ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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DOLLS - Eternità con occhi di bambola

30/3/2020

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La piccola Judy, suo padre, la matrigna e altre tre persone, per sfuggire a un improvviso temporale, trovano ospitalità nella vecchia casa di un anziano fabbricante di bambole e della sua consorte. I due giocattolai in realtà hanno il potere di infondere anima e vita ai loro pupazzi. Durante la notte le bambole assalgono e uccidono alcuni dei protagonisti, colpevoli di aver smarrito la purezza dell'età infantile. 

Girato subito dopo il capolavoro Re-Animator e prima del lovecraftiano From Beyond, ma uscito quasi un anno dopo rispetto a quest'ultimo a causa di lungaggini legate alla post-produzione, Dolls (1987) rappresenta un altro felice risultato della stretta collaborazione artistica tra Stuart Gordon e Brian Yuzna, senza dubbio una delle più proficue nella storia recente del cinema di genere.
Realizzato con un budget ridotto all'osso e girato agli Empire Studios di Roma, il film si muove nei territori della fiaba nera, sfruttando un'atmosfera non lontana dalle migliori suggestioni dei fratelli Grimm, in un incrocio tra le caratterizzazioni preminenti della tradizione letteraria di riferimento e la fenomenologia specifica dell'horror.
Per dare corpo a una delle sue creazioni più genuine, Gordon utilizza i topoi classici legati alla cosiddetta pupofobia, ovvero la paura di pupazzi e marionette, inserendosi in un sottogenere che può far risalire la sua tradizione cinefila agli albori del sonoro con The Great Gabbo (Il gran Gabbo, di James Cruze ed Erich von Stroheim, 1929) e Devil Doll (La bambola del diavolo, di Tod Browning, 1936), per poi proseguire nel tempo attraverso lavori importanti e pregevoli (The Ventriloquist's Dummy, di Alberto Cavalcanti, episodio di Dead of Night, Incubi Notturni, 1945, Amelia, segmento di Trilogy of Terror, Trilogia del terrore, di Dan Curtis, 1975, Profondo Rosso di Dario Argento, 1975, Magic di Richard Attenborough, 1978) e conoscere una vera e propria esplosione negli anni Ottanta e Novanta, grazie alle saghe iniziate con Child's Play (La bambola assassina, di Tom Holland, 1988) e Puppet Master (di David Schmoeller, 1989), senza dimenticare piccole opere di buon impatto (The Ventriloquist's Dummy, episodio dei Tales from the Crypt scritto da Frank Darabont e diretto da Richard Donner nel 1990) e pellicole più recenti (tantissimi titoli, tra gli altri Inhyeongsa, The Doll Master, di Yong-ki Jeong, 2004, Dead Silence, di James Wan, 2007 e Ghostland, La casa delle bambole, di Pascal Laugier, 2018).
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Gli esempi sopracitati, oltre a costituire soltanto una parte dell'ingente filmografia di riferimento, rispondono all'esigenza innata dell'horror di scavare nelle paure ataviche dell'uomo, plasmandole per costruire una materia narrativa in cui contestualizzare la tematica prescelta e al contempo rivoltarla, per fornire un senso di terrore e mistero all'universo visivo rappresentato. Da questo punto di vista è innegabile sostenere come, pur con i suoi limiti, Dolls assuma una posizione di rilievo nel panorama del cosiddetto evil doll movie, ponendosi inoltre come gustoso antipasto per le opere di maggior impatto commerciale che di lì a breve avrebbero dominato il mercato (Child's Play in particolare).
Bambole indemoniate, pupazzi animati da vita propria, burattini malvagi e incontrollabili: il cinema horror ormai da un secolo sfrutta le disfunzioni totemiche strettamente legate al fascino candido e perverso dei corpi in miniatura, rigirando a 360 gradi la teorica dolcezza di questi oggetti di svago per renderli invece esiziali veicoli di morte e disperazione; Dolls non fa eccezione, e mette in scena una piccola e intrigante storia di stregoneria ed esemplare punizione nei confronti di personaggi privi di forte struttura interiore, situando il racconto in una finta casetta di marzapane in realtà teatro di abomini che travalicano i confini del tempo e della razionalità. Così, con una purezza d'intenti capace di scavalcare il budget minimale, il lavoro di Gordon ci offre una concreta tipizzazione dell'horror di stampo ottantiano, interessato a seviziare i simulacri della rettitudine scartando il falso pietismo edulcorato che avrebbe poi parzialmente affondato il cinema di genere negli anni successivi.

