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DOLLS - Eternità con occhi di bambola

30/3/2020

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La piccola Judy, suo padre, la matrigna e altre tre persone, per sfuggire a un improvviso temporale, trovano ospitalità nella vecchia casa di un anziano fabbricante di bambole e della sua consorte. I due giocattolai in realtà hanno il potere di infondere anima e vita ai loro pupazzi. Durante la notte le bambole assalgono e uccidono alcuni dei protagonisti, colpevoli di aver smarrito la purezza dell'età infantile. 

Girato subito dopo il capolavoro Re-Animator e prima del lovecraftiano From Beyond, ma uscito quasi un anno dopo rispetto a quest'ultimo a causa di lungaggini legate alla post-produzione, Dolls (1987) rappresenta un altro felice risultato della stretta collaborazione artistica tra Stuart Gordon e Brian Yuzna, senza dubbio una delle più proficue nella storia recente del cinema di genere.
Realizzato con un budget ridotto all'osso e girato agli Empire Studios di Roma, il film si muove nei territori della fiaba nera, sfruttando un'atmosfera non lontana dalle migliori suggestioni dei fratelli Grimm, in un incrocio tra le caratterizzazioni preminenti della tradizione letteraria di riferimento e la fenomenologia specifica dell'horror.
Per dare corpo a una delle sue creazioni più genuine, Gordon utilizza i topoi classici legati alla cosiddetta pupofobia, ovvero la paura di pupazzi e marionette, inserendosi in un sottogenere che può far risalire la sua tradizione cinefila agli albori del sonoro con The Great Gabbo (Il gran Gabbo, di James Cruze ed Erich von Stroheim, 1929) e Devil Doll (La bambola del diavolo, di Tod Browning, 1936), per poi proseguire nel tempo attraverso lavori importanti e pregevoli (The Ventriloquist's Dummy, di Alberto Cavalcanti, episodio di Dead of Night, Incubi Notturni, 1945, Amelia, segmento di Trilogy of Terror, Trilogia del terrore, di Dan Curtis, 1975, Profondo Rosso di Dario Argento, 1975, Magic di Richard Attenborough, 1978) e conoscere una vera e propria esplosione negli anni Ottanta e Novanta, grazie alle saghe iniziate con Child's Play (La bambola assassina, di Tom Holland, 1988) e Puppet Master (di David Schmoeller, 1989), senza dimenticare piccole opere di buon impatto (The Ventriloquist's Dummy, episodio dei Tales from the Crypt scritto da Frank Darabont e diretto da Richard Donner nel 1990) e pellicole più recenti (tantissimi titoli, tra gli altri Inhyeongsa, The Doll Master, di Yong-ki Jeong, 2004, Dead Silence, di James Wan, 2007 e Ghostland, La casa delle bambole, di Pascal Laugier, 2018).
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Gli esempi sopracitati, oltre a costituire soltanto una parte dell'ingente filmografia di riferimento, rispondono all'esigenza innata dell'horror di scavare nelle paure ataviche dell'uomo, plasmandole per costruire una materia narrativa in cui contestualizzare la tematica prescelta e al contempo rivoltarla, per fornire un senso di terrore e mistero all'universo visivo rappresentato. Da questo punto di vista è innegabile sostenere come, pur con i suoi limiti, Dolls assuma una posizione di rilievo nel panorama del cosiddetto evil doll movie, ponendosi inoltre come gustoso antipasto per le opere di maggior impatto commerciale che di lì a breve avrebbero dominato il mercato (Child's Play in particolare).
Bambole indemoniate, pupazzi animati da vita propria, burattini malvagi e incontrollabili: il cinema horror ormai da un secolo sfrutta le disfunzioni totemiche strettamente legate al fascino candido e perverso dei corpi in miniatura, rigirando a 360 gradi la teorica dolcezza di questi oggetti di svago per renderli invece esiziali veicoli di morte e disperazione; Dolls non fa eccezione, e mette in scena una piccola e intrigante storia di stregoneria ed esemplare punizione nei confronti di personaggi privi di forte struttura interiore, situando il racconto in una finta casetta di marzapane in realtà teatro di abomini che travalicano i confini del tempo e della razionalità. Così, con una purezza d'intenti capace di scavalcare il budget minimale, il lavoro di Gordon ci offre una concreta tipizzazione dell'horror di stampo ottantiano, interessato a seviziare i simulacri della rettitudine scartando il falso pietismo edulcorato che avrebbe poi parzialmente affondato il cinema di genere negli anni successivi.

Rivedere Dolls significa fin da subito trovarsi di fronte a una vera dichiarazione d'intenti, esplicitata immediatamente nei titoli di testa, in cui la nenia di un carillon accompagna la comparsa di inquietanti visi di bambola che si stagliano su uno sfondo nero accostando i nomi del cast. La melodia, al contempo zuccherosa e sinistra, spiega senza possibilità d'errore il beffardo incrocio tra gaiezza infantile e respiri d’inquietudine che si andrà a dipanare con piena sostanza in tutto il film. L'uso della musica, supervisionata da Richard Band, anche produttore esecutivo di Dolls nonché di numerose altre pellicole low budget del periodo, assume dunque connotazioni tanto elementari quanto preminenti, nel richiamare l'attenzione verso la struttura stilistica che scorterà lo spettatore nei successivi ottanta (scarsi) minuti.
Allo stesso modo si evidenzia senza preamboli l'ambientazione contemporanea della vicenda, sottolineata dal look gothic-punk di due autostoppiste che sembrano strette parenti della Julie Walker protagonista del successivo The Return of the Living Dead 3 di Yuzna (Il ritorno dei morti viventi 3, 1993). Mentre le ragazze attendono invano che qualcuno si fermi per dare loro un passaggio, inveendo senza cortesia contro chi prosegue per la sua strada, una coppia viaggia in auto insieme a una bambina intenta alla lettura di Hansel & Gretel. L'estratto fiabesco dell'intera vicenda assume in questa scena toni perfino citazionisti, nel momento in cui Gordon pare voler regalare un omaggio alla fonte narrativa che andrà poi a rovesciare con corrosiva crudezza.

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​Senza preavviso, in un istante, il cielo diventa scuro come la pece, scatenando un'ampia serie di tuoni e fulmini. Si comprende come l'autore non sia affatto interessato a mantenere la verosimiglianza situazionale; al contrario, il realismo è messo da parte, a vantaggio di un racconto che assottiglia il margine tra fantastico e verità, proprio come accade nelle fiabe. Tutto è lecito, tutto è permesso: per la credibilità a tutti i costi si prega di rivolgersi altrove.
Mentre le nubi preannunciano l'arrivo di un temporale, la macchina dell'allegra (mica tanto) famigliola resta imprigionata tra le pozzanghere. Scopriamo come la piccola Judy sia figlia naturale soltanto dell'uomo, mentre la donna presente con loro ne è la matrigna; il rapporto tra le due sviluppa senza appello i connotati di una difficoltosa sopportazione reciproca pronta a sfociare nell'odio. Le frizioni sono inoltre acuite dal carattere rude e arcigno dell'impellicciata matrigna (interpretata da Carolyn Purdy-Gordon, moglie del regista), personaggio che assume su di sé ogni possibile antipatia di fondo.
La caratterizzazione dei protagonisti della vicenda non tarda dunque a palesarsi: la donna borghese cattiva, viziata e impaziente, il marito sottomesso alla personalità della compagna, una bambina che vive la realtà con occhi annebbiati dall'immaginazione: non a caso il padre si lamenta dell'ossessione della figlia per gnomi, fantasmi e omini verdi, e non per caso il primo momento di puro orrore del film esplode quando Judy sogna a occhi aperti che il suo orsacchiotto, scaraventato dalla matrigna in mezzo al bosco, ne riemerga trasformato in un gigantesco mostro voglioso di azzannare e uccidere il parentado.
La scena anticipa il fatto che gran parte del film sarà girato in soggettiva indiretta ad altezza di bambina, spiegando con ancora maggior convinzione la necessità di allontanarsi dal puro realismo per dare sfogo a incubi e deliri in libertà, come da prassi per l'età infantile; un meccanismo utilizzato spesso nel cinema fantastico, talvolta con esiti di tutto rispetto, ad esempio in El laberinto del fauno di Guillermo Del Toro (Il labirinto del fauno, 2006).
Tra profonde pozzanghere e lagnanze assortite, i malcapitati cercano un posto in cui rifugiarsi; per magia appare ai loro occhi un maniero che si staglia minaccioso sullo sfondo, alla stregua di un castello di draculiana memoria, per poi invece rivelarsi una costruzione che davvero pare uscita dalle pagine di una fiaba. Il luogo che fungerà da teatro per l'intera vicenda assomma fin dalle prime inquadrature esterne un mix di tentazione ludica e tetraggine respingente, a sottolineare una volta di più il binomio emotivo che già abbiamo rilevato.
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Trovando la porta di casa chiusa e non ricevendo alcun tipo di risposta, i tre decidono di sfruttare un'apertura e si introducono nella cantina, contenitore preminente di malvagità nascoste tra polvere e ragnatele. Una volta dentro Judith inizia a sentire strani rumori, somiglianti a risatine infantili: da qui il sonoro intradiegetico assumerà un ruolo non secondario nella pianificazione degli attimi di suspense. In questo senso va evidenziato come le voci delle bambole siano state realizzate da amici e familiari di Gordon, figli e moglie compresi: un’esemplificazione del carattere artigiano della lavorazione del film, aggettivo quest'ultimo inteso in senso nient'affatto negativo.
Bagnati fradici, Judith, il padre e la matrigna fanno la conoscenza dell'anziana coppia di proprietari della casa. Le attenzioni dei due si concentrano sulla bambina, precipuo oggetto di manipolazione mentale sin dal primo istante. A precisa domanda Judith afferma «non ho paura del buio, ma di quello che c'è dentro al buio», frase simbolica per esaltare la volontà di Gordon, Yuzna e del loro sceneggiatore Ed Naha di scavare nell'immaginario infantile, per trovare la giusta sintesi ossimorica tra bambole e orrore, gioco e tragedia, forza di volontà e asserzione al potere del maligno.
Dolls si svolge in un arco di durata assai ristretto, poche ore, rispettando in gran parte le unità di tempo, luogo e azione, ma pare sistemarsi in una sospensione onirica destinata in potenza a proseguire per l'eternità. Siamo in un posto in cui la notte non finisce mai, le tempeste non si esauriscono, le significazioni del presente cullano i ricordi del passato, i volti dei burattinai Gabriel e Hilary raccolgono le fattezze dell'immortalità; un'indeterminatezza resa ancor più fulgida dall'arredamento stesso della casa, zeppa di bambole in ogni dove, in una dimensione che rifiuta la modernità rifugiandosi nella gloria antica.
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Gabriel (Guy Rolfe, poi burattinaio in alcuni capitoli della saga di Puppet Master) sostiene che ormai nessuno vuole più utilizzare bambole realizzate su misura, preferendo i giocattoli fatti in serie, asserzione che si confermerà in Child's Play. Se quindi il lavoro di Holland traghetterà l'evil doll movie verso sguardi più moderni, Dolls vive nella nostalgia, nella fascinazione atavica della scoperta, nella malinconia rivolta a un passato di semplicità e purezza; il film di Gordon, anche per questo motivo, è un magnifico oggetto fuori (dal) tempo, lontano dalle mode, capace di guardare indietro invece che avanti senza per questo limitarsi alla mera riproposizione di tematiche già esaurite.
Mentre i proprietari della casa offrono agli ospiti una cena calda, e Judy riceve in regalo un pupazzo dall'aspetto non proprio rassicurante, l'idillio è interrotto dall'arrivo prepotente e improvviso delle due ragazze viste all'inizio, accompagnate dal pacioso Ralph, evidentemente meritevole di aver concesso loro un passaggio. In questo modo si completa il gruppo dei personaggi della vicenda, ognuno portavoce di tratti caratteriali ben determinati. 
A Gordon non interessa più di tanto il background dei suoi protagonisti, nemmeno l'eventuale ricchezza di sfumature che li possa accompagnare: Dolls è un film semplice, solerte, concentrato su Judy e pronto a sacrificare senza troppi rimpianti gli altri soggetti in quanto elementi di sfondo, addobbi di una cornice il cui centro focale si fonda sull'immaginazione e le paure di una bambina suo malgrado costretta a vivere il contatto con la morte e il successivo e traumatico processo di crescita.
L'esplicitazione della bontà o della meschinità dei personaggi rivela coordinate di stampo manicheo, con attori divisi in due categorie definite: i cattivi (la matrigna Rosemary, il padre di Judy, le due ragazze incivili che pensano di derubare i vecchietti) e i buoni (la bambina e Ralph, omaccione con il cuore ancora capace di emozionarsi di fronte alle bambole e ai ricordi dell'infanzia). Visto il carattere del racconto, non è difficile immaginare in quale ordine i personaggi andranno incontro a una progressiva disfatta; l'intento di Gabriel e Hilay, stregoni al cui comando le bambole assumono vita propria, è infatti la punizione nei confronti di chi possiede un'anima marcia, corrotta, spenta, inquinata dai miasmi della civiltà e dalla putredine dell'egoismo.

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​Esauriti i convenevoli, a Gordon non resta che innescare la marcia del puro orrore, in un meccanismo a eliminazione tipico dello slasher, con la sostanziale novità che qui l'assassino non è uno bensì dieci, cento, mille, ovvero tutte le bambole presenti nella casa, i loro occhi e le loro braccia e gambe che infliggono il giusto castigo a chi non crede nell'eterno potere della magia e ha smarrito l'amore per i giocattoli.
Per dare fondo al festino di sangue, il regista utilizza tecniche di regia tanto basilari quanto efficaci: improvvisi effetti flou, rapide panoramiche a schiaffo, semi-soggettive, inquadrature dall'alto o dal basso per fornire un sovraccarico dimensionale, inquietanti primi piani sui visi delle bambole, giochi di luce favoriti dai lampi del temporale, fusione tra sonoro on e off (il motivo del carillon già sentito durante i titoli di testa): un linguaggio elementare ma ben inserito nel clima della vicenda e adeguato a rendere morbosa a sufficienza l'atmosfera di terrore.
Data la riflessione di cui sopra, la prima a perire è proprio una delle ragazze, rapita da ghignanti bambole al momento per noi ancora invisibili, trascinata via e sbattuta a ripetizione contro un muro sino ad avere il volto ridotto in poltiglia. Ad assistere impotente a una parte della macabra scena c'è Judy, al posto sbagliato nel momento sbagliato, ma così costretta a cominciare il suo accidentato percorso nell'antro dell'orrore.
Come da consuetudine nei film posti ad altezza di bambino, lo scarto che si interpone tra credibilità e non credibilità costituisce un nodo non secondario nello sviluppo della trama: Judy confida al padre ciò che ha appena visto, ma in cambio ottiene soltanto un irritato diniego accompagnato dal rischio di ricevere un ceffone; a quel punto non le resta che chiedere aiuto a Ralph, unico adulto con il cuore ancora colmo di suggestioni infantili e di conseguenza unico possibile compagno con cui condividere e combattere la paura.
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Da questo momento i personaggi si dividono tra gli anfratti della casa, essa stessa organismo integrante della fabula, e Gordon alza i toni del gore, pur con pesantezza di tocco molto meno accentuata rispetto al sanguinario baccanale orgiastico dello splendido Re-Animator.  
In montaggio parallelo seguiamo il massacro a cui vanno incontro come da previsione i simboli della corruzione, a partire da Rosemary, assalita da un'orda di bambole zannute capaci di colpire, mordere, tagliare, ferire e perfino segare. Subito dopo è il turno di Enid, la seconda ragazza punkettara: a caccia dell'amica scomparsa trova quest'ultima in soffitta, ridotta a grottesca bambola con i bulbi oculari che le si staccano dal viso; sconvolta dal terrore, fronteggia l'arrembaggio di un altro gruppo di pupazzi inferociti, per poi trovare la morte davanti a un plotone di soldatini.
Intanto che il temporale continua a imperversare, spargendo lampi e tuoni nella penombra di stanze altrimenti illuminate soltanto da fioche candele, ci avviciniamo alla conclusione del film. Ralph e Judy trovano un ripostiglio, nel quale sono riposte centinaia di bambole di straordinaria fattura. Nel momento in cui l'uomo comprende con definita esattezza come esse siano vive, la componente adulta e razionale che è in lui prende il sopravvento, inducendolo a un brusco tentativo di fuga; le bambole si arrabbiano e iniziano a ferirlo, fermandosi solo quando è la stessa Judy a ordinarlo. La bambina comunica con le bambole, parla e ragiona con loro e come loro, senza nemmeno bisogno di utilizzare artifici stregoneschi; i giocattoli accolgono il suo desiderio, lasciando in vita l'amico Ralph.
Nel frattempo David, il padre di Judy, scopre nel letto il cadavere di Rosemary. Scioccato dall'orrore accusa Ralph di aver commesso l'omicidio, lo va a cercare e tenta di ucciderlo. Ancora una volta sono le bambole a intervenire: David combatte contro Scarabocchio, il pupazzo che Gabriel aveva regalato a Judy a inizio film, ha la meglio, gli distrugge la testa con una martellata, ma nel momento in cui pensa di aver vinto la sfida, intervengono in prima persona i due padroni di casa. Gabriel esplicita la sua idea secondo cui i giocattoli possiedono un ruolo immortale, grazie al loro potere di salvare ogni uomo dalla depravazione dell'anima. Per chi però non ha questa volontà di espiazione, non resta che un’opzione: con le loro arti magiche i due anziani in pochi istanti trasformano David in una reincarnazione di Scarabocchio, consegnandolo all'atroce tepore dell'eternità.
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Finalmente «la notte più lunga del mondo» si conclude e con essa il temporale. È mattina, Judy e Ralph si svegliano, la casa è illuminata dalla luce del giorno, l'orrore che prolifera nel buio si è dissolto. I due proprietari salutano gli ospiti sopravvissuti e amabilmente sorridono. Come se nulla fosse mai accaduto. Si è trattato soltanto di un incubo, nessun omicidio è mai stato commesso e in fondo, come dice un antico proverbio, «a volte i brutti sogni posso anche portare cose belle». Nel territorio della fiaba più nera, nonostante tutto, non può mancare una sorta di parziale lieto fine: Gabriel legge a Judy un (falso) biglietto scritto dal padre, nel quale l'uomo le comunica di essere partito per un lungo viaggio senza ritorno. La bambina andrà a stare a Boston, dalla vera madre. Ralph l'accompagnerà a destinazione.
Così, dopo un ultimo sussulto nell'attimo in cui Scarabocchio saluta Judy con la voce di David, imprigionato per sempre all'interno del corpo in miniatura, la bambina e il suo nuovo amico-patrigno si allontanano, verso un futuro incerto ma forse felice. Non lo sapremo mai con certezza (Gordon aveva accarezzato l’idea di realizzare un sequel, con protagonisti Ralph e la madre di Judy, ma il progetto è rimasto nel cassetto).
Resta il tempo per un ultimo artificio narrativo, azzeccato nonostante la sua prevedibilità: mentre scorrono i titoli di coda, una macchina si impantana nel medesimo punto in cui si erano bloccati i protagonisti poche ore prima. Un uomo, una donna e un bambino escono dall'auto; vedono la casa di Gabriel e Hilary e senza indugio vi si avvicinano. 

