una vecchia madre cieca legata ai conforti della bottiglia. Per la ragazza, spigliata e spavalda, l’inquilino del piano superiore è un enigma tutto da svelare, oltre che un ragazzo dai bei lineamenti e lo sguardo sfuggente. Decisa a rompere il ghiaccio, occupa la sedia del regista e chiede di vedere assieme a lui qualche proiezione. Mark la accontenta e le mostra una serie di spezzoni: un bambino addormentato che viene torturato da un fascio luminoso sino a svegliarsi, lo stesso bambino alle prese con un rettile disgustoso. Quella è l’infanzia di Mark raccontata attraverso agghiaccianti filmati girati dal padre, biologo morto anni prima. Un despota, un carceriere, un sadico che ha filmato ogni istante della vita di suo figlio, deciso a studiare di tutti i comportamenti infantili uno dei più diffusi: la paura.
E fa paura, a Helen e a noi, scivolare in punta di piedi in quella vita infelice, nella tormentata e malsana infanzia di Mark Lewis: il bambino spaventato ogni giorno (nelle riprese, il figlio del regista Michael Powell) per ragioni scientifiche e destinato a diventare un uomo ancora più spaventoso.
C’è un involucro di riflessioni Freudiane attorno a questo film, ora considerato un cult e inizialmente scannato dalla critica britannica. Un perverso colpo d’occhio sul mondo del sadomasochismo e del voyerismo, il diario segreto di un mostro innamorato. Helen è l’insospettabile eroina che fa breccia nel cuore di Mark; lui non brama la sua paura, ma desidera i suoi sorrisi. Il rosso dilaga come colore imperante nel set e nei capelli delle figure femminili. Tutto richiama il sangue e la carnalità, i contorni sono netti, i colori e le luci esagerati. Un azzeccato Boehm conferisce a Lewis la giusta dose di pathos e freddezza in perenne contrapposizione. Il regista della paura vaga brandendo il suo occhio assassino, e uccide per mezzo di un braccio armato montato ad hoc sotto la cinepresa. Quasi un artiglio culminante in una lama, eretto con slancio virile, ma un attimo prima della morte.
Un film scopofilo di sguardi nella serratura, che ci rende complici e ci trasforma tutti in quello scomodo Peeping Tom: il consumato guardone ansioso di rubare un’altra scena e un’altra ancora.
La ragazza immobile alla finestra di fronte ne sa certamente qualcosa.
O forse un giorno scoprirò che è solo un attaccapanni.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: Peeping Tom
Anno: 1960
Durata: 101'
Regia: Michael Powell
Sceneggiatura: Leo Marks
Fotografia: Otto Heller
Musiche: Brian Easdale
Attori: Carl Boehm, Anna Massey, Moira Shearer, Pamela Green, Maxine Audley

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NARCISO NERO - Il velo, il vento, il male