Rivedere Dolls significa fin da subito trovarsi di fronte a una vera dichiarazione d'intenti, esplicitata immediatamente nei titoli di testa, in cui la nenia di un carillon accompagna la comparsa di inquietanti visi di bambola che si stagliano su uno sfondo nero accostando i nomi del cast. La melodia, al contempo zuccherosa e sinistra, spiega senza possibilità d'errore il beffardo incrocio tra gaiezza infantile e respiri d’inquietudine che si andrà a dipanare con piena sostanza in tutto il film. L'uso della musica, supervisionata da Richard Band, anche produttore esecutivo di Dolls nonché di numerose altre pellicole low budget del periodo, assume dunque connotazioni tanto elementari quanto preminenti, nel richiamare l'attenzione verso la struttura stilistica che scorterà lo spettatore nei successivi ottanta (scarsi) minuti.
Allo stesso modo si evidenzia senza preamboli l'ambientazione contemporanea della vicenda, sottolineata dal look gothic-punk di due autostoppiste che sembrano strette parenti della Julie Walker protagonista del successivo The Return of the Living Dead 3 di Yuzna (Il ritorno dei morti viventi 3, 1993). Mentre le ragazze attendono invano che qualcuno si fermi per dare loro un passaggio, inveendo senza cortesia contro chi prosegue per la sua strada, una coppia viaggia in auto insieme a una bambina intenta alla lettura di Hansel & Gretel. L'estratto fiabesco dell'intera vicenda assume in questa scena toni perfino citazionisti, nel momento in cui Gordon pare voler regalare un omaggio alla fonte narrativa che andrà poi a rovesciare con corrosiva crudezza.