Un uomo anziano e la sua gentile consorte li attendono, insieme alle loro bambole. 
​
È di nuovo ora di giocare. Ancora e per sempre.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Into the Pit

Scheda tecnica
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Titolo originale: Dolls
Anno: 1987
Durata: 77’
Regia: Stuart Gordon
Sceneggiatura: Ed Naha
Produttore: Brian Yuzna
Fotografia: Mac Ahlberg
Montaggio: Lee Percy
Attori: Ian Patrick Williams, Carolyn Purdy-Gordon, Stephen Lee, Carrie Lorraine, Guy Rolfe, Hilary Mason

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IL BUIO SI AVVICINA - Il New Horror americano e il cinema di ​Wes Craven (4)

1/12/2017

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Parte quarta

Effetto Notte – Il Wes Craven teorico

Nella prima metà dei ’90, già a partire da La casa nera, Craven comincia, anzi, più correttamente, prosegue con maggiore consapevolezza e più esplicitamente un lavoro di sistemazione concettuale e critica del suo cinema, nonché di quelle che possono essere individuate come le matrici del suo genere – oltre che dei vari sottogeneri – d’appartenenza. Si tratta del tassello conclusivo che completa il suo percorso creativo. 
Cinque sono i film che risaltano maggiormente, non solo come esito tecnico-artistico, bensì anche come sviluppo ed evoluzione di tale riflessione teorica: Nightmare – Nuovo incubo (1994) e i quattro Scream (1996, 1997, 2000, 2011). Se questi ultimi possono essere considerati come parti di un unico insieme in perenne evoluzione, Nightmare – Nuovo incubo suggella la conclusione della fortunata saga (ovviamente tralasciando reboot e crossover vari), ma anche questo nuovo inizio di riordinamento auto-riflessivo. 
Nuovo incubo, anziché mettere in discussione le radici dell’opera craveniana o compiere un mero lavoro di revisione storico-estetica, finisce col ribadire e moltiplicare l’importanza mitologica e mitopoietica della figura di Freddy, nonché del racconto dell’orrore in generale. Il passaggio-chiave, all’interno del film (più appropriatamente titolato in originale Wes Craven’s New Nightmare: qualcosa di molto personale per il regista), per chiarire la portata di questa nuova attitudine – in realtà, già presente nei suoi lavori e ben dissimulata nella tessitura della narrazione – si situa nel dialogo che Heather Langenkamp, in persona, ha con Wes Craven, in persona anch’egli, verso la metà del film. Naturalmente, dato che Nuovo Incubo è meta-cinema dichiarato, gli attori sono chiamati a interpretare (anche) se stessi, ma questo aspetto si rivelerà, a conti fatti, qualcosa di ben più complesso di un semplice disvelamento degli ingranaggi della macchina-cinema. 
Si diceva che la Langenkamp incontra Craven in persona, il quale le spiega i motivi per cui ha intenzione di girare un ulteriore e (forse) ultimo Nightmare – che già esiste dinnanzi agli occhi dello spettatore – a partire da un incubo ricorrente che lo tormenta, che sta diventando una sceneggiatura e che, ovviamente, ha come protagonista proprio Freddy: “Si tratta di una certa entità ed è antica, molto antica. È esistita in varie forme e in diverse epoche. L’unica cosa che la caratterizza è il suo scopo: uccidere l’innocenza”. Poi, poco più avanti, incalzato dalla Langenkamp, Craven prosegue: “Può essere catturato. Dagli sceneggiatori, per esempio. Spesso capita che riescano a immaginare una storia valida, grazie alla quale questa entità vi rimane imprigionata. Il problema nasce quando la storia finisce e può finire per molti motivi: perché ha stancato, perché è stata troppo semplificata per la vendita o perché è troppo inquietante  ed è stata censurata. Ad ogni modo, quando la storia finisce, il male viene liberato”. 
Ora, in questo monologo breve emergono vari elementi, tutti importanti, ma solo uno di questi risulta effettivamente essenziale. Certamente, l’”entità” di cui parla Craven si rivela, abbastanza apertamente, come una figura diabolica, probabilmente il Demonio in persona (1), di più, un essere antichissimo, universale, unico, ancorché capace di mutare fisionomia: il Male assoluto quindi, ai confini con la pura astrazione concettuale. Emergono anche alcune interessanti argomentazioni relative alle capacità catartiche e apotropaiche del cinema, in particolare l’horror, oltre che alcune sapide considerazioni (sassolini di varia foggia e misura che Craven si toglie dalle scarpe) sul valore delle saghe filmiche, sui loro rischi, sul ruolo della censura e così via. 
A risplendere per la sua portata è però un’altra considerazione di Craven, attinente allo scopo ultimo di tale entità e cioè “uccidere l’innocenza”: un campanello d’allarme dovrebbe suonare, anche laddove si consideri tale asserzione come esclusivamente riferita a uno dei temi centrali della saga di Nightmare. È ben evidente l’ambiguità di tale dichiarazione e la possibilità che essa possa essere inaspettatamente capovolta, proprio a partire da ciò che Freddy rappresenta effettivamente per le sue vittime, ma anche, non secondariamente, per gli spettatori e, infine, per ciò che egli esprime per il genere di cui è uno dei simboli più notevoli. 
Freddy, anche a un livello meramente diegetico e al contrario di ciò che sembra voler dire Craven, è proprio il guardiano dell’innocenza, colui che consente al mondo fanciullesco e a quello adulto di restare ben distinti e separati, colui che terrorizzando o uccidendo gli adolescenti impedisce loro di crescere, di diventare adulti, appunto, e perciò di perdere proprio la loro innocenza. Solo nella fanciullezza, inoltre, si è portati a credere all’Uomo Nero, perciò il suo incombere è esattamente la protezione di tale credenza e perciò della fanciullezza stessa. Egli è sogno e fantasia, il suo mondo è arabescato e barocco, pregno di sorprese e di piaceri sanguigni e, si sa, il sogno e la fantasia possono sconfinare con sfuggente e repentina facilità nell’incubo più greve, le sorprese e i piaceri sanguigni possono trasformarsi in dolori intollerabili (come ha compreso perfettamente Clive Barker – e chi meglio di lui? – intervistato a proposito della creazione craveniana). 
A un secondo livello di interpretazione, che è poi ciò che questo lavoro di Craven sembrerebbe richiedere, si può estendere tale riflessione anche allo spettatore, chiamato certamente a uno sforzo supplementare (2), per via dei vari piani di lettura che il film offre e, in un certo qual modo, impone. Anche in questo ambito, l’affermazione di Craven va contestualizzata e approfondita. Quando parla di “uccisione dell’innocenza”, Craven sembra implicitamente riferirsi anche a se stesso, cioè all’operazione che egli sta compiendo sullo spettatore, nel senso che lo sta facendo uscire dal guscio ovattato della finzione, per porlo di fronte allo svelamento dei meccanismi del dispositivo cinematografico e del suo funzionamento, quindi per farlo emergere, brechtianamente, dalle nebbie dell’identificazione secondaria, obliterando la sospensione d’incredulità, cioè l’innocenza spettatoriale, appunto. 
In realtà, però, Craven – così come si era detto a proposito di Freddy – non si rivela, in tal modo, un assassino della purezza dello spettatore regredito narcisisticamente all’infanzia, bensì un suo difensore. Nightmare – Nuovo incubo si configura, infatti (così come sarà anche per la saga di Scream), non solo come un film di finzione efficacissimo, per come è costruito, ma addirittura un moltiplicatore della finzione stessa, che può, senza più alcun freno, transitare attraverso i vari piani di (ir)realtà e coinvolgere personaggi doppi, Heather Langenkamp/Nancy Thompson, Robert Englund/Freddy Krueger, John Saxon/Donald Thompson, tutti, in realtà, pienamente calati nel loro originario ruolo recitato, tanto da arrivare a una delle sequenze-chiave, in cui la Langenkamp si ritrova catapultata nel passato, durante un incubo, e incrocia il “padre diegetico” Donald Thompson, lo chiama col nome autentico dell’attore che lo interpreta, cioè John, ed egli non capisce. Craven ha portato quindi lo spettatore in visita nel proprio mirabolante luna park personale, gli ha svelato come funzionano alcune delle attrazioni più riuscite, per poi mostrargli che, alla fine del giro, lì all’uscita, c’è ancora una volta l’Uomo Nero in agguato.

​1) Su questo tema Danilo Arona, Wes Craven – Il buio oltre la siepe, edizioni Falsopiano, Alessandria 1999.
2) Il film al botteghino non fece propriamente sfracelli, forse proprio per la sua aura teorica.

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​Un meccanismo simile pervade anche il primo Scream, per poi estendersi, moltiplicandosi esponenzialmente, nei tre seguiti. Se in Nightmare – Nuovo incubo ci si trova di fronte a un’opera che guarda se stessa, il proprio passato e le proprie origini, nei vari Scream ci si trova al cospetto di un unico film mutante, che si divide/moltiplica in/per quattro: film-cannibale che divora i suoi padri, che si nutre di innumerevoli altri film, si abbevera alle regole dello slasher (e degli innumerevoli sotto-filoni e filiazioni, ma anche dei modelli, “alti” e “bassi”), per originare un monstrum sfuggente alle etichette e refrattario alle catalogazioni, proprio in quanto concept-contenitore esattamente di etichette, catalogo sotto forma di (decine di) citazioni verbali e contestuali, cliché, riferimenti, pullulare in(de)finito di immagini allo specchio, magma montante che soffoca (piacevolmente) lo spettatore inavveduto e distante dal genere, così come riesce ad attirare a sé, divertendo quasi sempre e talvolta stuzzicando, quello che col genere ci è cresciuto (3). 
Una specie di orgia pagana, una suite prog rock senza interruzioni, che dura per quattro film, oltre agli innumerevoli film nel/nei film, come la serie, ancora più lunga, di Stab, che fa la sua comparsa all’interno del contesto diegetico di Scream 2, in veste di adattamento cinematografico delle “reali” vicende accadute a Woodsboro, California, creando un vero e proprio labirinto, un corridoio degli specchi che moltiplica e stratifica ulteriormente i piani meta-testuali. 
Nonostante queste premesse e nonostante il gioco, comunque dichiarato, al quale, se si vuole partecipare – e questo fin dalla sequenza d’apertura del primo Scream – è meglio essere preparati, ci si trova di fronte a un lavoro che, pur non prendendosi sul serio, fa sul serio (4). Proprio come accadeva in Nightmare – Nuovo incubo, anche in questa nuova saga lo scopo di Craven non è quello di demolire il genere, ma di (ri)scoprirne le coordinate, di attualizzarne i temi in un contesto temporale che già conosce il prima, cioè la storia e l’evoluzione del filone, visto che ora, come spiega con felice intuizione Danilo Arona: “[…] l’unico horror possibile di fine millennio non è quello che ci racconta una storia, bensì quello che ci racconta ‘come si racconta una storia’”(5). Viste tali premesse, non può sfuggire, comunque, come l’obiettivo di Craven si situi, appunto, nel raccontare una storia complessa, nonché articolata su più piani significanti, ma nella quale, in ogni caso, è possibile cogliere sia un ritorno, ancora una volta, di alcuni temi cari al regista, sia la sua abilità nel rielaborarli, ricostruirli, mutarli di segno e di senso, per poi disporli come tessere di un intricato mosaico. Il tutto, così come in Nightmare – Nuovo incubo, per moltiplicare, non annacquare, le possibilità del racconto di paura. 

3) Naturalmente, chi, in primis, col genere ci è cresciuto è lo sceneggiatore Kevin Williamson, vera e propria mente in perenne ebollizione dietro le quinte dei vari Scream.
4) Esattamente l’opposto di ciò che accade nella (inutile) serie di Scary Movie (quello che avrebbe dovuto essere il titolo originario di Scream), una creatura partorita, a partire dal 2000, da quegli inopportuni mattacchioni dei fratelli Wayans e poi adottata da David Zucker: film parodici e, quindi, che non prendono sul serio nulla, a parte però se stessi, a parte il loro essere, appunto, caricature, sia della serie di Scream, in primis, sia più in generale dell’horror come elemento fondativo dell’immaginario. Essi si delineano, perciò, come derive di una derivazione, senza amore vero né conoscenza autentica per ciò che viene sbeffeggiato, come è invece per le parodie horror riuscite. La serie di Scream forse ha avuto l’unico demerito di dare la stura, involontariamente, a nefandezze come Scary Movie. 
5) Danilo Arona, op. cit., p. 142.

Se in Sotto shock il killer Horace Pinker assumeva le sembianze di vari personaggi per compiere i propri crimini, mantenendo inalterata la propria identità, nella saga di Scream troviamo innumerevoli killer (sempre in coppie, a parte nel terzo capitolo sceneggiato da Ehren Kruger, con un parziale apporto del mastermind Kevin Williamson), quindi innumerevoli identità, ma una sola fisionomia, quella di Ghostface. Da questo punto di vista, si potrebbe individuare proprio in Ghostface l’Uomo Nero craveniano a cavallo fra vecchio e nuovo millennio, cioè esattamente ciò che non era riuscito al regista con Pinker. Mentre in superficie la saga è irrorata dalla dimensione thriller/gialla da whodunit, facendo scattare nello spettatore il meccanismo di “ricerca” del colpevole che si cela sotto la maschera munchiana di Ghostface, sotterraneamente essa è percorsa dalla fisionomia inconfondibile, e sempre uguale a se stessa, come è regola nello slasher, del nuovo Uomo Nero, tant’è che la sua voce ricorrente al telefono è anch’essa sempre la medesima, vale a dire quella dell’attore Roger L. Jackson. 
Ecco, il telefono: la serie di Scream straripa di media comunicativi. La televisione, tanto per cominciare, elemento dominante in Sotto Shock, possiede, nella saga di Scream, un ruolo sostanzialmente marginale, come medium obsoleto e, oltretutto, poco cinematografico, a parte la sua funzione di diffusore di notizie costitutivamente distorte, grottescamente amplificate o ridicolmente mendaci (si pensi al finale di Scream 4), in quanto troppo spesso al servizio esclusivo dello spettacolo fine a se stesso. In tutti e quattro i capitoli, infatti, un ruolo centrale è ricoperto dalla giornalista Gale Weathers (Courteney Cox), che indaga sugli omicidi per prevalente tornaconto personale, per la caccia perenne all’agognato scoop. Quindi, più che la televisione in quanto tale, è il giornalismo d’informazione a essere svillaneggiato e deriso. 
Invece, l’onnipresente, classico (un cliché fondamentale fra i tanti) e ben più arcaico telefono diviene decisivo, anche in quanto fucina di voci senza volto, medium per eccellenza del fuoricampo, quindi del cinema stesso, tant’è che viene usato pressoché sempre da Ghostface, per dialogare da una posizione di forza con le proprie vittime, giacché le può osservare senza essere visto (6), oltretutto moltiplicando in loro l’inquietudine, vista la prossimità della sua presenza, garantita dall’udibilità del suono della sua voce. 
Accanto al sapiente utilizzo del telefono si nota, in tutti i titoli della serie, il proliferare di immagini, schermi, punti d’osservazione (7), che rendono ciascun capitolo un vero e proprio manuale dello sguardo, una straniante “storia dell’occhio”. A spiccare è soprattutto l’aggiornamento riuscito, in Scream 4 (o SCRE4M), della tecnologia della comunicazione, rappresentata in particolare dalle poliedriche possibilità offerte della telefonia mobile contemporanea, nonché dalla massiccia presenza di internet e dei social network, che innescano e moltiplicano la propagazione di informazioni e il contatto a distanza (8) in tempo reale, incrementando ancora una volta, ancora di più, la potenza dell’Uomo Nero, insieme ai piani di senso del film. 
Tali aggiornamenti te(le)matici, oltre a registrare la volontà di Craven di non arrendersi alla senilità, di non lasciarsi sopravanzare dai mutamenti avvenuti nel villaggio globale (non si dimentichi che SCRE4M è del 2011), risultano elementi portanti della narrazione e perfettamente inseriti nel suo tessuto, tanto da costituirne uno dei propulsori. Il movente del killer, nel quarto capitolo, sarà infatti la visibilità mediatica, la fama repentina diffusa in tempo reale, da ottenersi attraverso l’onnipresente e istantanea opera di rielaborazione/falsificazione della realtà, compiuta dai media, istituzionali e non. 
Ne risulta, in sintesi, un nuovo Uomo Nero, cinicamente al passo con i tempi e capace (quasi) sempre di girare a suo favore qualsiasi situazione o contesto. Oltre alla presenza del nuovo babau aggiornato alla contemporaneità, fanno capolino anche alcuni dei vari temi cari al regista, come, ad esempio, l’ottusità del mondo adulto – specie se incarnazione dell’autorità (polizia, giornalisti, autorità scolastiche) – e soprattutto, altra regola dello slasher, la sua prevalente assenza dalle vicende narrate, cui fa da contraltare la descrizione complessivamente precisa e verosimile di un’altra vera protagonista della saga, cioè l’età tardo-adolescenziale, con i suoi svariati difetti e i più sporadici pregi. 

6) Ubiquità e sguardo di “sorvolo” in perenne posizione favorevole, cioè “occhio di Dio”, per dirla con Giaime Alonge, oltre a conoscenze e informazioni sconosciute a tutti gli altri personaggi, sono alcune delle caratteristiche più marcate degli assassini (semi)metafisici e (quasi sempre) imprendibili dello slasher.
7) Si pensi a tal proposito alla sequenza conclusiva del primo Scream o a quella, altrettanto ingegnosamente costruita, della maratona filmica con la proiezione intera della serie Stab nel quarto capitolo: in entrambe, la giornalista Gale Weathers, che indaga sugli omicidi, tenta di colonizzare il punto d’osservazione privilegiato di Ghostface, credendo di potersi sostituire percettivamente a lui e quindi di poterne prevenire le mosse. Il tutto tramite l’utilizzo di sofisticati apparati tecnologici (in una altrettanto sofisticata e riuscitissima messa in scena da parte di Craven). Naturalmente, in entrambi i casi fallisce, dato che solo l’Uomo Nero può essere ubiquo e onnisciente, così come solo i suoi occhi possono vedere tutto. I vani tentativi della donna non fanno altro che potenziare, quindi, la dimostrazione di forza del killer.
8) Una distanza che, ovviamente, Ghostface riesce a colmare con prodigiosa facilità.