8/4/2013

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Per una che ha studiato dalle suore, sacrificando la propria infanzia sull’altare delle buone maniere, parlare di veli bianchi mette a disagio. Così a disagio che, a motivarmi verso la visione del film, è stata una delle mie eroine preferite: Deborah Kerr. Ecco, se la pallida e aggraziata attrice scozzese non fosse stata il volto protagonista di questo kolossal, forse la repellenza di fronte ai veli bianchi avrebbe avuto il sopravvento. Altra perplessità è affiorata in me quando mi sono trovata di fronte a un’immagine colorizzata: un vero peccato per una smodata amante del bianco e nero. Ebbene, in questo caso, lunga vita ai colori sgargianti che trascinano in una terra lontanissima, creando riflessi e baluginii dorati, offrendo vivacità a terra e fiori. Superba e indicata cornice cangiante per una storia d’inquietudine sul ciglio di un burrone.
Narciso nero è la mia favola personale, il film che riguardo volentieri ogni volta che voglio sentirmi altrove, come se m’illudessi di poter assistere ciascuna volta a un nuovo finale. La storia non cambia mai, ma ipnotizza sempre.
C’è quel grande palazzo reale, antico harem, incastonato nel punto più ventoso dell’Himalaya: un principesco blocco di storia e di peccato arpionato alla roccia, arioso e azzurro, sporgente verso il nulla di un precipizio. Ogni volta che vedo quella immagine ho l’impressione di sentire freddo sino alla punta dei piedi. Forse è ciò che capita anche alla giovane e volonterosa suor Clodagh (Deborah Kerr), quando si ritrova a guidare le sorelle del suo ordine verso l’antico palazzo, in qualità di Madre Superiora. Clodagh è troppo inesperta e segretamente spaventata, messa in guardia da tutti circa il vecchio harem della montagna: non si può farne un convento, nel villaggio è detto “la casa delle donne” e il principe vi si intratteneva con le sue cento amanti. Ma Clodagh è un tipo determinato, e si sente responsabile per le sue giovani consorelle; così s’inerpica per l’ostile sentiero roccioso e scopre il palazzo delle meraviglie e delle ombre. 
I muri gridano ancora le antiche pitture erotiche e proibite, il vento e l’altitudine si prendono gioco dei sensi creando illusioni di vertigine, il colore azzurro è dilagante e una vecchia custode dal passato poco chiaro è rimasta lì a prendersi cura della voliera degli uccellini. Ci sono tutti gli elementi per una favola al contrario, dove il castello scintillante come una perla fra le nuvole altro non è che un vecchio rifugio di peccatori e piaceri. Scende in campo uno dei fili conduttori che preferisco in romanzi e film: la capacità dei luoghi di alterare il carattere dei personaggi. In altre parole, il coraggioso gruppetto di suore si ammala. 
Dapprima i danni dell’altitudine e dell’acqua scarsamente potabile intaccano i loro corpi. Poi sono le piccole, immacolate teste sotto il velo a ospitare la pazzia. Una dopo l’altra, le giovani suore si sentono minacciate dal richiamo della carne e della morte. Il palazzo diventa un crudele marionettista e le notti si fanno lunghe e angosciose per la stessa Clodagh, ossessionata dal ricordo di un suo antico fidanzato. Il misterioso Mr Dean, residente inglese, sembra incarnare i desideri repressi delle religiose. I fiori prendono il posto delle patate nell’orto, i profumi si fanno più intensi. Suor Ruth (una spaventosa Kathleen Byron) assume via via contorni sfocati e demoniaci, come se il male albergasse in lei. La spossata suor Clodagh cerca di fermarla, intuendo la catastrofe imminente. Ma questa favola folle schizza velocemente verso l’orizzonte della paura. Il nero e l’azzurro si mescolano, rendendo indimenticabile il ghigno del male sul viso di Ruth. Una vecchia campana affacciata sul burrone scandisce le terrificanti ore del palazzo. Gli abitanti del villaggio, talvolta ostili, abbandonano il convento dove avevano trovato cure e istruzione per tornare nel silenzio delle proprie capanne. Ecco, ora il palazzo è deserto e il male può arrampicarsi sui muri come un infestante, cercando di abbattere il corpo stremato della piccola suor Clodagh una volta per tutte.
Questo film rapisce per la sua distanza dal mondo: ci si sente appollaiati sullo sperone roccioso con Clodagh, al centro di una corona di montagne ghiacciate, fra sconosciuti che parlano un’altra lingua. Viene voglia di toccare ogni pianta bagnata dalle grandi piogge e scalare la montagna per vedere il santone che “non dorme mai”, voglia di sporgersi sul grande nulla ai piedi della monolitica roccia, di percorrere i corridoi del palazzo offrendosi in pasto al vento. Le voci femminili emergono decise in questo piccolo capolavoro di purezza e perversione, fedeltà e tradimento.
Anche noi, davanti allo schermo, respiriamo di colpo l’aria gelida delle pulsioni, ritrovandoci a sperare in un finale che dia sollievo al nostro cuore.
Ecco perché ho rivisto mille volte questo film. Sto ancora aspettando che il mio cuore si dia pace.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: Black Narcissus
Anno: 1947
Regia: Michael Powell, Emeric Pressburger
Sceneggiatura: Michael Powell, Emeric Pressburger (dal racconto di Rumer Godden)
Fotografia: Jack Cardiff
Musiche: Brian Easdale
Durata: 100'
Interpreti principali: Deborah Kerr, Flora Robson, Kathleen Byron, Esmond Knight

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