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​Senza preavviso, in un istante, il cielo diventa scuro come la pece, scatenando un'ampia serie di tuoni e fulmini. Si comprende come l'autore non sia affatto interessato a mantenere la verosimiglianza situazionale; al contrario, il realismo è messo da parte, a vantaggio di un racconto che assottiglia il margine tra fantastico e verità, proprio come accade nelle fiabe. Tutto è lecito, tutto è permesso: per la credibilità a tutti i costi si prega di rivolgersi altrove.
Mentre le nubi preannunciano l'arrivo di un temporale, la macchina dell'allegra (mica tanto) famigliola resta imprigionata tra le pozzanghere. Scopriamo come la piccola Judy sia figlia naturale soltanto dell'uomo, mentre la donna presente con loro ne è la matrigna; il rapporto tra le due sviluppa senza appello i connotati di una difficoltosa sopportazione reciproca pronta a sfociare nell'odio. Le frizioni sono inoltre acuite dal carattere rude e arcigno dell'impellicciata matrigna (interpretata da Carolyn Purdy-Gordon, moglie del regista), personaggio che assume su di sé ogni possibile antipatia di fondo.
La caratterizzazione dei protagonisti della vicenda non tarda dunque a palesarsi: la donna borghese cattiva, viziata e impaziente, il marito sottomesso alla personalità della compagna, una bambina che vive la realtà con occhi annebbiati dall'immaginazione: non a caso il padre si lamenta dell'ossessione della figlia per gnomi, fantasmi e omini verdi, e non per caso il primo momento di puro orrore del film esplode quando Judy sogna a occhi aperti che il suo orsacchiotto, scaraventato dalla matrigna in mezzo al bosco, ne riemerga trasformato in un gigantesco mostro voglioso di azzannare e uccidere il parentado.
La scena anticipa il fatto che gran parte del film sarà girato in soggettiva indiretta ad altezza di bambina, spiegando con ancora maggior convinzione la necessità di allontanarsi dal puro realismo per dare sfogo a incubi e deliri in libertà, come da prassi per l'età infantile; un meccanismo utilizzato spesso nel cinema fantastico, talvolta con esiti di tutto rispetto, ad esempio in El laberinto del fauno di Guillermo Del Toro (Il labirinto del fauno, 2006).
Tra profonde pozzanghere e lagnanze assortite, i malcapitati cercano un posto in cui rifugiarsi; per magia appare ai loro occhi un maniero che si staglia minaccioso sullo sfondo, alla stregua di un castello di draculiana memoria, per poi invece rivelarsi una costruzione che davvero pare uscita dalle pagine di una fiaba. Il luogo che fungerà da teatro per l'intera vicenda assomma fin dalle prime inquadrature esterne un mix di tentazione ludica e tetraggine respingente, a sottolineare una volta di più il binomio emotivo che già abbiamo rilevato.
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Trovando la porta di casa chiusa e non ricevendo alcun tipo di risposta, i tre decidono di sfruttare un'apertura e si introducono nella cantina, contenitore preminente di malvagità nascoste tra polvere e ragnatele. Una volta dentro Judith inizia a sentire strani rumori, somiglianti a risatine infantili: da qui il sonoro intradiegetico assumerà un ruolo non secondario nella pianificazione degli attimi di suspense. In questo senso va evidenziato come le voci delle bambole siano state realizzate da amici e familiari di Gordon, figli e moglie compresi: un’esemplificazione del carattere artigiano della lavorazione del film, aggettivo quest'ultimo inteso in senso nient'affatto negativo.