Craven, evidentemente, si fida poco delle nuove leve di giovani degli anni ‘90/’00, almeno tanto quanto confidava nei loro predecessori appena una decina d’anni prima (si pensi, soprattutto, al fondamentale Nightmare 3 o a La casa nera). Va anche sottolineato come risulti essenziale, nella costruzione dei personaggi all’interno dei vari episodi della serie, l’apporto di Williamson alla sceneggiatura, che conosce molto bene l’universo adolescenziale (all’epoca del primo Scream egli è poco più che trentenne, e quindi con una memoria ancora molto fresca dell’”età inquieta”) tanto da farne il protagonista indiscusso di alcuni dei suoi lavori televisivi seriali più importanti, come Dawson’s Creek e il recente The Vampire Diaries. 
Se aleggia talora una certa ribalda ruffianeria nelle produzioni televisive di Williamson, è anche vero però che, in Scream, tale atteggiamento è perlopiù assente, salvo forse verso le figure di film geeks come il Randy Meeks dei primi tre episodi (essendo fra le vittime del secondo episodio, egli nel terzo compare in “effigie”, in una videocassetta che contiene una delle sue proverbiali “lezioni” cinematografiche) o i suoi “eredi” Robbie Mercer e Charlie Walker nel quarto, anche se quest’ultimo, dietro la faccia pulita e trasognata, nasconde uno dei segreti-chiave del film. Un personaggio totalmente craveniano nello spirito è, invece, la nuova giovane eroina adatta alla nuova saga, Sidney Prescott. Tale personaggio è presente in tutti gli episodi ed è sempre interpretata da Neve Campbell, che, accanto alla Nancy Thompson/Heather Langenkamp dei Nightmare ideati da Craven, rappresenta la migliore figura positiva nel suo cinema, altrimenti predominato e fagocitato, quasi sempre, dalle memorabili facce e incarnazioni del Male. 
Nei quattro Scream, Craven si dimostra ormai assoluto padrone del mezzo e riesce magnificamente a gestire le dinamiche interne del racconto così come quelle meta-narrative, prestando una certosina attenzione al ritmo dell’azione, allo spazio in cui gli eventi si dipanano e soprattutto alla funzione dello sguardo come costruttore di senso e come creatore, nell’economia della narrazione, delle gerarchie e dei rapporti di forza fra i personaggi. Quindi si delinea un interscambio continuo fra piani e strati diversi del testo, che rimandano l’uno all’altro con acume, moltiplicando vicendevolmente la propria intensità, la propria portata, il proprio senso. Con la saga di Scream, infine, già dal suo primo apparire nell’ormai lontano 1996, ci si trova di fronte a quello che, col senno di poi, può anche essere considerato un vero e proprio testamento artistico, sia pure diluito nel tempo, di Craven, un regista capace di guardare con lucidità, e forse con un pizzico di rimpianto, alle radici di quella lunghissima “notte dell’orrore” che è stato il New Horror. 
Rimane da chiedersi cosa sarebbe potuto essere Wesley Earl Craven se non fosse divenuto Wes Craven: molte cose, probabilmente. Laureato in filosofia, uomo colto e intelligente, eclettico nelle passioni come nelle competenze, cinefile e non, forse sarebbe potuto diventare un ottimo regista mainstream, magari avrebbe potuto avere più fortuna come autore horror (anche se ne ha avuta, tutto sommato, almeno dalla seconda metà dei ’90 in poi, più dei suoi colleghi “maggiori” Carpenter e Romero), oppure essere un ottimo insegnante di college (come in realtà fu, prima di farsi folgorare definitivamente dal cinema), o chissà, magari uno scrittore (il suo romanzo Fountain Society, del 1999, aveva come tema portante, guarda un po’, l’immortalità). 
Fortunatamente per chi lo ha amato, è riuscito a diventare e ad essere solo Wes Craven.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Into The Pit

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IL BUIO SI AVVICINA – Il New Horror americano e il cinema di Wes Craven (3)

20/11/2017

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Parte terza

The dream warriors – Sognare la morte, combattere per la vita

​Con Le colline hanno gli occhi, Wes Craven di fatto conclude quella che può idealmente essere considerata la prima fase del suo percorso tematico, iniziando a transitare dall’incubo a occhi aperti degli esordi a quello a occhi chiusi – o meglio, aperti su un’altra e ben più complessa dimensione – che prenderà una forma compiuta e matura solo a partire dalla metà degli anni ’80. 
I titoli che si avvicendano a coprire i circa sette anni che intercorrono fra Le colline hanno gli occhi e quella che forse è l’opera più importante di Craven, cioè Nightmare – Dal profondo della notte (1984), sembrano per certi versi preparare il terreno proprio al deflagrare della potenza iconoclasta e beffarda di Freddy Krueger, accompagnato dal suo inesauribile bagaglio di ingegnose e mortali trappole oniriche. Pur essendo molti di questi titoli di passaggio perlopiù trascurabili, va anche detto, tuttavia, che in pressoché tutti è presente la dimensione del sogno come porta aperta su una dimensione veritativa altra e distante da quella della veglia. Se Summer of Fear (1978) “è una sorta di trattato di impotenza onirica”, come ebbe a dire lo stesso Craven (1), Benedizione mortale (1981) – l’unico titolo sopra la media nel periodo in questione – si presenta come una sorta di spartiacque simbolico fra un prima e un dopo, con il confronto-scontro fra famiglie-comunità, già tema portante del dittico settantiano, e con un plot da thriller, a tratti irrisolto anche se spesso assai efficace, e altresì con interessanti inserti onirici, che già anticipano il magnum opus che verrà tre anni dopo. 
Dopo i trascurabili, quando non sostanzialmente dimenticabili, Il mostro della palude (1982) e Invito all’inferno (1984), si giunge finalmente a varcare, in pompa magna e ufficialmente, l’ombroso ingresso che separa la vita cosciente da quella nebulosa del sonno. Il territorio delle nuove lotte per la sopravvivenza, nell’opera di Craven, diviene quindi quello liminare fra realtà e sogno: un confine/varco che non solo separa e discerne gli elementi del mondo diegetico sullo schermo, mantenendoli però sempre comunicanti, ma che crea anche un cortocircuito fra quell’universo di ombre e quello della sala, nel quale rimane sospeso lo spettatore. È il cortocircuito della visione filmica, che Craven approfondirà ulteriormente nell’ultima parte della propria carriera. 
Con il primo Nightmare, il cinema di Wes Craven esprime la raggiunta maturità artistica del regista, una maturità che paradossalmente vede come protagonista (e anche come pubblico principale di riferimento) il mondo dell’adolescenza – in particolare nel ruolo della protagonista Nancy Thompson (Heather Langenkamp, la cui fama sarà legata a filo doppio con la saga di Freddy, così come lo sarà anche quella di Robert Englund) – nel quale realtà e immaginazione, veglia, sonno e allucinazione ancora si (con)fondono e in cui le barriere della sospensione di incredulità non sono del tutto sviluppate o calcificate nell’immaginario. 
La paura attecchisce in buona parte ancora nella sfera dell’irrazionale, dell’invisibile, e il mondo adulto non possiede (più) le chiavi per entrarvi. Leggendo il film in tal modo, ne risulta innanzitutto una potentissima metafora sia del cinema fantastico sia del cinema in generale, i quali richiedono a chi accede alla sala, specie nel caso del primo, di abbandonare all’entrata le proprie grigie e incrollabili certezze, per avere accesso a quella zona crepuscolare che è il mondo proiettato sullo schermo. La pienezza del sogno e la sua appartenenza a quell’unica dimensione dell’uomo che è l’esistenza non può che risiedere nella purezza della giovane età, dimentica delle sonnolente e limitate leggi della ragione. In buona sostanza, il motivo per cui Freddy (2) non può essere sconfitto dagli adulti e per cui può essere compreso e, sia pure a stento, tenuto a bada dai ragazzi si situa nel fatto che egli abita, da archetipico orco/Uomo Nero, il territorio intangibile e opaco dell’immaginazione e delle ombre dell’inconscio. 
Una volta che gli adulti della cittadina (immaginaria, ma uguale a tanti altri centri della provincia americana) di Springwood decidono di giustiziare l’assassino di ragazzini Freddy Krueger, quando ancora è un uomo vivente o qualcosa che gli assomiglia, innanzitutto essi commettono l’errore di pensare, oltre che di sostituirsi alla Legge (umana o divina, poco importa), anche di poter sopprimere una creatura con tratti già mitici: non si può uccidere l’orco, perché comunque rinascerà in altri racconti – come effettivamente accadrà anche a Freddy – o in altri sogni mostruosi; non si può uccidere il Male, lo si può solo limitare; non si possono rimuovere totalmente gli spettri partoriti dalle nostre paure o azioni, perché ritorneranno sotto forma di incubi. 
Qui, oltretutto, Craven porta alle estreme conseguenze le tematiche proprie dei primi film: se ne L’ultima casa a sinistra e ne Le colline hanno gli occhi lo scontro fra civiltà e barbarie veniva rappresentato come contrapposizione fra clan ormai indistinguibili, contrapposizione nella quale dal male poteva germogliare solo il male, chiunque l’avesse commesso e chiunque avesse iniziato a commetterlo, in Nightmare Craven è come se partisse dalla conclusione di tali assunti per mostrarne gli effetti, per raccontare come la nascita della “buona” comunità/nazione affondi, e non possa che affondare, le proprie radici nel sangue, là dove l’arbitrio, l’ingiustizia e l’assenza della legge ne costituiscono le premesse. 
Ecco allora che in Nightmare 3 – I guerrieri del sogno, del 1987 (nel quale Craven, dopo l’assenza da Nightmare 2 – La rivincita, torna alla sua creatura in veste di sceneggiatore (3) e la cosa si riverbera positivamente su quello che viene considerato uno degli esiti migliori all’interno della saga), la vicenda sembra muoversi proprio da tali premesse, per indirizzarsi non solo verso l’eliminazione definitiva dell’Uomo Nero, ma anche verso la possibilità di rendergli quella giustizia che da vivo, nonostante le nefandezze compiute, non aveva avuto. L’obiettivo ultimo degli antagonisti di Freddy sarà quello di seppellire i suoi resti in terra consacrata, tentando di donargli la pace: un (malriuscito) tentativo, da parte di ciò che resta della comunità di Springwood, di rimediare alle proprie colpe, una specie di rito apotropaico per esorcizzare la maledizione di Freddy. 
La rivelazione di altri antefatti riguardanti il concepimento e la nascita di Freddy (Amanda Krueger, molti anni prima, nelle vesti talari di suor Mary Helena, rimasta rinchiusa nel manicomio di Westin Hills, venne violentata dai pazienti e rimase incinta: il frutto di quella cieca violenza fu Freddy) conducono a vedere quest’ultimo come una sostanziale vittima, sia per la sua nascita, sia per le pulsioni aberranti derivate, senza colpa da parte sua, da uno dei possibili e degeneri padri, forse anche un vago riferimento a M – Il mostro di Düsseldorf (1931), film nel quale, peraltro, compare una filastrocca/nenia simile a quella che accompagna la saga di Nightmare. Tuttavia, Freddy è irriducibile a qualsiasi ridimensionamento della sua figura, a qualsiasi tentativo di conferirgli tratti anche vagamente umani, perché egli, da buon guardiano della soglia dell’incubo, da demone di epoche remote cresciuto e nutrito dalla cattiva coscienza dell’uomo, oltre che nato da un atto estremo di crudeltà, non può che rappresentare un male originario e inestirpabile, il Male. 
Con la nascita e lo sviluppo della figura di Krueger, Craven dà forma a un’originalissima declinazione della possessione, quindi dell’invasione del territorio più intimo per l’uomo, quello della propria interiorità. Se la possessione diabolica può essere letta come una sorta di soul invasion, estremizzazione dell’home invasion, cioè della colonizzazione, da parte di oscure forze estranee, dell’ambiente in cui l’uomo trova rifugio e sicurezza (4),  Craven si spinge ancora più in là, arrivando a una laica conscience invasion, a partire dalla quale non tanto l’interiorità in quanto tale è occupata, ma piuttosto quell’isola misteriosa in essa racchiusa che va sotto il nome di Es, di inconscio. Il tutto, nondimeno, in totale assenza di qualsiasi attitudine psicanalitica o para-scientifica. 
Craven crede nella forza dirompente e immaginifica del sogno come un altro grandissimo, Howard Phillips Lovecraft, e, come quest’ultimo, non crede agli alambicchi della ragione o della scienza come chiarificazione definitiva ai misteri del reale. Egli confida, quindi, nella forza rivelatrice e magica della visione notturna, laddove il “vedere” si configura come potenziamento della mente (visto che l’occhio è serrato), come “occhio di troppo”, capace di svelare l’invisibile. Questo “occhio di troppo” è il dono posseduto solo da pochi eletti, capaci di annullare lo strato pellicolare della realtà sensibile, per penetrarne le intricate maglie, i livelli sottostanti. Solo delle menti pure come quelle fanciullesche – o per esteso, come quelle degli spettatori cinematografici persi nelle ombre della visione filmica – possono accedere alla soglia che lega le dimensioni apparentemente separate della veglia e del sonno, per varcarla, anche insieme se necessario, come accadrà in Nightmare 3. 
Se la coscienza collettiva della società adulta è contaminata dalla colpa originaria (cioè il sangue versato in funzione della vendetta e perciò maledetto) che l’ha fondata come tale, ma che in realtà l’ha divisa al proprio interno col prevalere dell’interesse particolare di ciascuna cellula familiare, l’unica autentica comunità rimasta è quella adolescenziale, che agisce di concerto, al proprio interno, per riscattare la colpa originaria dei padri. In Nightmare 3, per portare a termine il compito, la micro-comunità degli adolescenti minacciati da Freddy sarà costretta a costituirsi come inconscio collettivo, o meglio, come pattuglia sperduta all’interno di quell’inferno della mente che è l’antro sospeso al di là della materia, ancorché ancorato a una dimensione inquietantemente tattile e fisica, dove si nasconde l’Uomo Nero. 
Per affrontarlo, mentre i pochi adulti che hanno compreso, cioè il padre di Nancy (John Saxon) e il dottor Gordon (Craig Wasson), da svegli, tentano l’esorcismo (in realtà vano, come suggerirà il finale) per la sepoltura dei resti di Freddy, i ragazzi, con Nancy in testa, si addentrano nel territorio del mostro, quello dell’inconscio, da veri dream warriors. In definitiva, il loro compito non è solo tentare di distruggere la minaccia per le loro vite, ma ciò che essa rappresenta per la loro libertà di esprimere la propria soggettività attraverso l’interezza dell’Io. Se non esistesse il sonno col suo corollario di sogni, Freddy non potrebbe costituire un pericolo per loro, ma l’uomo che non dorme mai, l’uomo che, metaforicamente e non solo, vive esclusivamente del proprio intelletto calcolante, senza concedere spazio al mistero dell’ignoto, alle proprie fantasie e ai propri fantasmi, non è più un essere libero. 
Ecco, proprio della forza di questa metafora si abbevera il cinema, horror e non, assieme a tutti quegli esseri umani che ancora credono ai racconti e ai fantasmi o, perlomeno, non riescono a smettere di farlo, da veri dream warriors.

1) Cfr. Danilo Arona, op. cit., p. 46.
2) Nel primo Nightmare, il personaggio viene chiamato semplicemente “Fred”; diventerà “Freddy” a partire dal secondo capitolo.
3) Coadiuvato da Frank Darabont, Bruce Wagner e da Chuck Russell, che siede anche dietro la mdp, mentre si rivede anche la Langenkamp, parimenti assente dal secondo capitolo.
4) Si noti come nel film-archetipo sulla possessione, L’esorcista, tale colonizzazione cominci come controllo del demonio sugli oggetti della casa, primo fra tutti il letto, cioè il luogo in cui si passa, non a caso, dalla realtà concreta alla dimensione scivolosa del sogno.

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​Aggredire il sogno e colonizzarlo significa annullare le attività attraverso le quali l’essere umano drena giornalmente le proprie angosce, per poi ricominciare daccapo a farle sedimentare col sorgere del sole, significa disumanizzare i suoi processi cognitivi e vitali, privandolo non solo del riposo, ma soprattutto della fondamentale rielaborazione di ciò che accade nella vita cosciente, rendendolo perciò spossessato del proprio Io e della propria identità, quindi, in una parola, zombificato. Attorno a tale assunto, si sviluppa quello che probabilmente è il nucleo centrale di un altro pezzo fondamentale del mosaico autoriale di Craven, Il serpente e l’arcobaleno (1987). 
Di sicuro, il nostro ci mette tempo a mettere a fuoco i suoi temi, tanto da attraversare, dopo A Nightmare on Elm Street, come è già capitato e come ancora capiterà, un periodo transitorio, che va sostanzialmente dal 1984 al 1988 (fatta salva la sceneggiatura di Nightmare 3, come detto), con qualche lavoro televisivo, titoli da sala di poco conto, quando non palesemente modesti; tuttavia è anche certo che, quando le idee divengono chiare, Craven sforni lavori di altissimo profilo. In questo caso, già l’idea di partenza è notevole: riprendere la figura dello zombi non dai geniali lavori di Romero (che solo tre anni prima, nel 1985, con Day of the Dead, aveva concluso quella che, per circa vent’anni, sarà nota come la “trilogia” sugli zombi), ma direttamente dalla tradizione haitiana del voodoo. 
Il tutto però risalta maggiormente, se si tiene presente il riferimento di Craven non ad un momento storico qualsiasi, ma a quello che precedette di poco la caduta del dittatore Jean-Claude Duvalier, noto come “Baby Doc” (subentrato al potere del padre François Duvalier “Papa Doc”, alla morte di questi nel ’71). Per inciso, i rapporti di Papa Doc con gli Usa non furono idilliaci soltanto durante la breve presidenza di J.F. Kennedy, ma lo furono prima del mandato e dopo la morte di quest’ultimo. In particolare gli Stati Uniti, dopo l’attentato di Dallas del 1963, tornarono subito a fornire supporto al dittatore, in funzione anticomunista e anticubana. Solo con il democratico Jimmy Carter (presidente dal 1977 al 1981), da una parte, e il nuovo dittatore Baby Doc, dall’altra, il potere di quest’ultimo venne posto in discussione dall’amministrazione statunitense, ma egli riuscì a rimanere in carica, senza scossoni, fino alla rivolta popolare del febbraio 1986, ed è noto che fine facciano i dittatori veramente invisi agli americani. 
In più, giusto per dare l’esatta coloritura della nazione haitiana e per evidenziare quelli che saranno gli ulteriori meriti della pellicola di Craven – un film di finzione, per di più horror, capace di individuare una cifra non solo realistica ma veritativa, assente da molti lavori documentari o sedicenti “impegnati” – va ricordato l’uso che i due dittatori fecero del loro potere. In particolare Papa Doc, spregiudicato come tutti i tiranni e buon conoscitore della cultura e delle tradizioni locali, mantenne il proprio posto di comando facendo leva sul doppio binario del terrore poliziesco e di quello magico. Si autoproclamò houngan, “mago nero”, e poi addirittura tentò di accostare la propria figura a quella psicopompa di Baron Samedi, il Signore dei morti. 
I ferocissimi Tonton Macoutes (“uomini neri” od “orchi” in creolo), i suoi pretoriani, rivestirono il doppio ruolo di poliziotti e di stregoni. Un miscuglio sincretico di cattolicesimo e credenze voodoo fu utilizzato per controllare le menti della popolazione, in un contesto in cui la religione era “oppio dei popoli” non solo metaforicamente, ma anche letteralmente, giacché le pratiche del voodoo prevedevano l’utilizzo di forti sostanze allucinogene per provocare le “visioni”. Il figlio di Papa Doc, Baby Doc, nella parte finale del proprio regno utilizzò gli stessi metodi di terrore del padre ed è in tale contesto temporale che si inserisce la narrazione di Craven, col prologo ambientato nel ’78 e il resto del film nella metà degli anni ‘80. 
Il serpente e l’arcobaleno amalgama una materia narrativa assai complessa attorno alla figura del protagonista, Dennis Alan (Bill Pullman), vero fulcro del racconto. Tramite Alan, si condensa e si chiarisce, per quanto possibile, l’enigma-chiave su cui fa perno il film e cioè dove finisca la percezione reale delle cose e dove inizi l’allucinazione, un tema che somiglia molto a quello sviluppato da Craven con la comparsa di Freddy sugli schermi. Il protagonista è uno scienziato, un etno-botanico e antropologo inviato da una multinazionale farmaceutica statunitense per studiare le proprietà, ai confini con la magia, di alcune piante sconosciute dell’isola di Haiti e i loro effetti sull’uomo. Una volta in loco, Dennis scopre a proprie spese cosa significhi una visione di natura potentemente allucinata, a causa dei preparati di alcuni sciamani locali, nonché come si configuri la vita di un popolo che non conosce la libertà, nemmeno quella di pensare. 
Il film gioca splendidamente sia sul binario politico del controllo mentale e fisico, sia su quello onirico-sciamanico della valenza della visione semplice, legata alla percezione naturale e dunque alla veglia, nel suo confronto con la visione potenziata, legata all’allucinazione e all’incubo. L’interrogativo profondo, posto da Il serpente e l’arcobaleno, riguarda – così come accadeva, sia pure in modi e contesti diversi, nei vari Nightmare – la verità aggrovigliata e complessa dell’allucinazione/visione, in quanto contrapposta a quella lineare dell’esperienza diurna. Come nell’etimo greco del termine pharmakon, che indica sia il veleno sia la medicina, anche nel contesto esaminato dal film l’ambiguità rimane, giacché la droga è mezzo sia di controllo mentale e psichico sia di liberazione individuale, ma anche collettiva (laddove la visione riesca a porre in contatto soggetti diversi, come accadeva anche in Nightmare 3, ma senza l’ausilio di droghe), in quanto apertura psicofisica verso dimensioni veritative altre e più profonde rispetto a quelle garantite dalla percezione naturale, e a quest’ultima irrimediabilmente precluse. Lo stesso Alan potrà sconfiggere Peytraud (Zakes Mokae), capo dei Tonton Macoutes, solo in stato di allucinazione estrema. 
Quindi, non solo un film politico, anche se certamente Il serpente e l’arcobaleno lo è a pieno titolo, ma anche una riflessione ardita e composita sui poteri di suggestione e di controllo della mente umana. La realtà è multiforme e stratificata: per accedere alle dimensioni che la innervano latenti, è necessario oltrepassare la condizione limitante della percezione ordinaria e del raziocinio.

