È proprio dal punto di vista linguistico che Begotten, a primo acchito incomprensibile, ci offre una chiave interpretativa, nelle due didascalie iniziali: “Portatori di linguaggio, fotografi, scrittori di diari, Voi con le vostre memorie siete morti, congelati. Persi in un presente che non smette mai di trascorrere. Qui vive l’incanto della materia. Un linguaggio in eterno”. E ancora: “Come una fiamma che brucia via l’oscurità, la vita è carne su ossa che si contorce al suolo”. Parole anch’esse criptiche, chiuse, che lasciano perplessi ma acquistano un senso, se rilette dopo la visione; un significato la cui comprensione è puramente soggettiva, variabile a seconda dell’atteggiamento mentale e, soprattutto, dell’inconscio di chi guarda. All’ Es, infatti, si rivolge il film di Merhige, scavalcando le sovrastrutture dell’ Ego e del vedere standardizzato, incoraggiando così un approccio passivo, una sorta di stato di semi-coscienza, necessario per accogliere nel modo più completo possibile un flusso di immagini che verrebbe altrimenti rifiutato a livello razionale.
Begotten, ossia il participio passato di to beget, generare, creare: una Creazione oscura e macabra, violenta fino al limite della sopportazione, un anti-narrato che scombussola e crea disagio, proprio in virtù del suo essere slegato da un qualsiasi filo logico evidente e manifesto. I credits finali svelano le identità nascoste dei personaggi, figure mascherate che agiscono al di fuori di ogni tradizionale unità di tempo e luogo, mostrate in un bianco e nero sporchissimo, sgranato, talmente saturo e sovraesposto da far risultare le immagini talvolta non facilmente distinguibili; non vi sono dialoghi né score, soltanto suoni della natura ripetuti in un loop alienante.
La violenza, si diceva: estrema, dilatata, quasi intollerabile poiché non motivata, bensì scagliata nuda e cruda sullo sguardo; a fine film, nello scorrere dei titoli di coda, riusciamo a identificare ciò che abbiamo visto, a dargli un nome, ed è proprio in quel momento che Begotten sceglie di dischiudersi, invogliando alcuni a una seconda visione che è quasi d’ obbligo, al fine di rileggere il testo filmico sotto una luce più definita. Colui che vediamo sbudellarsi nell’incipit è Dio, la donna che ne viene generata e si auto-insemina col suo sperma è Madre Terra, e il ragazzo brutalizzato ne è il Figlio, quella “carne su ossa” che si contorce, torturata e seviziata, al suolo.
Archetipi potentissimi, che non potevano venire rappresentati in modo classico: il viaggio allucinatorio, quello che a un occhio distratto è solo un’accozzaglia di immagini prive di senso, reca in sé un significato trascendentale, un vero e proprio rituale iniziatico che è pugno nello stomaco per coscienze troppo avvezze a linguaggi chiari e spesso carichi di fronzoli. Ogni minuto di film ha richiesto un lavoro di post-produzione di circa dieci ore, al fine di snaturare il visivo da ogni residuo di realtà: otto mesi di elaborazione finale per 78 minuti di pellicola, una durata per alcuni interminabile, per altri fascinosa e mesmerizzante.
Begotten è l'opera ostica per eccellenza. Non ammette mezze misure e, soprattutto, non pretende di essere compresa. Com’è noto, Merhige si dirigerà successivamente su lidi più limpidi e sicuri, con risultati alterni; ci si trova dunque a rimpiangere il coraggio estremo di un esordio così inconsueto.
Chiara Pani
Sezione di riferimento: Into the Pit
Scheda tecnica
Titolo originale: Begotten
Anno: 1991
Regia: E. Elias Merhige
Sceneggiatura: E. Elias Merhige
Fotografia: E. Elias Merhige
Musiche: Evan Albam
Durata: 78'
Uscita in Italia: --
Interpreti principali: Brian Salzberg, Donna Dempsey, Stephen Charles Barry