Bagnati fradici, Judith, il padre e la matrigna fanno la conoscenza dell'anziana coppia di proprietari della casa. Le attenzioni dei due si concentrano sulla bambina, precipuo oggetto di manipolazione mentale sin dal primo istante. A precisa domanda Judith afferma «non ho paura del buio, ma di quello che c'è dentro al buio», frase simbolica per esaltare la volontà di Gordon, Yuzna e del loro sceneggiatore Ed Naha di scavare nell'immaginario infantile, per trovare la giusta sintesi ossimorica tra bambole e orrore, gioco e tragedia, forza di volontà e asserzione al potere del maligno.
Dolls si svolge in un arco di durata assai ristretto, poche ore, rispettando in gran parte le unità di tempo, luogo e azione, ma pare sistemarsi in una sospensione onirica destinata in potenza a proseguire per l'eternità. Siamo in un posto in cui la notte non finisce mai, le tempeste non si esauriscono, le significazioni del presente cullano i ricordi del passato, i volti dei burattinai Gabriel e Hilary raccolgono le fattezze dell'immortalità; un'indeterminatezza resa ancor più fulgida dall'arredamento stesso della casa, zeppa di bambole in ogni dove, in una dimensione che rifiuta la modernità rifugiandosi nella gloria antica.
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Gabriel (Guy Rolfe, poi burattinaio in alcuni capitoli della saga di Puppet Master) sostiene che ormai nessuno vuole più utilizzare bambole realizzate su misura, preferendo i giocattoli fatti in serie, asserzione che si confermerà in Child's Play. Se quindi il lavoro di Holland traghetterà l'evil doll movie verso sguardi più moderni, Dolls vive nella nostalgia, nella fascinazione atavica della scoperta, nella malinconia rivolta a un passato di semplicità e purezza; il film di Gordon, anche per questo motivo, è un magnifico oggetto fuori (dal) tempo, lontano dalle mode, capace di guardare indietro invece che avanti senza per questo limitarsi alla mera riproposizione di tematiche già esaurite.
Mentre i proprietari della casa offrono agli ospiti una cena calda, e Judy riceve in regalo un pupazzo dall'aspetto non proprio rassicurante, l'idillio è interrotto dall'arrivo prepotente e improvviso delle due ragazze viste all'inizio, accompagnate dal pacioso Ralph, evidentemente meritevole di aver concesso loro un passaggio. In questo modo si completa il gruppo dei personaggi della vicenda, ognuno portavoce di tratti caratteriali ben determinati. 
A Gordon non interessa più di tanto il background dei suoi protagonisti, nemmeno l'eventuale ricchezza di sfumature che li possa accompagnare: Dolls è un film semplice, solerte, concentrato su Judy e pronto a sacrificare senza troppi rimpianti gli altri soggetti in quanto elementi di sfondo, addobbi di una cornice il cui centro focale si fonda sull'immaginazione e le paure di una bambina suo malgrado costretta a vivere il contatto con la morte e il successivo e traumatico processo di crescita.
L'esplicitazione della bontà o della meschinità dei personaggi rivela coordinate di stampo manicheo, con attori divisi in due categorie definite: i cattivi (la matrigna Rosemary, il padre di Judy, le due ragazze incivili che pensano di derubare i vecchietti) e i buoni (la bambina e Ralph, omaccione con il cuore ancora capace di emozionarsi di fronte alle bambole e ai ricordi dell'infanzia). Visto il carattere del racconto, non è difficile immaginare in quale ordine i personaggi andranno incontro a una progressiva disfatta; l'intento di Gabriel e Hilay, stregoni al cui comando le bambole assumono vita propria, è infatti la punizione nei confronti di chi possiede un'anima marcia, corrotta, spenta, inquinata dai miasmi della civiltà e dalla putredine dell'egoismo.