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Nel periodo a cavallo fra gli ’80  e i ’90, prima di sviluppare quello che può venire considerato l’ultimo importante tassello tematico della sua carriera, cioè quello più marcatamente teorico, Craven sforna almeno due titoli degni di menzione: Sotto shock (1989) e La casa nera (1991). Può sembrare paradossale notare come il primo intenda costituire un’importante tessera del suo percorso autoriale, pur essendo per lunghi tratti un lavoro debole e disarmonico, quando non decisamente goffo, mentre il secondo, pur delineandosi, almeno all’apparenza, come un divertissement – forse il film di Craven che più di tutti ha l’andamento trasognato della fiaba, non senza dei sapidi momenti di humour nero – e quindi forse, ad una lettura disattenta, meno innovativo del primo, risulti comunque perfetto, sia nella costruzione narrativa sia nella conduzione registica. 
Sotto shock, è noto, nasce con l’intento di creare un nuovo babau degno di Krueger, stavolta però in grado di agire nel mondo reale, servendosi della propria capacità di assumere le sembianze di chiunque (5), oltre che di utilizzare qualsiasi apparecchio elettronico, in primis il televisore, per spostarsi da un luogo all’altro e, nel caso del televisore, per accedere al mondo che si situa dentro lo schermo. 
L’idea di partenza ha delle qualità, così come alcune soluzioni narrative: ad esempio l’ubiquità di un ex serial killer giustiziato ma redivivo, Horace Pinker (un non proprio memorabile Mitch Pileggi), capace di essere ovunque e chiunque, accanto ad alcune trovate, fra cui spicca la capacità del protagonista Jonathan Parker (il poco convincente Peter Berg) di sfruttare la “telegenicità” del killer per bloccarne i movimenti con un telecomando televisivo, o ancora, il duello/inseguimento finale fra i due antagonisti da un canale all’altro della tv. Li si vedrà passare, letteralmente e fisicamente, da reportage di guerra in b/n o a colori alle immagini di un vecchio film, dal palco di un concerto rock allo spettacolo di un tele-imbonitore (interpretato dallo “sciamano” Timothy Leary). 
Si evince con chiarezza il messaggio di critica ai media: il mondo reale (sempre nelle mani di adulti) e la Storia sono ben più terribili e annichilenti anche dell’orrore più spinto che l’immaginazione possa partorire; la tv, differentemente dal cinema, mescola, trita e frulla tutto, realtà e finzione, parola e immagine, vita e morte, annullandone la forza e il senso. La televisione è quindi un contenitore vuoto, attraverso la cui inconsistenza il cinema può transitare, pur rischiando di venirne risucchiato. La bontà delle intenzioni e, come detto, alcune idee tutt’altro che peregrine trovano il loro limite nella durata forse eccessiva della pellicola (110’), negli interpreti non sufficientemente in parte o all’altezza, in una messa in scena che ripesca alcune idee già sfruttate nel cinema di Craven, senza avere la forza e la lucidità necessarie, in questo caso, per valorizzare ed elaborare appieno quelle nuove.
Dopo il trascurabile film televisivo Delitti in forma di stella (1990), Craven si riscatta ampiamente dal mezzo scivolone di Sotto shock con lo splendido La casa nera. In esso sono presenti tutti o quasi i temi che contraddistinguono la sua poetica, tanto da poter essere considerato una specie di compendio del suo cinema, un compendio che però dà vita a un film pressoché perfetto in ogni sua componente, nonché arricchito da alcune convincenti suggestioni letterarie. Il racconto è imperniato sul conflitto fra una (per nulla) rispettabile famiglia facoltosa – col marito Eldon “Daddy” Robeson (un impeccabile Everett McGill), la moglie Mrs “Mommy” Robeson (Wendie Robie, altrettanto efficace, ma tutto il cast risulta felicemente amalgamato) e la figlioletta Alice (A. J. Langer) – e i residenti poverissimi di una zona periferica e disagiata di Los Angeles. 
Circola voce che i Robeson posseggano un’immensa fortuna in monete d’oro e che la loro distinta facciata nasconda più di un segreto inconfessabile. Alla ricerca del famigerato tesoro, due adulti, il bianco Spencer (Jeremy Roberts), il nero Leroy (Ving Rhames), assieme a un ragazzino anch’egli nero, Pointdexter “Fool” Williams (Brandon Adams), si intrufoleranno nell’imponente casa-prigione, rimanendo intrappolati. Mentre i due adulti verranno eliminati rapidamente dai due inquietanti padroni di casa, con l’ausilio del loro fido rottweiler, Fool riuscirà a sfuggire, pur dovendo superare innumerevoli trappole e mortali tranelli, prima di portare a casa la pelle e prendersi la rivincita sui due aguzzini, una rivincita che assumerà i connotati del riscatto sociale dell’intero quartiere. 
Come detto, tutti o quasi i temi del cinema di Craven prendono vita in questa divertente e nerissima fiaba (semi)gotica. Vi si ritrova innanzitutto la dimensione del sogno, di cui la pellicola risulta intrisa per quasi tutta la sua durata, essendo appunto una fiaba nera, una fantasia per immagini, e poi l’eterno conflitto fra adolescenza ed età adulta, quello socio-politico che aveva caratterizzato Il serpente e l’arcobaleno, quello fra perversione e innocenza che si delineava in Nightmare, quello fra borghesia benestante e reietti inselvatichiti dei primi film, ripreso poi anch’esso, in modo diverso, in Nightmare. Inoltre, ancora una volta, il conflitto territoriale diviene sintomo di un corrispondente conflitto di classe. Si assiste anche, rispetto ai lavori precedenti, a una descrizione più scanzonata e beffarda, ma non meno cupa, del nucleo familiare borghese, e ad una rielaborazione dell’home invasion, che sconfina con originalità nelle regioni, in apparenza più tradizionali, delle “case infestate”. 
Tutti questi temi vengono sapientemente mutati di segno da Craven, tanto da trovarsi di fronte a qualcosa di pienamente in linea con la sua poetica, eppure anche diverso, sia pure in modo sottile e tangente. L’home invasion si tramuta in un processo di demolizione progressiva di un contesto familiare tirannico e repellente, nel quale i mostri sono gli “assediati”, non gli infiltrati o – nel finale – gli “assedianti”, cioè la popolazione del quartiere giunta alla casa dei Robeson per reclamare la propria libbra di carne. I due “coniugi” sono in realtà fratelli e, non avendo progenie naturale dal loro incestuoso rapporto, si sono riempiti la casa dei figli degli altri abitanti del quartiere, alla ricerca del rampollo perfetto (ecco “the people under the stairs” del titolo originale, ragazzi ormai più o meno cresciuti, incatenati da anni nella cantina dell’abitazione e regrediti a una condizione semi-animale: l’abitazione è quindi “infestata” dalle vittime). Anche Alice, la giovane che funge da figlia dell’anomala coppia, non è altro che l’ennesima ragazzina rapita nella zona. 
I residenti del quartiere, dal canto loro, hanno visto progressivamente sparire nel nulla i propri figli ed essendo perlopiù indigenti, quindi non in grado di difendersi da sé o di essere protetti dalle forze dell’ordine, ancora una volta tratteggiate come colpevolmente incapaci, se non colluse e servili con le classi dominanti, sono costretti a subire la dura legge non scritta della società capitalistica, in cui solo chi è benestante ne viene riconosciuto come meritevole membro. In sostanza, si ripropone la situazione matrice di Nightmare, ma con una notevole differenza. Mentre in Nightmare il devil’s reject è l’emarginato e incazzatissimo Freddy, sorta di clochard sottoproletario, brutto, sporco e ultra-cattivo, ne La casa nera i veri mostri sono i solo apparentemente inciviliti Robeson. 
Naturalmente, se la famiglia borghese, tradizionale e benestante, spesso descritta da Craven come retrograda, bigotta e ottusa, veniva già messa alla berlina in molti dei titoli da lui sfornati in passato (6), qui viene addirittura additata come sentina di vizi connaturati e costitutivi, come crogiolo di perversioni estreme, stemperate dal magistrale registro umoristico individuato felicemente dal regista. Il film si giova di una calibrata armonia narrativa, vivificata dalle continue trovate scenografiche, grazie alle quali la casa diventa una vera protagonista aggiunta, col suo tracciato labirintico e la sua doppia spazialità, quella reale di casa-lager e quella fittizia di idillico quadretto domestico, con in più l’ulteriore invenzione di porre le vere vittime in una cantina buia, quindi in uno dei luoghi d’elezione del mostruoso fantastico (dove è anche occultato un tesoro d’altri tempi, degno di Ebenezer Scrooge), e i veri mostri alla luce degli eleganti piani abitati superiori. 
Non vanno neppure dimenticati i guizzi di una regia totalmente a suo agio con gli argomenti trattati e con la loro messa in scena, in cui si avvertono anche i rimandi letterari a Lewis Carroll e alla sua Alice, oltre che alle atmosfere dickensiane di Oliver Twist o del Canto di Natale. Emerge quindi un quadro complessivo, non solo relativo all’horror in generale, ma anche, più in particolare, alle connotazioni specifiche conferitegli da Craven, in cui i cliché consolidati vengono rielaborati, deformati, elusi e moltiplicati, con acume e consapevolezza, preparando la strada al periodo meta-filmico e teorico che caratterizzerà l’ultima parte della sua carriera.

(continua...)

5) Tema che si ritrova anche in un film di Jack Sholder, L’alieno (1987), di poco precedente, tanto da portare a pensare – come fa notare Danilo Arona – che Craven abbia forse voluto prendersi una piccola rivincita proprio su Sholder, che l’aveva “spodestato” dietro la mdp per la regia di Nightmare 2 – La rivincita (1985), anche se era stato Craven, comunque, a rifiutare di dirigerlo. Peraltro, Craven stesso nega di aver voluto “copiare” Sholder. In ogni caso, tale tema era già presente, come abbozzo, in un vecchio episodio della prima stagione (1960) di Ai confini della realtà, e precisamente Morire in quattro (The Four of Us Are Dying), scritto da Rod Serling e diretto da John Brahm. Il film Il tocco del male (1998) di Gregory Hoblit giocherà molte delle sue carte ancora sul medesimo tema.
6) Per Craven il contesto familiare, almeno quel particolare contesto da lui sperimentato in gioventù, visti i trascorsi personali con la madre-virago, invasata religiosa, difficilmente può essere tratteggiato con occhi indulgenti. Nel suo cinema, tale frattura psicologica originaria è quasi sempre ben presente.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Into The Pit

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IL BUIO SI AVVICINA – Il New Horror americano e il cinema di Wes Craven (2)

10/11/2017

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Parte Seconda

​Craven, il New Horror e la ricerca dell’autorialità
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Per molti versi, si sarebbe portati ad affermare che il New Horror nasca e muoia (e purtroppo, con Craven due anni fa e Romero di recente, ne cominciano a morire anche gli artefici, segno drastico e sanzione ulteriore della fine di un’epoca) con i tre grandi nomi di Romero, Carpenter, Cronenberg, il vero “terzetto-base” dell’horror moderno americano. Troppo discontinuo e sovente in calare, dopo gli inizi fulminanti e seminali, è il percorso di Hooper, che comunque meriterebbe una trattazione a sé. Dal canto suo, anche Craven, così come Hooper, sembra aver spesso tradito le attese, alternando prove maiuscole a molti titoli minori, fuori asse, quando non palesemente sbagliati. 
Romero e Carpenter hanno affondato le loro radici in un immaginario fondamentalmente affine, costituito dall’abbeverarsi prevalente alle fonti letterarie e filmiche dei grandi generi della narrativa americana (due cineasti per molti versi “popolari”, come estrazione, ma capaci, coi loro lavori, di capire il presente e anticipare il futuro come pochi altri), e hanno fatto emergere, ciascuno con le proprie peculiarità, uno sguardo filmico e creativo coerente, innovativo, affilato, genialmente visionario e probabilmente irripetibile. 
Cronenberg, dal canto suo, si è dimostrato altrettanto poderoso e acuto, anche se, pur nascendo all’interno del medesimo genere d’elezione degli altri due, al contrario di questi ultimi ha maturato ben presto l’aura di regista-intellettuale, di regista-letterato, di regista-filosofo, in grado di esprimere un cinema “adulto” e svincolato dai lacci delle etichette, per cominciare ad essere considerato un Autore, con la “A” maiuscola, marchio che consente, a chi fa cinema, di costruirsi un percorso personale non di rado ricco di affermazioni, successi e stima, anche nei contesti istituzionali meno indulgenti con i generi. 
Strano e contorto è a volte il confine che separa (ogni separazione è una limitazione, se fatta con ottusità), agli occhi della critica più miope, il buon/ottimo artigiano dall’autore (o Autore, come si diceva), così come il buon cinema di genere dal buon cinema tout court. Craven potrebbe idealmente posizionarsi a metà strada fra l’aspirazione all’autorialità avulsa dalle classificazioni, che contraddistingue anche Cronenberg, come detto, e la capacità di collocarsi pienamente nell’alveo del New Horror, del quale, come Carpenter, Romero e Cronenberg stesso, è stato uno dei fondatori nonché uno dei nomi determinanti, tuttavia senza aver saputo dimostrare con continuità il proprio genio, come si accennava poc’anzi, spesso annacquato, disperso o mal speso in produzioni di esile spessore. Eppure Craven avrebbe avuto parecchi dei crismi dell’Autore, grazie anche a una formazione cinefila, letteraria, filosofica, artistica non comune e tutt’altro che meramente “popolare”. 
Tale eclettica cultura (presentata pacatamente, quasi con timidezza, di fronte ai microfoni nelle svariate interviste rilasciate nel corso della sua quarantennale carriera), arricchita da un groviglio di suggestioni, idee, immagini, sogni – e soprattutto incubi – costituirà nella sua carriera, in un’ambigua doppiezza, il catalizzatore e il dispersore di intuizioni spesso notevoli; allo stesso modo, l’ansia e la necessità mai sopite di “crescere” artisticamente, di fare il grande balzo verso il cinema maggiore/maggioritario, di essere riconosciuto anche come regista tout court, non solo come immaginoso creatore di perversi e sublimi abomini visuali, rappresenteranno forse i freni e i vincoli più rilevanti di un cineasta dotato di molte risorse, di un’invidiabile lucidità, oltre che capace comunque, come vedremo, di delineare una poetica peculiare, coesa, visionaria e insostituibile.

War for territory – Gli esordi di Wes Craven 

Mentre il battesimo come spettatore Wesley Earl Craven lo riceve ben oltre i vent’anni – a causa della severissima educazione religiosa impartitagli dalla madre battista integralista, che, fra le altre cose, intravede proprio nel cinema uno dei molti strumenti del demonio – con la visione-matrice de Il buio oltre la siepe (1962) di Robert Mulligan (1), quello col set (se così possono essere definiti lo spazio e i mezzi spartani dell’esordio di Craven dietro la macchina da presa) avviene nel 1972, a trent’anni ampiamente scoccati, con L’ultima casa a sinistra, che da subito diviene un oggetto mutante, un film-orrore devastato o vietato dalla censura, senza dubbio a causa dei suoi contenuti espliciti, ma forse anche per la forte carica destabilizzante e di feroce critica sociale. L’elemento probabilmente più bizzarro di tutti risiede, in questo esordio, nella fonte d’ispirazione di Craven e cioè La fontana della vergine (1960) di Bergman, del quale L’ultima casa a sinistra mantiene gli elementi base di una trama comunque controversa e rivoluzionaria già nel capostipite. 
Ecco, fin dall’inizio Craven si dimostra regista eccentrico, distante dalla cultura filmica “media” dei suoi colleghi, nonché così ingenuamente – o no? – coraggioso da “rifare” uno dei film forse più problematici (premiato con l’Oscar come miglior film straniero, ma censurato anch’esso in alcuni dei passaggi più duri), almeno a livello tematico, del maestro svedese. Certamente Craven ci mette del suo, e parecchio, traendone un archetipo del rape & revenge (2), esibendo una violenza estrema e malata, con riprese intense e inquietantemente prossime al reportage o al cinéma-vérité, aiutate anziché limitate dalla povertà del set; il tutto è accompagnato da intuizioni visuali spesso notevoli, come nell’icastico stupro con assassinio delle due ragazze protagoniste della prima parte del racconto. L’unico vero punto debole della pellicola risiede nei siparietti comici che vedono protagonisti i due sbirri alla vana ricerca degli assassini (3), tentativo malriuscito e forzatamente sbracato di stemperare la violenza cieca, estrema e senza possibilità di speranza o catarsi, che anima un film altrimenti sempre malsano e disturbante, specie nella prima parte. 
Craven, a tratti con grande inventiva, estrae già alcuni degli assi tematici e stilistici che il New Horror cela nelle sue capaci maniche, tanto da poterne essere considerato uno dei maestri e anticipatori. Il conflitto fra natura e cultura (o, letto in guisa psicanalitica, fra Pulsione/Desiderio e Legge), essenziale nella poetica del New Horror, anche se tutt’altro che nuovo al cinema, diviene ne L’ultima casa a sinistra un’arma da taglio, un oggetto affilato che penetra nel subcosciente dello spettatore, senza lasciargli scampo, anche perché viene a risolversi come regressione a un’originaria condizione selvatica, abbrutita e ferina, proprio per la civilissima, bianchissima e waspissima famiglia Collingwood, incarnata dai genitori di una delle due ragazze brutalizzate dal gruppo di ingloriosi bastardi capeggiati dal carismatico Krug Stillo (David Hess, autore anche delle musiche del film). 
Se la violenza feroce di Krug e dei suoi risulta perlomeno comprensibile, a causa della loro collocazione al di fuori della legge, nel loro brechtiano essere “seduti dalla parte del torto”, estremamente perturbante risulta l’altra violenza (sempre che, appunto, ne possa esistere un’altra), quella che si concretizza nella vendetta da parte dei coniugi Collingwood, allorché Krug e i suoi capiteranno fra le loro grinfie, fino ad essere fatti a pezzi nei modi più parossistici ed eccessivi. 
Il colpo di genio di Craven si situa però nel creare due immagini deformemente speculari di due nuclei familiari contigui eppure diversissimi, quello anarchico e “selvaggio” di Krug, contrapposto a quello civilizzato dei Collingwood. Se i primi, ospiti per ironica combinazione nell’abitazione dei Collingwood, una volta entrati nella casa tenderanno ad assumere pose, pretese e atteggiamenti ridicolmente “borghesi”, i secondi, una volta realizzato che gli stravaganti ospiti sono gli assassini della figlia, non esiteranno a trasformarsi nella copia esatta, anzi moltiplicata all’inverosimile, dei loro avversari, sterminandoli tutti. Il conflitto fra i due gruppi si innesca perciò, oltre che per ragioni personali, anche per una tutt’altro che sopita pulsione di controllo territoriale, che assume anche il carattere di una demarcazione di classe, da ambo le parti. 
Nella prima parte del film vengono poste a confronto la dimora semplice e confortevole dove risiedono i Collingwood e quella di fortuna e di tutt’altro aspetto del gruppo di Krug. Una volta che Mari Collingwood, insieme all’amica Phyllis, sconfinerà nella zona di Krug, troverà presto una morte atroce, ma ciò che ancora una volta va rimarcato è cosa significa – e cosa significherà nei lavori successivi – la territorialità e l’appartenenza a essa nell’immaginario craveniano, in un continuo gioco di specchi e rimandi. I due mondi separati, ma adiacenti e talvolta comunicanti, della civiltà e della barbarie sono contrapposti, anche se, a volte, finiscono inquietantemente per somigliarsi e per scambiarsi di posto. 
Se Mari e Phyllis sono nel territorio di Krug è perché ne sono attirate; sono infatti alla ricerca di un po’ d’erba da fumare, di un po’ di trasgressione ed è proprio quell’un po’, segno dell’appartenenza al mondo borghese e incivilito, a costituire la loro rovina, quel non capire come non esistano gradazioni nella trasgressione, che, in quanto tale, o è assoluta o, semplicemente, non è. Posizione, questa, nella quale è anche possibile individuare dei residui dell’educazione integralista di Craven. È anche più che certo che fuori dal proprio territorio si muore. Lo sperimenteranno le due ragazze, ma, non molto tempo dopo, anche Krug e i suoi. 
Infatti, dall’altra parte di questo specchio a due facce intercambiabili e tuttavia distinte, quindi all’interno della dimensione morale ed esistenziale della famiglia borghese, tutto deve essere fatto a modo, con equilibrio e senza esagerare, salvo in una cosa, nell’essere borghesi inciviliti. Non si può essere solo un po’ borghesi, o lo si è oppure no. Per gli assassini, la pantomima con cui essi si auto-rappresenteranno maldestramente agli occhi dei Collingwood, una volta loro ospiti, per sembrare ciò che non sono e non saranno mai, sarà l’elemento cardine che ne innescherà la distruzione. Quindi, se è vero che nella violenza tutti finiscono con l’assomigliarsi, nell’appartenenza territoriale, culturale e sociale ci sono delle differenze e soprattutto dei confini che, da ambo i lati, non devono essere oltrepassati, pena la morte.