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​Esauriti i convenevoli, a Gordon non resta che innescare la marcia del puro orrore, in un meccanismo a eliminazione tipico dello slasher, con la sostanziale novità che qui l'assassino non è uno bensì dieci, cento, mille, ovvero tutte le bambole presenti nella casa, i loro occhi e le loro braccia e gambe che infliggono il giusto castigo a chi non crede nell'eterno potere della magia e ha smarrito l'amore per i giocattoli.
Per dare fondo al festino di sangue, il regista utilizza tecniche di regia tanto basilari quanto efficaci: improvvisi effetti flou, rapide panoramiche a schiaffo, semi-soggettive, inquadrature dall'alto o dal basso per fornire un sovraccarico dimensionale, inquietanti primi piani sui visi delle bambole, giochi di luce favoriti dai lampi del temporale, fusione tra sonoro on e off (il motivo del carillon già sentito durante i titoli di testa): un linguaggio elementare ma ben inserito nel clima della vicenda e adeguato a rendere morbosa a sufficienza l'atmosfera di terrore.
Data la riflessione di cui sopra, la prima a perire è proprio una delle ragazze, rapita da ghignanti bambole al momento per noi ancora invisibili, trascinata via e sbattuta a ripetizione contro un muro sino ad avere il volto ridotto in poltiglia. Ad assistere impotente a una parte della macabra scena c'è Judy, al posto sbagliato nel momento sbagliato, ma così costretta a cominciare il suo accidentato percorso nell'antro dell'orrore.
Come da consuetudine nei film posti ad altezza di bambino, lo scarto che si interpone tra credibilità e non credibilità costituisce un nodo non secondario nello sviluppo della trama: Judy confida al padre ciò che ha appena visto, ma in cambio ottiene soltanto un irritato diniego accompagnato dal rischio di ricevere un ceffone; a quel punto non le resta che chiedere aiuto a Ralph, unico adulto con il cuore ancora colmo di suggestioni infantili e di conseguenza unico possibile compagno con cui condividere e combattere la paura.
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Da questo momento i personaggi si dividono tra gli anfratti della casa, essa stessa organismo integrante della fabula, e Gordon alza i toni del gore, pur con pesantezza di tocco molto meno accentuata rispetto al sanguinario baccanale orgiastico dello splendido Re-Animator.  
In montaggio parallelo seguiamo il massacro a cui vanno incontro come da previsione i simboli della corruzione, a partire da Rosemary, assalita da un'orda di bambole zannute capaci di colpire, mordere, tagliare, ferire e perfino segare. Subito dopo è il turno di Enid, la seconda ragazza punkettara: a caccia dell'amica scomparsa trova quest'ultima in soffitta, ridotta a grottesca bambola con i bulbi oculari che le si staccano dal viso; sconvolta dal terrore, fronteggia l'arrembaggio di un altro gruppo di pupazzi inferociti, per poi trovare la morte davanti a un plotone di soldatini.
Intanto che il temporale continua a imperversare, spargendo lampi e tuoni nella penombra di stanze altrimenti illuminate soltanto da fioche candele, ci avviciniamo alla conclusione del film. Ralph e Judy trovano un ripostiglio, nel quale sono riposte centinaia di bambole di straordinaria fattura. Nel momento in cui l'uomo comprende con definita esattezza come esse siano vive, la componente adulta e razionale che è in lui prende il sopravvento, inducendolo a un brusco tentativo di fuga; le bambole si arrabbiano e iniziano a ferirlo, fermandosi solo quando è la stessa Judy a ordinarlo. La bambina comunica con le bambole, parla e ragiona con loro e come loro, senza nemmeno bisogno di utilizzare artifici stregoneschi; i giocattoli accolgono il suo desiderio, lasciando in vita l'amico Ralph.
Nel frattempo David, il padre di Judy, scopre nel letto il cadavere di Rosemary. Scioccato dall'orrore accusa Ralph di aver commesso l'omicidio, lo va a cercare e tenta di ucciderlo. Ancora una volta sono le bambole a intervenire: David combatte contro Scarabocchio, il pupazzo che Gabriel aveva regalato a Judy a inizio film, ha la meglio, gli distrugge la testa con una martellata, ma nel momento in cui pensa di aver vinto la sfida, intervengono in prima persona i due padroni di casa. Gabriel esplicita la sua idea secondo cui i giocattoli possiedono un ruolo immortale, grazie al loro potere di salvare ogni uomo dalla depravazione dell'anima. Per chi però non ha questa volontà di espiazione, non resta che un’opzione: con le loro arti magiche i due anziani in pochi istanti trasformano David in una reincarnazione di Scarabocchio, consegnandolo all'atroce tepore dell'eternità.
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Finalmente «la notte più lunga del mondo» si conclude e con essa il temporale. È mattina, Judy e Ralph si svegliano, la casa è illuminata dalla luce del giorno, l'orrore che prolifera nel buio si è dissolto. I due proprietari salutano gli ospiti sopravvissuti e amabilmente sorridono. Come se nulla fosse mai accaduto. Si è trattato soltanto di un incubo, nessun omicidio è mai stato commesso e in fondo, come dice un antico proverbio, «a volte i brutti sogni posso anche portare cose belle». Nel territorio della fiaba più nera, nonostante tutto, non può mancare una sorta di parziale lieto fine: Gabriel legge a Judy un (falso) biglietto scritto dal padre, nel quale l'uomo le comunica di essere partito per un lungo viaggio senza ritorno. La bambina andrà a stare a Boston, dalla vera madre. Ralph l'accompagnerà a destinazione.
Così, dopo un ultimo sussulto nell'attimo in cui Scarabocchio saluta Judy con la voce di David, imprigionato per sempre all'interno del corpo in miniatura, la bambina e il suo nuovo amico-patrigno si allontanano, verso un futuro incerto ma forse felice. Non lo sapremo mai con certezza (Gordon aveva accarezzato l’idea di realizzare un sequel, con protagonisti Ralph e la madre di Judy, ma il progetto è rimasto nel cassetto).
Resta il tempo per un ultimo artificio narrativo, azzeccato nonostante la sua prevedibilità: mentre scorrono i titoli di coda, una macchina si impantana nel medesimo punto in cui si erano bloccati i protagonisti poche ore prima. Un uomo, una donna e un bambino escono dall'auto; vedono la casa di Gabriel e Hilary e senza indugio vi si avvicinano. 

Un uomo anziano e la sua gentile consorte li attendono, insieme alle loro bambole. 
​
È di nuovo ora di giocare. Ancora e per sempre.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Into the Pit

Scheda tecnica
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Titolo originale: Dolls
Anno: 1987
Durata: 77’
Regia: Stuart Gordon
Sceneggiatura: Ed Naha
Produttore: Brian Yuzna
Fotografia: Mac Ahlberg
Montaggio: Lee Percy
Attori: Ian Patrick Williams, Carolyn Purdy-Gordon, Stephen Lee, Carrie Lorraine, Guy Rolfe, Hilary Mason

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SOCIETY - THE HORROR - Dissolutezza e dissoluzione

30/7/2014

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“Al mondo c’è chi fa le regole e chi deve rispettarle.” Il rigido determinismo sociale scandito dalle parole con cui il dottor Cleveland, psichiatra, apostrofa il suo giovane paziente Billy Whitney, costituiscono la cifra tematica portante, benché in apparenza semplicistica/semplificatoria, del film di Brian Yuzna. 
L’assunto sembra fin troppo elementare e auto-evidente: il mondo si divide in due categorie, cioè la minoranza che detiene il potere opposta alla maggioranza assoggettata. E certamente l’ossatura del film si basa su questa dicotomia elementare, ancorché aderente all’incontrovertibile realtà dei fatti. È anche vero, però, che la riflessione condotta dal regista statunitense (1) risulta tutt’altro che schematica o superficiale, essendo in grado di sviluppare un’analisi serrata e tagliente, sebbene stemperata da ironia e corrosivo black humor, delle dinamiche perverse nonché dei cerimoniali sociali aberranti che regolano e scandiscono l’esercizio del potere da parte della cosiddetta upper class americana.
Il racconto ruota attorno al personaggio di Billy, adolescente (2) ribelle, membro di una altolocata famiglia di Beverly Hills. Anziché gustarsi i privilegi del suo status sociale, Billy mostra insofferenza verso le pratiche, le frequentazioni, i rituali collettivi e i comportamenti delle persone appartenenti al suo ceto. Egli sembra inoltre nutrire degli innominabili sospetti verso gli stessi componenti della propria famiglia, tant’è che periodicamente si sottopone a delle sedute psichiatriche presso il dottor Cleveland, per cercare di superare quelle che, a prima vista, potrebbero anche apparire come delle semplici turbe psichiche legate all’età e al suo sentirsi estraneo al proprio ambiente famigliare e sociale.
Billy convive col perenne e inguaribile timore che suo padre e sua madre non siano i suoi genitori naturali (3), che la sorella Jenny non sia sua consanguinea e che, nella casa in cui vive, avvengano infami accoppiamenti incestuosi fra i genitori e la sorella. Il tutto è giocato da Yuzna, nella prima parte del film, con la giusta, calibrata e indubbiamente derivativa dose di ambiguità, inevitabile nel modulare l’atmosfera di complotto e di paranoia in cui è calato il protagonista. Ben presto, però, ogni residuo dubbio verrà spazzato per lasciare emergere un orizzonte di verità sempre più cupo, rispetto anche alle paure più estreme del protagonista.

1) Nato nelle Filippine e alieno a qualsivoglia contatto col mondo dello showbiz, a parte l’esperienza disneyana come soggettista del film Tesoro, mi si sono ristretti i ragazzi (1989), Yuzna è ormai da tre decadi regista e produttore indipendente, attivissimo nell’ambito del cinema horror.
2) L’attore che lo interpreta, Billy Warlock, è in realtà quasi trentenne, all’epoca delle riprese.
3) Non è, forse, solo un caso che padre, madre e sorella siano biondi wasp anglosassoni, alti e con gli occhi chiari, mentre Billy è moro, piccolo di statura e con gli occhi scuri.

È l’amico David Blanchard a confermare e ad amplificare, se possibile, tutti i più inquietanti sospetti di Billy, allorché gli fa ascoltare un nastro su cui sono incise delle conversazioni, da lui registrate tramite dei microfoni ambientali, piazzati di nascosto nell’abitazione e sull’automobile degli Whitney per spiare le mosse di Jenny, da lui vanamente concupita. David è un mago dell’elettronica e appartiene a una classe sociale inferiore rispetto a quella di Billy, oltre a essere un suo amico di vecchia data; tutti elementi, questi, che contribuiscono a rendere ancor più credibile, agli occhi di Billy, l’inquietante verità.
Inoltre, e soprattutto, c’è l’evidenza delle voci del padre, della madre e di sua sorella che non possono lasciare adito a dubbi. Dalle conversazioni emergono riferimenti espliciti ai rituali necessari per chi, essendo già parte naturale della (high) society, (4) intenda diventarne un membro a tutti gli effetti, che prevedono un’iniziazione di tipo sessuale orgiastico, in cui l’incesto, lungi dal costituire un momento accessorio, diviene parte inevitabile e integrante della cerimonia. In più viene fatto esplicito riferimento a Billy come elemento estraneo al contesto e potenzialmente pericoloso.

4) Si noti come sia nel doppiaggio che nella sottotitolazione italiana (che riporta fedelmente il testo del doppiaggio anziché essere la traduzione dei dialoghi in inglese) la parola “society” viene sempre tradotta con “famiglia”, modificandone il senso e la portata semantica.