1) Per approfondire le molte implicazioni della visione del film di Mulligan nell’immaginario craveniano, oltre che per conoscere davvero a fondo il suo cinema almeno fino al 2000, un testo fondamentale e ricchissimo di spunti è Wes Craven – Il buio oltre la siepe di Danilo Arona, edizioni Falsopiano, Alessandria 1999.
2) I primi anni ’70 sono il periodo in cui tale sottogenere fiorisce (tanto per dire, Cane di paglia di Peckinpah è del ’71, Un tranquillo week-end di paura di Boorman, film di confine fra sottogeneri, del ’72, Thriller di Alex Fridolinski (alias Bo Arne Vibenius), del ’73, Il giustiziere della notte di Winner, del ’74, L’ultimo treno della notte di Lado, del ‘75) e Craven ne coglie appieno lo spirito, anticipandone anche svariati esiti.
3) Le forze dell’ordine gabbate, incompetenti e ridicolmente incapaci ritorneranno anche in molti dei film successivi di Craven.

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​Le colline hanno gli occhi (1977) – terzo lavoro di Craven dopo la parentesi hard rappresentata da La cugina del prete (1975) – costituisce un altro titolo nodale di questo periodo ancora acerbo, ma in cui baluginano già alcune rimarchevoli intuizioni. Si assiste a un’estremizzazione ulteriore de L’ultima casa a sinistra, non tanto nella violenza che ne scandiva il ritmo forsennato, quanto in alcuni connotati ambientali, oltre che nei caratteri dei personaggi, mentre ne vengono ripresi sostanzialmente tutti i temi, nonché la struttura di base.
​Il film riaggiorna il conflitto natura-cultura dell’esordio, capovolgendone una premessa sostanziale e cioè collocando questa volta la famiglia borghese al di fuori del proprio territorio d’elezione, la casa, la dimensione cittadina (anche se, in Last House on the Left, quest’ultima è spesso assente, visto l’isolamento in cui accadono i vari eventi-cardine), per gettarla in pasto al paesaggio ostile e apparentemente senza vita del deserto del Nevada. Va comunque notato che, quando i cittadini si spostano attraverso zone rurali e vuote di umanità, lo fanno con dei surrogati dell’abitazione, cioè con quella specie di casa in movimento che è l’automobile, assieme ai suoi upgrades come la roulotte, il furgone o il camper. Nondimeno, è anche vero che il viaggio in zone disabitate e ostili, quantunque facilitato dai mezzi tecnologici a disposizione, moltiplica l’inquietudine e il senso di spaesamento, maggiormente radicati negli Stati Uniti, vista la vastità territoriale e l’abbondanza di zone ancora selvagge. 
Se Easy Rider (1969) di Dennis Hopper cantava le gesta di due knightriders liberi, anarchici e inoltre dotati solo di quel succedaneo del cavallo che è la moto, i protagonisti di film come Non aprite quella porta (1974) di Tobe Hooper, In corsa con il diavolo (4) (1975) di Jack Starrett o lo stesso Le colline hanno gli occhi si muovono da una zona all’altra del Grande Paese solo a bordo di mezzi “pesanti” e soprattutto confortevoli. L’aspetto ambientale diventa decisivo, ne Le colline hanno gli occhi, per innescare il contatto e poi il conflitto fra la famiglia civilizzata e quella selvatica che vive sulle colline circostanti. Una volta avvenuto l’incidente che blocca la famiglia Carter nel suo viaggio dall’Ohio a Los Angeles, sono proprio il deserto e l’assenza di umanità a generare le prime inquietudini nei membri del gruppo e ben prima che i coloriti, grotteschi e spietati avversari facciano la loro apparizione. 
L’ampiezza e la desolazione dello scenario amplificano e riverberano gli aspetti eminentemente cinematografici di un racconto sostanzialmente gemello di quello d’esordio, con una proliferazione dei punti d’osservazione e delle disfunzioni o limitazioni percettive (5). L’inquietudine maggiore per i protagonisti, al di là del pericolo concreto costituito dagli avversari e dal loro controllo ambientale, si situa nel fuoricampo, nell’incombere di uno spazio vuoto e sconfinato, che grava ben più del semplice peso di una minaccia tangibile. È la natura il primo e più potente avversario dell’uomo civilizzato, in un rovesciamento di uno degli assunti del Flower Power e cioè la ricerca di una rinnovata comunione fra uomo e, appunto, natura. Non si tratta più del deserto di Zabriskie Point (1970) di Antonioni, dove la Death Valley si animava per riempirsi di vita e la morte veniva portata dall’autorità repressiva, ma di un luogo primigenio e letale – tanto quanto quello antonioniano era primigenio e vitale – nel quale per sopravvivere è necessario regredire, per sconfiggere un avversario disumanizzato bisogna cancellare i secoli di evoluzione culturale e civile, riappropriandosi perciò dell’originaria forza distruttiva del predatore. 
Anche in questo film è ben presente, forse ancor più che nel lavoro d’esordio, la dimensione della territorialità – e conseguentemente dell’appartenenza di classe – come elemento fondativo dello scatenarsi dell’aggressività: le colline contrapposte al surrogato della casa, cioè il camper, i “cacciatori” (di uomini) contrapposti ai cittadini azzimati e apparentemente inoffensivi. Sarà proprio la trasformazione di tale inoffensività nella belluina carica di ferocia e distruzione con cui i borghesi superstiti stermineranno i trogloditi a costituire, ancora una volta, il marchio distintivo di Craven, che esaurisce con questo potentissimo dittico il proprio discorso sul conflitto fra natura e cultura, sulla lotta per il predominio nel contesto di un territorio eminentemente fisico, per cominciare a inoltrarsi, poco a poco, in un altro territorio, quello dell’inconscio. È qui che l’opera di Craven raggiungerà la maturità e traccerà il suo percorso più personale e ragguardevole.

(continua...)

4) Riuscitissimo ibrido fra road movie, survival, home invasion e demoniaco, nel quale i protagonisti, interpretati da Peter “Capitan America” Fonda (ancora lui, dopo Easy Rider) e Warren Oates (ancora lui, dopo alcune delle migliori scorribande filmiche sui set di Peckinpah) si spostano in camper dal Texas verso il Colorado (dove non arriveranno mai), per una vacanza con le loro compagne e con le loro fide motociclette, opportunamente caricate sul camper: knightriders ormai imborghesiti.
5) A tal proposito, va rimarcato come i “selvaggi” utilizzino, curiosamente, delle ricetrasmittenti, che aumentano esponenzialmente la loro supremazia su un territorio già ampiamente conosciuto, così che la situazione inizia a ribaltarsi proprio quando una delle ricetrasmittenti finisce nelle mani di uno dei Carter, capovolgendo il controllo percettivo e la capacità di azione dei due gruppi antagonisti.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Into the Pit

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IL BUIO SI AVVICINA – Il New Horror americano e il cinema di Wes Craven (1)

2/11/2017

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Parte Prima

Dall’American Dream all’American Nightmare: il New Horror


​Agosto 1968: nelle sale americane esce Bersagli, opera d’esordio di Peter Bogdanovich (1) e soprattutto significativo spartiacque (meta)filmico, in cui si assiste all’emblematico passaggio del testimone fra il protagonista di un cinema dell’orrore romantico e ormai al tramonto (l’anziano attore Byron Orlok, interpretato dal veterano Boris Karloff) e una nuova tipologia di mostruosità, quotidiana eppure ineffabile, che affonda le radici nel presente d’allora – ma anche, inquietantemente, degli anni successivi e poi di oggi – degli USA impegnati in Vietnam; un presente che veste i panni di un reduce della “sporca guerra” (2), la cui latente carica omicida deflagra improvvisamente, una volta ritornato sul suolo americano e riadattatosi alla vita da civile, mietendo vittime innocenti in modo casuale e senza motivazioni manifeste, se non l’esplosione di una follia perturbante, prossima eppure incomprensibile. Il nemico non è più l’Altro, perché l’Altro siamo noi, estranei a noi stessi, soggettività divise e frammentate in un mondo senza più baricentro, equilibrio, senso. 
Ottobre 1968: al Fulton Theatre di Pittsburgh viene proiettato per la prima volta La notte dei morti viventi di George Andrew Romero, turning point filmico acclarato e (non da tutti e non subito) acclamato di un irreversibile cambio di rotta per l’estetica e le tematiche, ma anche per una nuova dimensione etica e politica, non solo del genere horror, bensì del cinema tutto e della sua storia.
Il ’68 è, notoriamente, un anno cruciale e proteso verso un cambiamento radicale in senso libertario e antiautoritario del mondo occidentale, europeo e statunitense, interessando trasversalmente anche realtà geo-socio-politiche assai diverse e distanti fra loro, nelle forme più disparate, come è inevitabile: Giappone, Cina, paesi del Patto di Varsavia, Messico. Tutto l’arco temporale degli anni ‘60, comunque, è pervaso da venti di rinnovamento, che spesso si scontrano con il ristagno della politica internazionale (siamo in piena guerra fredda) e con l’affacciarsi di nuovi conflitti “caldi” (il Vietnam su tutti). L’epocale volontà di cambiamento sociale, civile, storico, politico, etico, che attraversa di fatto il mondo intero verso la conclusione del decennio, finirà col riverberarsi anche sul cinema in generale, che, dal canto suo, svolgerà non solo la funzione di catalizzatore di nuovi racconti e di mutate visioni del mondo, ma avrà anche il compito essenziale – come è peculiare di ogni forma espressiva calata con lucidità nel presente – di rivelare visionariamente scenari futuri non ancora definiti, di preconizzare e anticipare il tempo che verrà, oltre a delineare la forma del tempo che già c’è, l’incerto presente proiettato verso un futuro ancora più indistinto. 
Focalizzando nuovamente l’attenzione sul cinema statunitense, va notato come il mutamento epocale, rappresentato in modo emblematico dal formidabile esordio di Romero (3), si situi pressoché contemporaneamente, oltre che al movimentismo politico-sociale cui si è accennato, anche ad un evento apparentemente secondario, che avviene all’interno dei rigidi steccati del sistema produttivo hollywoodiano: Jack Valenti, divenuto presidente della Motion Picture Association of America nel 1966, definisce il famigerato Codice Hays, in vigore dal 1930, “obsoleto e fuori dal tempo”, fino a decretarne la scomparsa nel 1968. 
Il Codice Hays non svolgeva soltanto la funzione di decalogo morale/moralistico, a forte impronta religiosa (4), per il contenuto delle pellicole prodotte nella Mecca del cinema, ma aveva anche il compito strategico di monitorare lo stato dei mythoi che l’America narrava su se stessa. Se lo scopo moralizzatore risultava ufficialmente in cima ai pensieri di Hays e dei suoi sodali nella stesura del Codice, non si può dimenticare il fatto che l’industria cinematografica a stelle e strisce lavorava (e lavora altresì oggi, a volte più di allora) anche per diffondere un ben preciso modello esistenziale, il modello di vita americano, l’American Dream, che ovviamente non poteva essere “sabotato” da racconti che lo ponessero in discussione, o che addirittura lo demolissero dall’interno. 
Ciononostante, il grande cinema classico americano, dagli anni ’30 ai ’60, riuscì pienamente a esprimere una poetica peculiare, ad aggirare, in molti e felici casi, l’occhiuto filtro della censura, grazie all’intelligenza dei suoi artefici, con la sagacia dei suoi registi e sceneggiatori, nonché a elaborare un linguaggio filmico senza tempo e universale, tanto più che, di fatto, dalla seconda metà dei ’50 le maglie del Codice cominciarono ad allargarsi. Il cinematografo si era comunque dimostrato lo strumento più efficace per erigere, pressoché dal nulla, il grande mito fondativo della nazione americana, il racconto perpetuo  della “nascita di una nazione”. Come scrive Gilles Deleuze: “[…] il cinema americano non ha smesso di girare e rigirare uno stesso film fondamentale, che era Nascita di una nazione-civilizzazione […], il fiorire della nazione americana. Negli americani, la rappresentazione organica non conosce evidentemente sviluppo dialettico, è essa stessa, da sola, la storia intera […]: essere un crogiolo in cui le minoranze si fondono, essere un fermento che forma capi capaci di reagire a tutte le situazioni" (5). 
Se il western, in primis, e il film di guerra, in seconda battuta, costituiscono l’aspetto eminentemente epico di tale racconto, il gangster e il noir ne delineano il controcanto tragico. Il tutto però spesso cementato dalla presenza – sovrastrutturale, all’inizio, poi connaturata – moralizzante/moralizzatrice dell’elemento sanzionatorio. Di fatto, sia nella dimensione epica che in quella tragica predominano, al livello della struttura di base del racconto, la normalizzazione e il riequilibrio di una situazione disarmonica, dovuta a fattori/nemici esterni (western e film bellico) o interni (noir e gangster), rispetto alla comunità sana della Grande Nazione.
​Com’è intuibile, la sanzione e il giudizio morale che la indirizza vedono acuire la loro intensità in special modo nel gangster e nel noir, nei quali i personaggi centrali (criminali perversi, ambiziosi avventurieri, duri e disincantati detective privati, dark lady ingannatrici e letali) sono prevalentemente cittadini americani, parte degenere o borderline della comunità sana, uomini e donne che propendono per il Male, per irresistibile attrazione nei suoi confronti, ma anche a causa del Fato o delle circostanze, in un contesto ambientale nel quale – il Codice insegna – solo il Bene può trionfare e chi sceglie il Male sceglie anche la propria rovina. L’elemento sanzionatorio giunge quindi a delineare un orizzonte di giudizio morale di condanna verso i protagonisti di tali racconti, finendo paradossalmente col regalare loro la dimensione di grandi (anti)eroi tragici senza speranza, creando perciò delle figure indimenticabili e riuscendo oltretutto a costruire un archetipo di narrazione di notevolissimo impatto drammaturgico, ancora oggi per molti versi ineguagliato. 

1) Dello stesso anno è Voyage to the Planet of Prehistoric Women, in cui Bogdanovich si firma Derek Thomas.
2) Un riferimento anticipatore al Vietnam e alla deriva psichica che colpisce i reduci si ha già con Russ Meyer, nel film Motorpsycho! del 1965. Senza dubbio, Meyer è spesso in anticipo sui tempi anche se prevalentemente a livello di puro divertissement.
3) Non è soltanto il cinema horror americano ad essere attraversato dall’urgenza di rinnovamento, ma in generale tutta la produzione indipendente e non negli USA (senza contare ciò che stava accadendo al di là dei confini statunitensi, in Europa e altrove). I ‘60 sono gli anni di John Cassavetes, della Factory di Warhol, di Stan Brakhage, di Kenneth Anger, del New American Cinema Group, che aveva come riferimento il manifesto promosso da Jonas Mekas, solo per citare alcuni nomi essenziali dell’epoca, oltre alla nascita della cosiddetta New Hollywood con i vari Scorsese, Rafelson, Pollack, De Palma, Coppola, Spielberg, Lucas a muovere i primi passi. Certamente, la nascita di un nuovo modo di intendere l’horror condurrà il genere, rinnovato dalle fondamenta, a porsi come una delle punte di diamante, forse la più affilata, del cinema emergente di quegli anni in America. Conquisteranno la ribalta, nel tempo, tre nomi fondamentali, cioè Romero, Carpenter e Cronenberg, insieme ai più discontinui, ma non meno importanti, Hooper e Craven, oltre ad alcuni “battitori liberi” come Dante, Raimi o Landis, che con le coordinate essenziali del New Horror avranno comunque poco a che spartire. 
4) La stesura del Codice venne affidata alla Legion of Decency con la supervisione del gesuita Daniel A. Lord, (cog)nomen omen.
5) ​G. Deleuze, L’immagine-movimento – Cinema1, Ubulibri, Milano 1984, 5^ ed. 2002, pp. 174-175.