A partire da questo snodo narrativo cruciale, il film si sviluppa seguendo due direttrici principali e parallele: la strenua lotta fra Billy e i suoi nemici – di fatto la quasi totalità della comunità di Beverly Hills – e soprattutto il delinearsi, attraverso l’abile regia di Yuzna, del sistema di valori, di comportamenti e di usanze che scandiscono la vita e la condotta della high society americana. Mentre il primo punto viene approfondito seguendo i canoni consolidati del thriller, a parte il geniale e delirante finale e alcuni lampi di horror grottesco qua e là disseminati – senza particolari deviazioni dalle coordinate portanti del genere, a livello di sviluppo dell’intreccio – il secondo trova proprio nel finale la chiusura perfetta e geometrica del suo senso. È quindi a partire dall’analisi socio-antropologica della upper class statunitense che Society trova il suo principale motivo di interesse e, in definitiva, la sua peculiare unicità.
Attraverso una tessitura narrativa e descrittiva di estremo equilibrio ed efficacia, Yuzna individua nella famiglia – sia in senso esteso, sia soprattutto con riferimento a quella che si costituisce come prima cellula dell’organismo della classe dirigente – il fondamento cardine dell’ordine sociale in cui i giovani rampolli iniziano a formarsi sulla base del sistema di principi che costituisce l’asse portante della high society. Aderire a tale orizzonte identitario e valoriale significa sentirsi parte di una élite che, per diritto di nascita, quindi di sangue, conserva e accresce i propri privilegi, attraverso una trasmissione sostanzialmente ereditaria di titoli e cariche, in un sistema sociale fortemente gerarchizzato e radicalmente chiuso a qualsiasi intromissione delle classi subalterne. L’esatto opposto dell’american dream.

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Se la famiglia costituisce la base dell’ordine sociale, alla sommità si colloca invece il potere vero e proprio, sia come valore supremo che come sua incarnazione nelle persone/personalità che lo esercitano e ne sfruttano le prerogative: la classe dirigente. Affinché questa possa custodire e perpetuare la propria egemonia nonché sancirla, le sono indispensabili tre decisivi momenti: il complotto, il rituale, il sesso.
Il complotto, secondo l’accezione comunemente accettata, è l’azione cospirativa di una minoranza ai danni di una totalità, di un sistema ordinato e costituito, per minarne la solidità o ribaltarne le gerarchie. È quindi del tutto coerente, rispetto all’accezione del termine, il riferirlo all’azione di una classe sociale, il cui scopo appare quello di porsi non tanto al di fuori della legge, ma al di sopra di essa. Il problema è che, nel caso in questione, sono coloro che dettano le regole a non rispettarle o, meglio, sono coloro a cui il racconto della legalità fa comodo, solo in quanto sistema di coercizione delle masse, a servirsene.
Per certi versi, si può affermare che il vero complotto, in questo caso, è contro la sostanza dell’american dream e per la sua preservazione esclusiva come fabula, come racconto mitico e falsificante della democrazia, dell’uguaglianza e del riscatto sociali. Naturalmente, l’efficacia del complotto è direttamente proporzionale al controllo che i congiurati possono esercitare sulle componenti del sistema su cui intendono intervenire. È qui che emerge uno dei cortocircuiti innescati dal gioco del potere, il quale per preservarsi dovrebbe giungere a controllare ogni singola componente della società, ma, in quanto tale, già si trova in una condizione di controllo assoluto. Non è un caso, infatti, che in Society la polizia, l’alta magistratura, gli psichiatri, cioè coloro che controllano il corpo e la mente della società, siano al servizio o addirittura a capo dell’élite dirigente.
Il vero e definitivo momento in cui emerge la natura ferina e distruttrice del potere si ha comunque nel convulso finale in cui, come da tradizione del cinema classico americano, convergono in un unico luogo il protagonista e i suoi avversari per il confronto risolutore, ma soprattutto in cui convergono i vettori di senso del film, le cui fila verranno tirate magistralmente da Yuzna.
Billy, dopo essere riuscito a più riprese a sfuggire ai propri nemici, ritorna imprudentemente a casa, dove sta per iniziare il cerimoniale del sacrificio e dell’orgia catartica con cui i detentori del potere santificano la propria missione e celebrano la propria identità. Le vittime designate sono Billy stesso (5) e l’amico Blanchard, cioè due corpi estranei rispetto alla Società. Il sacerdote officiante è il giudice Carter, mentre il maestro di cerimonia è il dottor Cleveland. I partecipanti altri non sono che i membri dell’altolocata comunità losangelina, (6) mentre, al di fuori dell’edificio, alcuni poliziotti montano di guardia. 