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​La fine dei ’50 e l’inizio dei ’60 delineano un atteggiamento complessivo di trasformazione, sia perché i generi-cardine del cinema americano cominciano a declinare o, in buona parte, a cambiare di segno, di contenuti, di stile, sia soprattutto perché comincia a barcollare l’American Way of Life. Gli omicidi dei fratelli Kennedy (1963 e 1968), quello di Martin Luther King (1968), l’entrata in guerra nel Vietnam (6), il protrarsi della guerra fredda sono la punta di un iceberg evidentemente più profondo, che vede cominciare a vacillare e ad incrinarsi l’idillio di una nazione illusoriamente compatta e felice.
​Certamente, un contributo locale non di poco conto al mutamento che investirà in quegli anni il cinema statunitense deriverà dall’allentamento delle maglie del Codice censorio concepito dall’ex direttore generale delle poste degli Stati Uniti William Harrison Hays. Se fino a quell’epoca, una innumerevole schiera di geniali cineasti si era presa gioco, con sagacia e intelligenza, della censura, lavorando con l’allusione, l’ellissi, il cesello audiovisuale o narrativo, per esprimere la propria poetica, da quel periodo in poi il Grande Sogno Americano comincerà a scricchiolare, a smarrirsi e frantumarsi, anche in quei generi che ne avevano cantato le gesta.
Inizia l’epoca d’oro dei vari Robert Aldrich, Sam Peckinpah, Samuel Fuller, Monte Hellman, Richard Brooks, ma anche delle scorribande folli di Russ Meyer o dell’iper-violenza di Herschell Gordon Lewis, e la strada si apre, poco a poco, affinché anche l’horror (prevalentemente gotico) tradizionale – pur rivitalizzato, a tratti, dalle produzioni delle inglesi Hammer e Amicus o dalle riletture visionarie dell’opera di Poe da parte di Corman (7) – trovi nuova linfa, nuove tematiche, stilemi, approcci e, soprattutto, si emancipi dalla sua matrice generalmente letteraria per riscrivere, daccapo, la propria storia. I tempi stavano cambiando e il magma ribollente, che premeva ai confini del Sogno Americano già da qualche tempo, stava per tracimare, inondando gli schermi. 
Si diceva, poco sopra, La notte dei morti viventi, 2 ottobre 1968, uno spartiacque. Dopo la proiezione, stracolma di adolescenti, liberi ancora di scorrazzare per la sala, visto che nuovi divieti – ancora l’onnipresente censura – posti dalla Motion Picture Association of America sarebbero scattati solo un mese più tardi, Roger Ebert ebbe a scrivere, profeticamente: “Non credo che sapessero cosa stavano andando a vedere. Erano abituati ad andare al cinema, certo, e sicuramente avevano visto altri film horror, ma questo era diverso”. 
Tre, almeno, sono i meriti che si possono ascrivere alla dirompente opera prima di Romero. Innanzitutto è – a prescindere da ciò che ne conseguirà per il suo autore e per il cinema a venire – un film senza sbavature, incrinature, punti morti o fiacchi, incertezze, oltre che linguisticamente modernissimo, e nel quale anche quelli che per molti altri registi risulterebbero limiti o punti deboli concorrono alla riuscita dell’opera. Un’alchimia perfetta, forse anche fortunata, comunque difficilmente ripetibile. In seconda battuta, non può essere omesso il fatto che Night of the Living Dead originò una delle saghe horror più importanti e riuscite di sempre, creando, tra l’altro, lo “zombi romeriano”, una figura archetipica dell’horror moderno e contemporaneo, che vano risulta far risalire alla tradizione haitiana (8) – della quale mantiene solo alcuni vaghi caratteri di superficie – così come ricercarne degli epigoni all’altezza nei vari remake, spin-off, reboot, o nelle varie derivazioni più o meno coerenti con l’archetipo. Lo zombi romeriano è unico e inarrivabile. Se esistono dei meriti “esterni” alla pellicola, essi vanno tutt’al più ascritti alla matrice letteraria a cui Romero ha attinto come fonte di ispirazione e cioè Io sono leggenda (9) (1954) del grande Richard Matheson. E qui va aperta una brevissima parentesi, comunque legata al tema principale. 
Là dove il cinema (anche) di genere americano viveva, come detto, di ellissi, di fuoricampo, di allusioni, di sottintesi, oltre che di rifiuti produttivi, o tagli e manomissioni censorie, la letteratura di genere – ma già, sovente, d’autore, anche se non di rado inconsapevolmente – scorrazzava libera, visionaria, sporca e cattiva a partire dalle pagine pulp di pubblicazioni di quart’ordine, con nomi come Robert Heinlein, Philip K. Dick e lo stesso Matheson, per la sci-fi, o Jim Thompson e Cornell Woolrich, per il noir/hard-boiled, tutti invariabilmente grandi fonti di ispirazione per il cinema e da questo non di rado precettati direttamente. La notte dei morti viventi risulta importante anche per aver portato sullo schermo quella libertà, quella visionarietà, quella sporcizia, quella cattiveria. Il terzo merito ascrivibile al capolavoro romeriano riguarda invece le problematiche e i macro-argomenti toccati, latenti o palesemente espressi, che costituiranno una specie di codificazione concettuale e tematica dell’horror che verrà, anche se non tutti tali elementi saranno presenti contemporaneamente e in ciascuno degli autori della grande stagione americana dell’orrore.
Innanzitutto, il corpo. Tutto l’horror moderno e contemporaneo sarà contrassegnato da paure – ataviche e non certo nate con Romero, ma da lui magnificamente trasferite dall’immaginario allo schermo e da questo all’occhio per ritornare, profondamente mutate, nuovamente all’immaginario – legate alla corporeità. Imprigionato, smembrato, violato, posseduto, dissolto, contaminato, assediato, divorato: in Night of the Living Dead c’è già, in nuce o espresso esplicitamente, tutto ciò che il corpo umano sarà costretto a subire su celluloide nei decenni che seguiranno. Visibile e invisibile si scontrano per cercare di dare forma all’irrazionale, alla difformità inquietante che diviene deformità, attraverso un contagio interno che si esteriorizza nella carne martoriata. Ecco, non solo corpi, ma corpi di carne e sangue, ultimo baluardo da superare per approdare all’oscenità etica proprio di quella carne e di quei corpi, perciò del limite sublime e terribile dell’umano nel suo (dis)farsi, involucro tenue e fragile, con o senz’anima, (peso) morto che cammina. 
In secondo luogo, emerge inequivocabilmente una nitida e tagliente analisi del ruolo dei media nella società civilizzata contemporanea, un’analisi che attraverserà tutta la saga romeriana, con continui e lucidissimi aggiornamenti, almeno fino all’epocale Diary of the Dead (2007). Nello specifico di Night of the Living Dead, i media (la televisione) rappresentano un’illusoria ancora di salvataggio virtuale, che tiene aggrappato il variegato gruppo di assediati alla speranza che ci sia ancora qualcuno lì fuori in grado di aiutarli. È noto quale sarà l’aiuto della squadra dello sceriffo Mc Clelland per il superstite Ben. 
Il terzo sacro altare della società americana ad essere profanato è quello della famiglia. La sequenza-chiave è quella devastante e intensamente icastica in cui la contaminata adolescente Karen, ormai trasformata in zombi, prima divora il padre e poi uccide la madre a colpi di cazzuola, strumento oltretutto altamente simbolico – e beffardamente “metonimico” – in quanto ideato per costruire proprio quegli edifici, la casa in primis, in cui la famiglia trova rifugio e che, in questo caso, si trasforma in strumento di distruzione. Perciò, la famiglia viene a dissolversi proprio in quel luogo deputato alla sua salvaguardia: l’abitazione, la casa, appunto. Night of the Living Dead costituisce una pietra miliare anche dell’home invasion, nonché, per esteso, del tema trasversale – congeniale all’horror e non solo – della difesa del (proprio) territorio. 
Assai affine e contiguo al tema dell’home invasion, oltre che del survival (che dell’home invasion è una specie di guanto rovesciato), è quello del conflitto universale, anche al cinema e non solo horror, fra natura e cultura, del quale gli zombi, nel caso specifico, rappresentano la profezia di una regressione a una condizione primordiale e barbarica, mentre gli uomini sopravvissuti costituiscono l’agitarsi delle pallide ombre di una civiltà non più attuale e ricacciata repentinamente indietro, verso un’origine remota e ancestrale in apparenza sepolta, eppure nuovamente ridestata, in quanto non del tutto scomparsa, ma semplicemente immersa nella culla silenziosa di un torpore millenario. 
L’aspetto probabilmente più notevole della pellicola di Romero risiede però nella descrizione del gruppo di assediati, chiara sineddoche dell’umanità in generale. Allontanandosi decisamente e irreversibilmente dalle radici del racconto epico americano, Romero tratteggia la morte della Grande Nazione sia mostrando un gruppo di personaggi allo sbando, divisi irrimediabilmente al proprio interno e pronti a scannarsi fra loro (l’esatto opposto degli eroi emanati dalla comunità, suoi difensori e pronti a salvaguardarne l’armonia fino a giocarsi anche la propria vita), sia delineando un mondo al crepuscolo in cui l’uomo letteralmente divora se stesso, sia, infine, individuando nelle autorità preposte alla difesa del territorio e dei suoi abitanti un ulteriore e letale pericolo, l’affacciarsi di un’inquietante deriva regressiva verso un originario stato di natura ferino e brutale. 

6) L’intervento diretto e ufficiale degli USA si situa fra il 1964 e il 1965, a seguito del controverso incidente del golfo del Tonchino, anche se le operazioni generali di supporto al governo sud-vietnamita erano in corso già da svariati anni.
7) Un regista a volte geniale, capace di ideare, dentro e fuori i generi, pellicole modernissime come L’odio esplode a Dallas (1962), L’uomo dagli occhi a raggi X (1963), Il massacro del giorno di San Valentino (1967) o Il clan dei Barker (1970). A ciò si aggiunga il notevole contributo della sua factory, a livello produttivo e di “lancio” di nuovi fondamentali nomi per il cinema emergente. 
8) Tradizione alla quale farà riferimento esplicitamente e con esiti cospicui proprio Wes Craven, con Il serpente e l’arcobaleno (1988), oltre ad almeno altri due titoli essenziali, vale a dire L’isola degli zombies (1932) di Victor Halperin e Ho camminato con uno zombi (1943) di Jacques Tourneur. Un ragguardevole lavoro di documentazione, anche audiovisuale, del fenomeno del voodoo haitiano è costituito dagli studi compiuti fra il 1946 e il 1954 dalla regista d’avanguardia Maya Deren.
9) ​Titolo al quale si ispirò anche uno dei più grandi e sottovalutati crossover horror/sci-fi di sempre e cioè L’ultimo uomo della terra (1964) di Salkow/Ragona, film nel quale è inoltre possibile rintracciare alcune suggestioni che poi si ritroveranno nella pellicola di Romero.

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Con la rappresentazione della decadenza della civiltà moderna, pervasa da una progressiva degenerazione, si fa strada, all’interno di Night of the Living Dead, anche un ulteriore tema fondante e distintivo della poetica del New Horror, intriso da sempre di caratteri politico-sociali: il tema dell’Untermensch. Il vocabolo di hitleriana memoria designa forme di vita – l’ebreo, l’omosessuale, lo slavo, il latino, in sintesi chiunque riveli una natura difforme dai canoni della razza eletta – inferiori all’umano, ma non solo, bensì anche e soprattutto diverse, altre, difformi appunto, dal modello di riferimento.
​Che altro è lo zombi romeriano se non un Untermensch, un sottoproletario brutto, sporco e vorace, il quale, in quanto non più sottoposto/sottoponibile al controllo istituzionale, diviene socialmente inaccettabile e indesiderato? Romero, a partire dal secondo capitolo della saga e in modo ancora più netto e irreversibile nel terzo, ne farà il padrone del mondo, visto che l’essere umano, il Mensch, non è capace di conservare il proprio posto sulla terra né, soprattutto, di meritarlo. In molto New Horror si assiste alla proliferazione degli Untermenschen (10), investiti spesso di una caustica carica eversiva, anche estetica: zombi, mostri sub-umani o, qualche volta, super-umani (in questo caso, Übermenschen invincibili, come il Michael Myers di Carpenter o il Freddy Krueger di Craven, i quali assommano in sé i caratteri di unter e über), anche se spesso sono proprio gli uomini i mostri peggiori, o comunque la causa delle disgrazie, degli orrori e della loro stessa rovina. 
Un’altra opera che, da sola, costituisce un’ulteriore svolta essenziale per il cinema dell’orrore moderno, non solo americano peraltro, è L’esorcista (1973) di William Friedkin, un regista che non appartiene al tessuto connettivo del New Horror (11) (né dell’horror in generale), ma che, indubbiamente, grazie a questo titolo ne traccerà alcune coordinate essenziali, pur discostandosene, anche se solo in apparenza, nell’approccio tematico e filosofico. L’esorcista, grazie all’impronta di Friedkin, lavora anche contro l’establishment a forte impronta religiosa in cui viene concepito e attuato il film, a partire dal cattolicissimo sceneggiatore e produttore William Peter Blatty (autore anche del best-seller letterario a cui il film fa riferimento), per poi arrivare all’appoggio diretto delle gerarchie ecclesiastiche, tanto che il cast annovera due autentici gesuiti, sia pure in parti di contorno, padre William O’Malley (che interpreta padre Dyer) e padre Thomas Bermingham (che interpreta il rettore dell’università dove si svolgerà il dibattito teologico per l’inizio delle pratiche esorcistiche sulla malcapitata Regan). 
Da un lato, quindi, la pellicola di Friedkin si avvale certamente, a livello tematico, di tutto il corollario di anatemi e critiche verso la laicizzazione della società, la disgregazione della famiglia tradizionale, la credenza cieca nei saperi umani (medicina, psicanalisi, psichiatria) e l’impossibilità per questi ultimi di rispondere a tutte le domande dell’uomo, di dipanare il mistero ultimo dell’esistenza, dei suoi limiti e dei suoi fini trascendenti. Sembrerebbe dominare, in conclusione, l’affermazione del primato della religione, in quanto sapere legato alla sfera dell’ineffabile nonché in grado di tendere a un Bene assoluto e trascendente,  rispetto alla scienza, in quanto sapere legato alla sfera della limitante certezza matematico-sperimentale e in grado, tutt’al più, di raggiungere la relatività di un bene immanente e perciò effimero e transeunte. 
Dall’altro lato, però, L’esorcista solo in superficie delinea l’originario conflitto fra un Bene e un Male assoluti, perché in realtà – e questo è forse l’elemento che sconvolse così tanto gli spettatori di oltre quarant’anni fa e probabilmente anche parecchi di quelli d’oggi – tracce del Bene, di un Bene onnipervasivo e invincibile, portatore di salvezza e ritrovata armonia, nella pellicola di Friedkin, a ben guardare, non ve ne sono poi molte. Il Male fa grande sfoggio di potere, attraverso un pirotecnico e rutilante controllo dello spazio, accanto a un continuo ribaltamento delle leggi naturali: tale controllo, che diviene dominio sull’immagine e sui corpi in essa operanti, è ovviamente preponderante sullo schermo, è smaccatamente spettacolare e non può che incidere profondamente sull’animo dello spettatore.
​Certo, l’ostentazione del potere da parte del Maligno implica la necessità che la controparte sia altrettanto forte, che la Chiesa, quindi, venga supportata da tutto il consesso civile nella sua lotta contro un Male talmente estremo da sembrare invulnerabile, anziché osteggiata dalla laicizzazione della società e dallo scetticismo dei razionalisti. Il fatto è che il lavoro propagandistico pro fide – Si Deus pro nobis, quis contra nos?, secondo il motto di San Paolo, che Friedkin ribalta più volte beffardamente e sottilmente – procede sullo scivoloso sentiero della necessità di un intervento energico delle gerarchie ecclesiastiche, specialmente là dove il Male si annida più pericolosamente, e di certo, se il Male sarà assoluto e intoccabile dai saperi dell’uomo, solo la Chiesa dovrà e potrà occuparsene per sconfiggerlo. 
Il problema è che il Male che troneggia ne L’esorcista appare irriducibile, inarrestabile e soprattutto viene reso visivamente, per così dire, con troppo “entusiasmo”; perciò, dal punto di vista cinematografico, il Diavolo vince a mani basse. Per contro, i rappresentanti del Bene, umani troppo umani, colmi di dubbi e debolezze, sembrano in continuo affanno e, si badi, appaiono abbandonati a se stessi; solo il sacrificio personale di padre Merrin e quello ancor più tragico di padre Karras potranno portare a una parziale vittoria sul tremendo avversario. La solitudine e l’impotenza dell’uomo di fronte al Male costituiscono una sfuggente arma a doppio taglio per le intenzioni di Blatty, oltre che delle autorità ecclesiastiche coinvolte nella produzione, e risaltano in modo netto, tanto da diventare uno dei leitmotiv dell’horror che verrà, insieme, ovviamente, a tutto il corollario di temi presenti, come la possessione e la distruzione dall’interno del corpo, la presenza del Male nella dimensione quotidiana e familiare, la violazione, da parte del sovrannaturale, dell’estremo rifugio dell’uomo, cioè l’abitazione. 
In definitiva, ed è questo ciò che più interessa, L’esorcista lavora proprio a favore dell’altro horror, quello “laico”, quello in cui il Male è ben presente – si badi, nell’assenza perpetua di Dio o di un Bene altrettanto potente – sia nelle sue caratteristiche comuni e quotidiane sia in quelle metafisiche e universali, e l’orrore, nella pellicola di Friedkin, è sfacciatamente esposto, oltre ad essere indicato col suo nome più temibile, il Diavolo, e senza ombra di reticenza o dubbio. Da questo film in poi, il Male troverà molte facce e molti nomi, ma ricondurrà sempre a quello primordiale evocato ne L’esorcista e solo nei casi più felici sarà capace di riproporre la potenza malata e dirompente del capolavoro di Friedkin. 
A partire dall’opera prima di Romero, quindi con l’inizio dell’epoca d’oro della new wave horror americana, e poi con la “manovra a tenaglia” attuata da Friedkin con L’esorcista, l’uomo, con i propri limiti e i propri personalissimi fantasmi, inizia a essere l’assoluto protagonista della propria perifericità, tornando al centro del racconto dell’orrore per venirne fagocitato. Vedremo in seguito, in quell’unicum costituito dal corpus craveniano, come tali tematiche verranno riproposte, declinate, eluse, rielaborate, arricchite.

​(continua...)

10) Va detto che l’apripista, sotto questo profilo, era stato indubbiamente Tod Browning, col suo cinema unico e irripetibile, con Freaks (1932) e non solo, oltre ad alcuni mostri Universal o Hammer, come la creatura di Frankenstein o l’Uomo Lupo, che presentavano svariati caratteri dell’Untermensch.
11) Naturalmente va rimarcato, anche se è cosa arcinota, come la pellicola di Friedkin abbia generato un vero e proprio filone a se stante, relativamente al cinema dell’orrore, autonomo e avulso dagli orizzonti del New Horror.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Into The Pit

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A DARK SONG - La forza della disperazione

16/5/2017

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​“Poiché egli comanderà ai suoi angeli di proteggerti in tutte le tue vie.” Salmi, 91

Sophia Howard (Catherine Walker) è sconvolta dalla perdita del figlio. In cerca di risposte e incapace di superare il lutto, contatta Joseph Solomon (Steve Oram), un discutibile personaggio che ha però la fama di grande esperto di occultismo. Nonostante l'aspetto sciatto e il carattere indisponente, Sophia offre una consistente cifra a Joseph perché evochi lo spirito del suo bambino. Dopo un iniziale rifiuto, l'uomo accetta e si rintana con la donna in una casa sperduta nella campagna gallese, dando il via a un estenuante e oscuro rituale per aprire un varco con l'aldilà e mettere in comunicazione madre e figlio. Condizione essenziale affinché il tetro cerimoniale dia i suoi frutti è l'assoluto isolamento e, a questo scopo, Solomon traccia un cerchio attorno alla casa che, una volta chiuso, non potrà più essere oltrepassato se non quando l'evocazione avrà avuto successo. Sarà dunque impossibile in seguito avere ripensamenti. In precedenza Sophia ha osservato una rigorosissima dieta per depurarsi in vista del rito magico, che prevede numerosi passaggi di stanza in stanza, dove la donna dovrà dedicarsi a letture e recitare litanie all'interno di figure geometriche disegnate sul pavimento. 
Passano i mesi, ma nulla accade. Joseph sottopone allora la donna a ulteriori umiliazioni e privazioni (bagnandola in continuazione con acqua gelida, fino ad arrivare a farla quasi annegare in vasca da bagno) per purificarne il corpo e lo spirito. L'angoscia sale e la convivenza forzata diventa intollerabile. Sophia comincia a dubitare dei poteri soprannaturali dello squallido individuo, che pare più votato all'alcolismo che all'occultismo, ma in realtà l'evocazione fallisce proprio per colpa di una bugia da lei raccontata, dato che il vero scopo della seduta è quella di vendicarsi di coloro che le hanno ucciso il figlio. Un errore fatale, destinato a provocare conseguenze catastrofiche. In effetti qualcuno finalmente risponde al richiamo della madre disperata, ma non si tratta, purtroppo, di un bambino innocente.

Girato con un budget ridotto, A Dark Song è il primo lungometraggio del regista irlandese Liam Gavin. Presentato in numerosi festival di genere, ha ricevuto un'accoglienza favorevole, pure per merito dei due soli protagonisti, entrambi bravissimi, anche se colpisce in particolare la prova straordinaria di Catherine Walker. Le riprese sono state effettuate in circa venti giorni nei dintorni di Dublino (grazie al contributo dell'encomiabile Irish Film Board). Nonostante sia stato prodotto in economia, è un piccolo horror indipendente che sa tenere in ansia lo spettatore per più di un'ora, con picchi di sano terrore. Del resto, non mancano gli elementi per una buona riuscita, quali una madre disposta a qualsiasi cosa pur di rivedere il figlio, una casa isolata nella campagna, l'assenza di essere umani eccezion fatta per Sophia e Joseph, una sensazione claustrofobica causata da una vicenda che si svolge esclusivamente in ambienti chiusi e tetri, l'evocazione dell'occulto, una tocco di satanismo, la presenza di demoni. 
Siamo comunque al cospetto di un'opera prima e, in quanto tale, A Dark Song non può non macchiarsi di alcuni difetti. Tuttavia Gavin sa ben tratteggiare i sentimenti che tormentano Sophie, come il dolore per la perdita dell'amato figlio, l'esasperazione e la frustrazione che animano l'attesa dell'apparizione, la paura che il rituale non si compia, ma anche il disgusto per l'improbabile stregone Solomon. Stupisce perciò, a maggior ragione, l'assurda caduta di stile nel finale, che cambia le carte in tavola e fornisce una chiave di lettura improntata sulla salvezza e sulla pace interiore, che si raggiungono soltanto attraverso il perdono. Dopo tanto buio, l'intravedere la luce va di solito interpretato come un segnale positivo. Ma in questo caso sarebbe stato molto meglio rimanere avvolti dalle tenebre. Peccato.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Into the Pit


Scheda tecnica 

Titolo originale: A Dark Song
Anno: Irlanda, 2016
Regia: Liam Gavin 
Sceneggiatura: Liam Gavin
Fotografia:  Cathal Watters 
Montaggio: Anna Maria O'Flanagan 
Musica: Ray Harman
Durata: 99'
Attori: Steve Oram, Catherine Walker.

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UNDER THE SHADOW (L'ombra della paura) - Un demone alla porta

15/2/2017

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​Iran, anni Ottanta. Durante il conflitto con l'Iraq, nella capitale Teheran vive Sideh (Narges Rashidi), giovane donna colta e indipendente, con il marito Iraj (Bobby Naderi) e la figlioletta Dorsa (Avin Manshadi). La routine in città prosegue tra allarmi di bombardamenti aerei e possibili minacce di lanci missilistici da parte degli Iracheni.  Quando risuona una sirena, Sideh, la sua famiglia e gli altri inquilini si rifugiano nei sotterranei del loro palazzo nell’attesa che la minaccia cessi. A una condizione già di per sé insostenibile sotto l'aspetto psicologico, si aggiungono per Sideh alcune questioni personali irrisolte, prima tra tutte la volontà di riprendere gli studi di medicina. Richiesta che il regime impostosi dopo la rivoluzione culturale islamica del 1979 non può accettare, vista la sua militanza in gruppi radicali di sinistra all'epoca dell'università.
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A un certo punto Iraj riceve la chiamata per il fronte, e la situazione precipita. Una volta partito, l'uomo telefona alla moglie per chiederle di lasciare una Teheran ormai insicura, ma Sideh non vuole abbandonare la capitale per andare a vivere dai genitori del marito. Il suo atteggiamento crea qualche incomprensione con Iraj, che la supplica di pensare al bene della figlia. Come se non bastasse, la bambina di notte si sveglia terrorizzata a causa dei racconti di Mehdi, un ragazzino vicino di casa che ha perduto entrambi i genitori in guerra. Traumatizzato, non proferisce parola, anche se Dorsa sostiene che proprio Mehdi le ha sussurrato in un orecchio che stanno arrivando i jinn*. La razionale Sideh, che non crede alle creature soprannaturali della tradizione popolare, sottovaluta le paure della piccola. 

*I jinn sono entità soprannaturali appartenenti alla cultura preislamica (pur essendo menzionati nel Corano, che li definisce spiriti, spiritelli, demoni). Paragonabili anche ai geni e ai folletti, sono di solito creature potenti e maligne. In Under the Shadow, una vicina di casa riferisce a Sideh che se un jinn si appropria di un oggetto personale, non si potrà mai più sfuggirgli, perché questi saprà sempre dove rintracciare l'uomo o la donna a cui l'oggetto stesso appartiene.

Il loro rapporto si complica ancora di più il giorno in cui, mentre sta tentando di ascoltare le poche notizie attendili dalle disturbate frequenze di una radio straniera, la figlia le si avvicina per giocare. Stressata, frustata e sotto pressione, la donna finisce tuttavia per innervosirsi e la tratta in malo modo, strappandole dalle mani l'amatissima bambola Kima. Forse è un gesto di poco conto, ma l'episodio rappresenta in realtà un punto di svolta per l'intera vicenda. 
Quando infatti un missile colpisce l'ultimo piano del loro palazzo (causando un morto), gli inquilini cominciano a partire in massa. Dorsa, che durante l'attacco ha perso i sensi, si sveglia urlando, raccontando di aver visto i jinn, penetrati in casa portati dall'arma che ha sfondato il tetto. Sideh si arrende e decide di fuggire da Teheran, ma Kima non si trova da nessuna parte e la bambina si rifiuta di andarsene senza bambola. Disperata per la scomparsa, Dorsa si ammala, non dorme, convinta che uno spirito abbia rapito il suo giocattolo preferito. Per di più accusa la madre, che ancora si ostina a non crederle e che si è rivolta invece a un amico medico per un parere scientifico, di non volerla aiutare nella ricerca. Giunge però il momento in cui la razionalità non è in grado di spiegare quanto accade intorno a sé e, meglio tardi che mai, anche a Sideh capita di percepire, e di notare, inquietanti presenze soprannaturali nell'appartamento, come una figura avvolta in un chador: una signora (così la chiama Dorsa), che le appare se è sola in casa, per parlarle di Kima.
Nel frattempo il condominio si è svuotato, non vi rimangono che mamma e figlia. Sono spaventate a morte. E mentre soffia il vento, i jinn si spostano in cerca di persone da possedere.

Under the Shadow, L'ombra della paura in italiano, primo lungometraggio del regista di origine iraniana Babak Anvari, si rivela una piacevolissima sorpresa, senza dubbio degna di visione. Merito di un sapiente dosaggio che miscela gli elementi classici del genere horror al dramma psicologico di una protagonista in piena crisi esistenziale. Sarebbe comunque impossibile comprenderne appieno le angosce, se Anvari non avesse inserito la narrazione nel pesantissimo contesto storico della rivoluzione islamica in Iran (evento di portata epocale, di fondamentale importanza per il Paese e per il mondo intero). 
Con Under the Shadow, premiato ai Bafta come migliore opera prima, siamo al cospetto di un horror privo di effetti speciali, girato quasi esclusivamente in interni, incentrato sull'evoluzione del rapporto tra Sideh e Dorsa e sull'analisi delle loro ansie e nevrosi. Non è un caso poi che entrambe dormano poco e che la mancanza di sonno diventi dunque un ulteriore fattore di disturbo, che complica uno scenario in cui la tensione già si taglia con il coltello. Non aiuta nemmeno la sensazione claustrofobica che si prova vivendo in un ambiente quasi “sigillato”, dove pure le finestre sono sprangate. Basta allora un nulla, il vento che sposta una tenda (sta forse entrando un jinn?) o una bambola di pezza ritrovata a brandelli, perché lo spettatore sobbalzi sulla sedia. Passa persino in secondo piano il fatto che il tetto del palazzo sia stato sventrato da un'arma letale e che al di fuori dell'edificio sia in corso una guerra, dato che pubblico si concentra piuttosto sul conflitto in atto tra madre e figlia. 
Se Sideh sospetta di aver deluso le aspettative del marito, che magari la considera incapace di occuparsi di Dorsa, la bambina rincara la dose rinfacciandole le parole della “signora”, che in sostanza ribadisce lo stesso concetto. Il senso di inadeguatezza della donna non si ferma alla messa in discussione del suo ruolo genitoriale. Si intuisce quindi che la scelta di riprendere gli studi in medicina sia stata dettata dalla volontà di esaudire il desiderio della mamma defunta. E sembra plausibile che il rifiuto di recarsi dai suoceri dipenda dal timore di essere sottoposta al giudizio di una famiglia ancorata alla tradizione. 
Sideh segue usi e costumi occidentali: si sfoga seguendo il famoso corso d'aerobica di Jane Fonda registrato su una proibitissima videocassetta e, tra gli inquilini del condominio, è l'unica persona di sesso femminile a guidare un'auto. Naturale perciò che mal digerisca le regole imposte dal nuovo regime, che ha steso un velo “pietoso” su tutto ciò che riguarda appunto l'Occidente. Ecco che emergono le probabili motivazioni che le impediscono, almeno in un primo momento, di abbandonare il suo appartamento, anche se infestato da un demone. Soltanto all'interno di quelle mura può sentirsi libera e protetta, lontana da sguardi diffidenti. Un paradosso? Può darsi. 
Un episodio in particolare può dare sostegno a una tesi che ha il sapore di un'assurdità. Una notte Sideh scappa in strada con Dorsa tra le braccia dimenticando il velo. La polizia la ferma domandandole se crede di essere in Svizzera e la conduce da un superiore. Rischia addirittura le frustate, ma per fortuna ottiene la grazia rimediando un chador e un predicozzo, per rammentarle che una donna dovrebbe anzitutto temere di esporsi. Tornata a casa, vede la sua immagine avvolta nel velo scuro riflessa in uno specchio e, non riconoscendosi, si spaventa e grida. 

Un'ultima considerazione: Babak Anvari ha citato quale fonte di ispirazione L'inquilino del terzo piano di Polanski, nondimeno vale la pena ricordare alcune altre opere cinematografiche che trattano il rapporto madre-figli in chiave horror, come Babadook di Jennifer Kent, Dark Water di Hideo Nakata, La madre di Andres Muschietti (prodotto da Guillermo del Toro) e inoltre, volendo, Madre di Bong Joon-ho e Confessions di Tetsuya Nakashima. Per chi desiderasse recuperare il film del regista iraniano, Under the Shadow è disponibile in streaming su Netflix.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Into The Pit


Scheda tecnica 

Titolo originale: زیر سایه‎‎  Under The Shadow 
Anno: 2016
Regia: Babak Anvari
Sceneggiatura: Babak Anvari
Fotografia: Kit Fraser
Montaggio: Christopher Barwell
Musica: Gavin Cullen, Will McGillivray 
Durata: 84'
Attori: Narges Rashidi, Avin Manshadi, Bobby Naderi, Arash Marandi, Ray Haratian, Bijan Daneshmand. 

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THE WITCH – Strangers in a strange land

12/5/2016

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Was many years ago that I left home and came this way
I was a young man, full of hope and dreams
But now it seems to me that all is lost and
nothing gained
Sometimes things ain't what they seem
No brave new world, no brave new world […]
Stranger in a strange land
Land of ice and snow
Trapped inside this prison
Lost and far from home
​
(Iron Maiden – Stranger in a Strange Land – dall’album Somewhere in Time, 1986)


Il primo lungometraggio di Robert Eggers ha fatto il botto, e dopo aver vinto il premio per la miglior regia (categoria U. S. Dramatic) al Sundance del 2015, con notevoli riscontri anche fra il pubblico del festival, si avvia a essere considerato uno dei migliori horror di questi anni, ricchi di titoli ma non di rado deficitari di idee. 
Quando un film attecchisce pressoché istantaneamente all’immaginario del pubblico, è probabile che si tratti di un’opera capace di insinuarsi sottopelle, di innestarsi, prima che in ogni altra dimensione dell’interiorità, in quella posta appena al di sotto della soglia della coscienza, di regalare un’immagine precisa, ancorché deforme, o forse esatta proprio perché tale, degli strati più profondi e riposti dell’inconscio individuale e collettivo degli astanti. The Witch (o magari The VVitch, con la sommità centrale della “W” attraversata, forse per motivi simbolici, da uno spazio vuoto, come lasciano intuire i caratteri che marcano i titoli di testa e le varie locandine pubblicitarie del film) funziona prima di tutto come grimaldello della psiche, per poi defluirvi in guisa di fiume oscuro, le cui acque limacciose risultano abitate dai fantasmi e dalle (p)ossessioni di cui è preda l’uomo, perlomeno quello cresciuto nel timore del peccato, della colpa e di una punizione sovrannaturale.
Pur aderendo in superficie a un canovaccio narrativo che riprende parecchie situazioni-(arche)tipo dell’horror moderno e contemporaneo (la dimensione dell’home invasion, del survival, della possessione maligna) e pur sviluppando alcuni elementi essenziali del racconto a partire dal conflitto uomo-natura, un tema spesso presente nel cinema pressoché di ogni epoca, TW riesce a marchiare lo sguardo e a incastonarsi nella memoria per la magmatica stratificazione di temi e suggestioni; per la capacità di restituire un orizzonte storico e culturale assai distante nel tempo, eppure prossimo e per molti versi familiare; per l’abilità con cui gli elementi perturbanti riescono a innestarsi nel tessuto connettivo di una vicenda già di per se stessa estrema e allucinatoria; per una non comune maestria nel tenere le redini di una narrazione a più livelli, senza mai scadere nella retorica o nella banalità; infine per la padronanza nell’armonizzare gli elementi visuali con quelli acustici, intrecciando un tappeto percettivo assai complesso, nel quale un peculiare elemento significante è costituito dalla lingua parlata, un inglese secentesco ricco di intonazioni ed espressioni desuete e perciò stesso assai evocative. Un’alchimia pressoché perfetta e frutto di 5 anni di ricerche, studi e approfondimenti di carattere storico, aneddotico, folclorico, ambientale, che si sono poi risolti in 26 giorni appena di riprese.
La complessità dell’intreccio tematico e narrativo di TW emerge, fondamentalmente, dai due macro-insiemi di duali contrapposti che lo caratterizzano: Vecchio Mondo/Nuovo Mondo, Old England/New England, società-comunità/famiglia, divino/demoniaco, per ciò che attiene al primo; cultura/natura (anche spartiacque simbolico fra il primo e il secondo insieme), maschile/femminile, età adulta/fanciullezza, legge/pulsione, certezza fideistica/dubbio, familiare/perturbante, per ciò che attiene al secondo. Se il primo gruppo svolge la funzione di delineare lo sfondo storico e di garantire lo sviluppo tematico del film, il secondo si assume invece il compito di creare le premesse per la progressione drammaturgica.
​Entrambi, peraltro, muovono lo sviluppo del racconto e risultano strettamente complementari, in modo tale da salvaguardare la compattezza e l’unità dell’opera, mantenendosi sempre reciprocamente aperti e comunicanti, anche perché senza l’uno, l’altro faticherebbe ad affiorare. Va notato anche che, se nel secondo insieme i due estremi della dicotomia sono compresenti, nel primo, invece, uno dei due è pressoché sempre assente, eppure indispensabile, nella sua assenza, per far scaturire il senso del suo opposto.

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TW è ambientato nel XVII secolo, all’alba quindi della colonizzazione anglofona dei territori costieri atlantici dell’America del Nord e cioè nell’epoca in cui i primi coloni-pellegrini di ispirazione religiosa calvinista, i Puritani, iniziavano a prendere le distanze, in tutti i sensi, dalla cara, vecchia e soprattutto corrotta Inghilterra (totalmente mancante nelle ambientazioni del film e tutt’al più richiamata come lontano ricordo, nel tempo e nello spazio), alla ricerca di un nuovo inizio, di una nuova Terra Promessa non ancora pervertita dalle derive della Chiesa Anglicana e di quella Cattolica. New England/New World come New Eden. 
La denominazione “New England” contiene in sé, però, l’ambiguità e la contraddizione di un proiettarsi avanti pur guardando indietro, della ricerca di un Nuovo le cui radici sono già stabilite e consolidate, segnando, in definitiva, la continuità fra tale Nuovo e il Vecchio, oltre al sottendersi di un atteggiamento irriducibilmente colonialista e conservatore, anziché l’affermarsi di una effettiva apertura verso un mondo estraneo e marcato da un’alterità irriducibile. Con queste premesse, è inevitabile che le Terre Selvagge si ergano come la minaccia dell’ignoto di fronte a chi ripone esclusivamente in se stesso e nel proprio dio la cieca fiducia di una superiorità morale meramente ipotetica.
È dal manifestarsi di tale presunta superiorità che scaturisce lo scontro in apertura del film, fra il capofamiglia William (Ralph Ineson) e la comunità di cui è cittadino, in quanto sia l’uno sia l’altra ritengono di perseguire, ciascuno a modo proprio e secondo parametri difformi, gli autentici precetti delle Sacre Scritture. William, assieme alla sua famiglia, viene perciò esiliato dal piccolo villaggio in cui risiede. A partire dall’allontanamento di William e dei suoi congiunti (la moglie Katherine, la primogenita Thomasin, il secondogenito Caleb e i due gemelli Mercy e Jonas), scompare la dimensione sociale aggregata dall’orizzonte del film e rimane esclusivamente quella nucleare della famiglia, costretta a conquistarsi uno spazio in cui sopravvivere all’interno dei boschi ancora inesplorati del New England (1). 

1) Il film, per motivi prettamente economici, risulta girato nella zona della località selvaggia di Kiosk, Ontario, in Canada, un’area che, anche per le difficoltà ambientali, non risultava in cima alle preferenze di Eggers, che avrebbe voluto invece lavorare proprio nel New England, terra nella quale ha trascorso la fanciullezza.

Assieme alla dimensione comunitaria si dissolve anche quella civilizzata, e i membri della famiglia di William sono costretti a confrontarsi, innanzitutto, con l’asperità di un territorio impervio e inospitale, che contribuirà in modo determinante alla loro sconfitta. Il progredire delle contrarietà, la disfatta nel tentativo di domare una realtà indomabile – “We will conquer this wilderness. It will not consume us” dice William al secondogenito Caleb, all’apparire delle prime e già insormontabili difficoltà – e l’impossibilità di assumere il controllo, innanzitutto topografico, di un ambiente che sembra un immenso labirinto nascono in primo luogo dalla potenza della Natura, di fronte alla quale l’uomo bianco e il suo dio sembrano dapprima vacillare, per poi cedere rovinosamente. Dall’impossibilità di sopravvivere in un contesto tanto estremo scaturiscono quindi, come inevitabile conseguenza, le conflittualità latenti, che opereranno come un invisibile morbo all’interno del nucleo familiare, conducendolo alla distruzione. 
Due sono i primi foschi presagi della tragedia imminente, cui ne seguiranno parecchi altri, in un crescendo di inquietudine magistralmente orchestrato da Eggers: il nuovo nato, il piccolo Samuel, scompare misteriosamente (2) e il raccolto, su cui William aveva fatto affidamento per l’inverno, marcisce. La Wilderness non sembra soggiogabile, perciò l’uomo dovrà simbolicamente regredire alla condizione di cacciatore/predatore, semplicemente per non morire di fame, primo passo indietro rispetto alla dimensione civilizzata da agricoltore stanziale. 