5) In questa sequenza emerge anche la verità sul ruolo di Billy all’interno della propria famiglia: egli non è figlio naturale della coppia, ma è stato allevato per poter essere, un giorno, sacrificato.
6) Aspetto questo che non può che richiamare alla mente il finale di Rosemary’s Baby.

È in questa lunga sequenza conclusiva, scandita dai deliranti discorsi dei celebranti, uniti all’altrettanto delirante commistione di corpi, membra, fluidi, secrezioni che si celebra l’eterno rito del potere: “Beverly Hills discende da Giulio Cesare e da Gengis Khan” dice il giudice a sancire la superiorità della razza eletta, la schiatta dei predatori e dominatori del genere umano. Gli fa eco il dottor Cleveland, che sibila a Billy: “Tu sei di una razza diversa, di un’altra specie, di un’altra classe! Non puoi essere uno di noi”.
La sequenza unisce e fonde l’atto di parola (7) – espressione della legge e dell’ordine, momento regolativo lapidario e incontrovertibile (il protagonista è legato a una specie di guinzaglio e impossibilitato a rispondere, mentre viene apostrofato beffardamente dagli aguzzini) – e l’atto sessuale, che indica il momento culminante in cui il potere sancisce il proprio dominio sul corpo delle vittime, così come la prerogativa di essere l’unico detentore del privilegio di vivere liber(tin)amente la dimensione pulsionale e infine il diritto di amministrare la sfera del sacro tramite il sacrificio, cioè il sacrum facere.
Affinché il rituale orgiastico – in cui tutti i convenuti si (con)fonderanno letteralmente in un unico mostruoso organismo lattiginoso e putrescente (8) – abbia inizio, è indispensabile la presenza di uno o più capri espiatori: ecco perché può iniziare solo dopo l’arrivo di Blanchard e di Billy. Esso decreterà, come momento cerimoniale nonché di aggregazione sociale, l’unità della Società in un unico corpo simbolico e fattuale.

7) Si tratta di uno dei segmenti narrativi più parlati del film.
8) Il merito della riuscita della sequenza va ascritta sicuramente anche a Screaming Mad George e ai suoi effetti speciali non solo estremamente efficaci, ma in grado di rendere alla lettera, potenziandola enormemente, la metafora voluta da Yuzna, cioè la costituzione corporea gommosa, posticcia e inconsistente dei rappresentanti della upper class.

Nonostante le molte suggestioni estreme evocate dalla sequenza esaminata, Yuzna non rinuncia a concedersi una conclusione beffarda e vagamente catartica, in cui il protagonista riuscirà a sfuggire ai nemici: Billy, prima di essere sacrificato, viene invitato a battersi a mani nude con Ted Ferguson, il rampollo più in vista della Society. Ted sembra avere la meglio, fino a quando Billy non decide di ricorrere, come difesa estrema, a una delle pratiche sessuali più amate dalla Società, per colpire l’avversario: l’elbow fist fucking, con cui sorprende il suo contendente (e come si potrebbe, d’altronde, non risultarne quantomeno sorpresi?) e lo rivolta, letteralmente, come un guanto. Di Ted non rimane che l’interno afflosciato del suo corpo dissolto, purulento e cosparso di vermi. La metafora è chiara.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Into The Pit


Scheda tecnica

Titolo originale: Society
Anno: 1989
Durata: 94’
Regia: Brian Yuzna
Soggetto e sceneggiatura: Woody Keith, Rick Fry
Fotografia: Rick Fichter
Musiche: Mark Ryder, Phil Davies
Montaggio: Peter Teschner
Effetti speciali: Screaming Mad George
Interpreti principali: Billy Warlock, Ben Meyerson, Ben Slack, Devin Devasquez, Tim Bartell

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