2) Eggers mostra, in due sequenze consecutive, la propria abilità registica, giocando d’ellissi. Dapprima riprende Thomasin, la primogenita di William, mentre gioca con Samuel, che letteralmente le sparisce di sotto gli occhi, e poi, dopo aver mostrato la ragazza mentre si inoltra nella macchia alla ricerca del fratellino, con un magistrale stacco che annichilisce l’orientamento spazio-temporale, introduce lo sguardo nella spelonca in cui una vecchia e cadente megera sembra occuparsi del piccolo, dapprima con apparente amorevolezza, anche se poi fa capolino una lama; un altro stacco mostra la cariatide mentre ricopre il suo corpo di una viscida sostanza rossastra, il cui colore è acuito dal tipo d’illuminazione dell’ambiente. Niente di più è dato alla conoscenza dello spettatore, anche se parecchio riceve la sua immaginazione.  

Da qui in poi, ogni momento della vita quotidiana della famiglia diviene occasione di conflitto, mentre i segnali inquietanti si moltiplicano. Iniziano le prime controversie legate all’età e al sesso dei componenti del nucleo, con i due genitori a rappresentare l’autorità della legge (sia pure con dissapori interni alla coppia, specie per motivi legati al rapporto privilegiato fra William e la figlia maggiore Thomasin, che scatenano la gelosia latente della moglie di William, Katherine), che per chiari motivi culturali si configura come legge divina, precetto biblico, e i quattro ragazzi a incarnare in varie forme la dimensione di una pulsione repressa, quindi sotterraneamente coltivata e pronta a erompere, talora con intensità brutale. 
Mentre i due fanciulli più grandi, Thomasin (la bravissima e magnifica Anya Taylor-Joy) e Caleb (Harvey Scrimshaw), sembrano adombrare una recondita passione incestuosa, motivata anche dall’assenza di altri coetanei – uno degli effetti della solitudine e della lontananza dalla dimensione della vita comunitaria – i due gemelli più giovani sviluppano un isolamento dalla realtà familiare, vivendo appartati, covando un sordo rancore specie verso la sorella più grande, e soprattutto trasformando i loro passatempi in occasioni per comunicare e giocare col nero caprone della fattoria, Black Phillip, la cui figura assumerà ben presto inquietanti contorni sovrannaturali, anche se non attraverso il ricorso alle possibilità enfatizzanti e spettacolari del visivo, bensì grazie alla sua capacità evocativa e allusiva, specie per l’immaginario di chi ha familiarità con certi arcaici accostamenti simbolici. 
Naturalmente, essendo la famiglia di William l’unica comunità presente in quel contesto ambientale, sarà al suo interno che i suoi membri cercheranno la causa delle loro sciagure, il capro espiatorio da sacrificare per mondarsi delle loro colpe innanzi al loro Dio. La parola "strega" – dotata all’epoca, evidentemente, di un certo potere, oltre che terrorizzante, anche e soprattutto taumaturgico e apotropaico (una volta che il Male viene identificato tramite un nome e un volto, fa meno paura), dato che consentiva, agli sprovveduti fedeli delle comunità cristiane dell’epoca e alle molto meno sprovvedute autorità che li governavano, di individuare la causa del Male con certezza, per poi liberarsene, attraverso il rito purificatore della messa a morte – comincia a rimbalzare di bocca in bocca, fra i membri della famiglia, e sembra condurre a Thomasin, la quale a sua volta muove ai gemelli la medesima accusa. Nessuno di loro sarà più in grado di uscire dal circolo vizioso delle accuse reciproche, che li accompagnerà fino al tragico epilogo.

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​La religione, effettiva struttura portante del vivere collettivo dei coloni di quell’epoca e di quelle latitudini, che innerva ogni pratica, ogni azione, ogni pensiero e intendimento, al di fuori della società civile diviene una sovrastruttura, un orpello, una folle catena che inibisce i movimenti, obnubila i pensieri ed esaspera gli animi senza recare conforto. Ogni preghiera rimane inascoltata, per divenire, via via che il tempo trascorre e la situazione degenera, la folle litania di anime perdute, mentre ciò che era verità di fede trascolora nella superstizione, la superstizione del divino. 
Il Soffio Vitale della Wilderness, cioè l’autentico sovrano di quei luoghi (che solo dei poveri di spirito che non vedranno il Regno dei Cieli chiamano, con fantasia assai limitata, Satana), anziché sottomettersi alla debole mano di quegli esseri umani, penetra sottilmente nelle loro fragili anime e attraversa le altrettanto fragili mura della loro casa, per sconquassarne le vite, assieme alle loro stolide credenze. L’uomo di fede conoscerà allora, nella sua forma più autentica, la dimensione della solitudine di fronte all’incommensurabilità della Natura, scoprendo quanto debole e impotente egli possa essere, qualora quel Dio in cui aveva riposto tutte le proprie speranze si riveli un’illusione.
Eggers gioca sagacemente coi luoghi comuni del sacro, della superstizione e del folclore (non a caso, il sottotitolo del film è A New-England Folktale), esprimendo l’orrore senza mai scadere nel grottesco o rimestare nel ripugnante, ma lavorando con sapienza i suoi personaggi ai fianchi e suggerendo un’angoscia che abita le pieghe riposte dell’oscurità, sia quella dell’anima sia quella dell’immagine (illuminata pressoché sempre da luci naturali, ragion per cui, nelle scene notturne o con fioche fonti di chiarore, il buio si impadronisce sovente del visivo, risucchiando i personaggi). 
TW, oltre a delinearsi come horror raffinato, pungente e crudele, si rivela in modo esplicito come film potentemente politico e, sia pure parzialmente, anche laico, giacché affronta i temi nodali dell’emancipazione umana dalle catene dell’adesione acritica ai dogmi e ai rigidi dettami di un credo restrittivo e malriposto, perché estende il tema dell’emancipazione alla figura femminile centrale, cioè Thomasin, l’unica della famiglia a salvarsi dalla distruzione, divenendo parte della congregazione di sacerdotesse della Wilderness (streghe, secondo l’accezione comunemente diffusa), perché infine getta in faccia allo spettatore le grevi dinamiche esistenziali che avvolgono la vita di una famiglia di ottusi integralisti religiosi. 
La parte finale può forse dare l’impressione di una certa collocazione ideologica (quindi lontana da un atteggiamento autenticamente laico) anti-cristiana (non è un mistero il successo che il film ha riscosso presso alcune congregazioni sataniste, ad esempio il Satanic Temple di Detroit), anche se marcata da un profondo spirito libertario (il libro, la parola, la conoscenza e l’affrancamento dai vincoli, prospettati dalla voce suadente dello Spirito della Wilderness a Thomasin, si ritrovano giocoforza contrapposti alla sottomissione, all’oscurantismo, alla regola), ma in The Witch non è l’immagine a essere ideologica/ideologizzata, bensì, tutt’al più, l’occhio di chi guarda, qualsiasi sia la propria divinità di riferimento.

Gian Giacomo Petrone 

Sezione di riferimento: Into the Pit


Scheda tecnica

Anno: 2015
Durata: 89’
Regia, soggetto e sceneggiatura: Robert Eggers
Fotografia: Jarin Blaschke
Musiche: Mark Korven
Montaggio: Louise Ford 
Interpreti principali: Anya Taylor-Joy, Ralph Ineson, Kate Dickie, Harvey Scrimshaw

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WES CRAVEN - Leaving Elm Street

30/8/2015

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Di tutti i Masters of Horror che hanno contribuito a rendere grande il genere nel periodo a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, Wes Craven è stato certamente uno dei più prolifici. Venticinque titoli tra cinema e televisione, da L’ultima casa a sinistra (1972) fino a Scream 4 (2011), attraverso parte dei quali il regista di Cleveland ha raccontato il lato oscuro e rimosso dell’America, mettendo nero su bianco gli incubi di un’intera generazione (anche letteralmente: si pensi alla saga di Nightmare) come mai il cinema aveva osato fare prima di allora.
Il suo è stato un viaggio lungo quattro decenni, percorso in compagnia di amici e colleghi quali George A. Romero, John Carpenter, Tobe Hooper, ma anche Joe Dante, Brian Yuzna, Sam Raimi, Clive Barker, solamente per citarne alcuni tra i più importanti. Nomi che hanno avuto l’ardire di raccontare la propria epoca filtrandola attraverso il punto di vista sporco e scomodo dell’horror, talvolta andando incontro a critiche feroci e a incomprensioni, ma sempre mantenendo quella personalità di sguardo che ai nostri occhi, oggi, li rende fondamentali.

Analizzando tutte queste filmografie nella loro interezza, quella di Craven non è stata certamente la migliore: troppi i passi falsi, troppi i brutti film, soprattutto nell’ultima parte della carriera. L’ultimo titolo veramente all’altezza della sua fama, almeno a parere di chi scrive, è Scream, e risale ormai già a diciannove anni fa: da allora Craven ha proseguito questa saga ripiegandone i contenuti su se stessi (i primi due sequel uscirono più o meno in concomitanza con la celebre parodia Scary Movie, perdendo il confronto) e mettendo poi la propria firma su progetti anonimi (Cursed – Il maleficio) o addirittura pessimi (Red Eye, My Soul to Take). Fino a Scream 4, appunto: un capitolo con il quale è tornato a raccogliere qualche consenso, nonostante la natura innegabilmente fuori tempo massimo di un film che fa fatica a rapportarsi concretamente con la contemporaneità, insistendo anacronisticamente su una componente metacinematografica ormai di presa sin troppo facile.
Ma non è sempre stato così: se oggi ricordiamo e celebriamo Wes Craven è perché c’è stato un tempo in cui la sua opera ha davvero lasciato il segno, tracciando una linea di confine tra un prima e un dopo e arrivando a elevare un genere da sempre considerato di serie B. Dunque poco importa se quello che è venuto poi non si è dimostrato all’altezza. Craven è riuscito nell’impresa di proseguire e fare proprio il discorso iniziato da Romero nel 1968 con La notte dei morti viventi: in maniera seconda solamente al Tobe Hooper di Non aprite quella porta e Quel motel vicino alla palude, ha messo in scena gli orrori della provincia che fino a quel momento erano stati occultati dietro il modello della perfetta famiglia americana mostrato dalla televisione sin dagli anni Cinquanta. Lo ha fatto dapprima rivisitando La fontana della vergine di Bergman in chiave exploitation (L’ultima casa a sinistra), poi con il successo di Le colline hanno gli occhi; ma non è certamente banale né riduttivo ribadire come il suo nome sarà sempre indissolubilmente legato a Freddy Krueger, la sua creatura più famosa e riuscita: con Nightmare – Dal profondo della notte Craven ha posto una pietra miliare difficilmente eguagliabile, creando praticamente dal nulla una figura di villain che si è rivelata essere la più radicata nell’immaginario collettivo dai tempi dei mostri classici della Universal. Un film che è riuscito come pochi altri a rappresentare il senso di fragilità di una generazione intera, punita a causa di colpe che non gli appartengono e colpita nell’unica dimensione fino a quel momento considerata inespugnabile, ovvero quella del sogno.
Non sempre Craven è riuscito a mantenere il controllo creativo e produttivo degli altri capitoli della saga, ma è comunque a lui che si deve la riuscita generale di una serie che ha raccontato in diretta la caduta libera di un decennio, gli anni Ottanta, in cui tutti erano talmente sopraffatti dal proprio edonismo da non riuscire ad accorgersi che la catastrofe era già cominciata. È sempre in quegli anni che troviamo anche il bellissimo Il serpente e l’arcobaleno, oltre ad alcuni prodotti minori da non sottovalutare come Dovevi essere morta, Sotto Shock e, soprattutto, il generalmente poco considerato La casa nera (anonimo titolo italiano per il ben più suggestivo The People Under the Stairs), parabola che più esplicita non si potrebbe sull’America repubblicana dell’era Reagan.

Mentre negli anni Novanta il genere comincia ad arrancare, perdendo per strada le carriere di registi un tempo interessanti come Hooper e Yuzna o condannandone altre all’oblio (Romero), Craven si dimostra incredibilmente al passo coi tempi riflettendo sul ruolo dell’horror nella società, mettendosi in gioco addirittura in prima persona. Nightmare – Nuovo incubo non è solamente l’occasione per riappropriarsi del personaggio di Freddy Krueger, ma è anche una riflessione vertiginosa sulla natura del proprio lavoro di artista, in un mondo dominato dai media in cui tutto sembra pronto per essere trasformato in icona (ben prima dell’era di internet).
Il primo Scream arriva due anni più tardi e prosegue in questa direzione in maniera certamente meno efficace; eppure è un film che rivisto oggi appare molto meno datato di quanto si potesse temere, oltre a essere il prologo (inconsapevolmente?) ideale per tutto quello che l’horror sarebbe divenuto poi. Con la morte di Wes Craven quindi non se ne va soltanto una figura fondamentale per qualsiasi appassionato di cinema horror (sarebbe quantomeno riduttivo limitarsi a questo), ma soprattutto un regista che non ha mai smesso di interrogarsi sul rapporto tra la realtà e la finzione generata da essa, rivendicando con forza la componente sociale di un genere che ha dimostrato la propria statura titanica in ognuno di quei momenti in cui si è fatto portavoce di un disagio profondo e ben radicato. Ecco perché tutti noi gli dobbiamo moltissimo.  

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Into The Pit

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BURYING THE EX - A volte ritornano

21/7/2015

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A volte ritornano e c’è solo da esserne lieti. Già perché di registi come Joe Dante non ne nascono certo tutti i giorni, ed è un peccato vederlo sempre meno attivo, con appena tre titoli diretti negli ultimi quindici anni. Purtroppo non c’è da stupirsi se si considera che altri due grandi cineasti americani come Brian De Palma, di cui qui da noi è ancora tristemente inedito il suo ultimo film (Passion) del 2012, e John Carpenter, che nel frattempo ha firmato come compositore il suo primo album di inediti intitolato Lost Themes, sembrano ormai essere stati quasi dimenticati dall’industria hollywoodiana.

Presentato lo scorso anno a Venezia ma ancora in attesa di una distribuzione italiana, Burying the ex è una commedia horror impregnata di cinefilia e grande amore per il cinema di serie b, compreso quello italiano degli anni ’60 e ’70, che da sempre contraddistingue e caratterizza la poetica di Dante.
Max, ragazzo placido e mite impiegato in un negozio di articoli e gadget per cultori del genere horror, convive con Evelyn, una ragazza fissata con la cucina vegana e con l’ecologia. I due, fatta eccezione per un’ottima intesa sessuale, hanno davvero poco in comune e Max sente sempre più il bisogno di uscire fuori da un ménage asfittico che lo sta logorando. Quando sembra aver preso il coraggio per affrontare a viso aperto Evelyn accade un fatto tragico che risolve in modo netto e traumatico la situazione. Dopo aver trascorso un brutto periodo Max conosce Olivia, una ragazza bella e simpatica che condivide i suoi stessi interessi, e tra i due scatta subito la scintilla. Purtroppo per lui i guai non sono ancora finiti, perché dal suo recente passato riemerge (o forse sarebbe meglio dire risorge) Evelyn, che proprio non ne vuol sapere di uscire dalla sua vita.

Qualcuno ha storto il naso ed è rimasto deluso di fronte all’ultimo lavoro di Joe Dante, senza rendersi conto che rispecchia in pieno il suo percorso cinematografico, diventato un po’ tortuoso e accidentato negli ultimi tempi rispetto agli anni ’80 e ’90, in cui aveva realizzato dei veri e propri gioielli come L’ululato, Gremlins, Salto nel buio e Matinee. Burying the ex, bonaria satira che prende di mira il veganismo nei suoi aspetti più intransigenti e fanatici, riflettendo al contempo sugli effetti deleteri legati alla promessa di un amore eterno, deve essere considerato per quello che è, ovvero un innocuo ma godibile divertissement girato in poche settimane da un autore ben consapevole di avere a disposizione sempre meno mezzi e risorse per i suoi nuovi progetti.
Scritto da Alan Trezza, che per l’occasione ha ripreso – ampliandolo – il soggetto del suo omonimo corto di qualche anno prima che aveva anche diretto, Burying the ex si avvale di diverse trovate ironiche e divertenti, con più di una battuta che arriva puntualmente a segno e rende la visione del film piacevole e scorrevole. A funzionare a dovere è soprattutto il cast femminile, composto da Ashley Greene e Alexandra Daddario, perfette e brillanti nei rispettivi ruoli di Evelyn e Olivia. Non si può dire altrettanto delle controparti maschili, dove accanto a un funzionale Anton Yelchin nel ruolo di Max troviamo come spalla comica Oliver Cooper nei panni dell’invadente fratellastro, una sorta di clone sbiadito e fastidioso di Seth Rogen che sembra uscito fuori da uno dei tanti titoli della factory di Judd Apatow.
Infarcito di rimandi e citazioni cinefile che manderanno in visibilio i fan dei film del genere, a partire dai poster in italiano che campeggiano nella casa di Max (alcuni veri, altri inventati di sana pianta) o dal nome di una delle protagoniste che omaggia apertamente La notte che Evelyn uscì dalla tomba del nostro Emilio P. Miraglia, Burying the ex porta ben impresso il riconoscibilissimo marchio di fabbrica del suo autore, nonostante sia privo della sua ispirazione più caustica, anarchica e corrosiva.
Teniamocelo stretto il “vecchio” Joe Dante, e auguriamogli di cuore di riuscire ancora a realizzare, tra un episodio di una serie tv e l’altra, dove viene impiegato come un mestierante qualsiasi, qualche pellicola ironica e graffiante come quelle che ci hanno accompagnato dalla fine degli anni ’70 ad oggi.

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Into The Pit


Scheda tecnica

Titolo originale: Burying the ex
Regia: Joe Dante
Sceneggiatura: Alan Trezza
Fotografia: Jonathan Hall
Anno: 2014
Durata: 89’
Interpreti principali: Anton Yelchin, Ashley Greene, Alexandra Daddario

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    A Girl Walks Home Alone At Night
    Aharon Keshales
    Andrew Parkinson
    Arnold Schwarzenegger
    Barry Levinson
    Begotten
    Berberian Sound Studio
    Boris Karloff
    Brian Yuzna
    Buddy Giovinazzo
    Burying The Ex
    Byzantium
    Carnival Of Souls
    Catriona Maccoll
    Cult Da Riscoprire
    David Cronenberg
    Dolls
    Donald Pleasance
    Douglas Buck
    Elias Merhige
    Existenz
    Gemma Arterton
    George Romero
    Horror Americano
    Horror Canadese
    Horror Orientale
    Howard Philip Lovecraft
    Il Serpente E L'arcobaleno
    Il Signore Del Male
    Jack Arnold
    Jeepers Creepers
    Jennifer Jason Leigh
    Joe Dante
    John Carpenter
    Jude Law
    Kalevet
    La Casa Nera
    La Notte Dei Morti Viventi
    Le Colline Hanno Gli Occhi
    L'esorcista
    Little Deaths
    L'ultima Casa A Sinistra
    L'ultimo Uomo Della Terra
    Maggie
    Navot Papushado
    Neil Jordan
    Nightmare
    Oscar Insanguinato
    Peter Strickland
    Rabies
    Radiazioni Bx
    Ray Milland
    Richard Matheson
    Richard Stanley
    Robert Eggers
    Robert Englund
    Roger Corman
    Scream
    Sean Hogan
    Simon Rumley
    Society - The Horror
    Stuart Gordon
    Takashi Miike
    Theatre Of Blood
    The Bay
    The Children
    The Sacrament
    The Theatre Bizarre
    The Whisperer In Darkness
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    Under The Shadow
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