Perché, si sa, l’horror ha da sempre trovato nel mondo reale il territorio ideale di paure e tensioni sociali dal quale attingere per poter creare i propri incubi di celluloide. Una lunga quiete prima e dopo la tempesta, quindi, nella quale persino i maestri dei due decenni precedenti facevano fatica a districarsi: il forzato esilio artistico di George Romero, il declino inarrestabile di Tobe Hooper, il cambio di rotta scelto da Wes Craven (con due eccezioni: Nightmare - Nuovo incubo e Scream, anche se proprio quest’ultimo avrebbe purtroppo dato il via – inconsapevolmente? – al mefitico sottofilone dell’horror giovanilistico). Solamente John Carpenter resisteva ancora, strenuamente; ma non era sufficiente.
In quei dieci lunghi anni di transizione il cinema horror faticava a trovare una dimensione propria, ed era sul punto di scomparire del tutto. Ma come scrive saggiamente Pier Maria Bocchi, “se c’è un genere capace di resuscitare dalle proprie ceneri, lo abbiamo imparato nel corso del tempo, prove alla mano, è questo, il genere bastardo” (Blow Up #194/195, luglio-agosto 2014). L’articolo fa riferimento al contesto attuale, citando nomi e titoli che, speriamo, saranno distribuiti nei prossimi mesi, e che promettono faville: ma sono parole che possono benissimo adattarsi alla situazione dei primi anni Duemila, quando apparve dal nulla un piccolo film a basso budget, Jeepers Creepers , destinato a fare da apripista a una nuova e gloriosa stagione del cinema horror, in America come nel resto del mondo.
Fratello e sorella sono in viaggio verso casa, attraverso le campagne sconfinate degli Stati Uniti; un camioncino li sorpassa velocemente, e alcune miglia più avanti vedono il mostruoso conducente gettare in un tubo i resti di alcuni cadaveri. La creatura si accorge di loro, e così comincia la caccia: perché uno dei due ragazzi ha qualcosa che lui vuole.
In un baleno sembra di essere ritornati ai meravigliosi anni Settanta, quando l’orrore nasceva e si sviluppava negli infiniti e sperduti territori della provincia americana, là dove nessuno aveva mai posato lo sguardo fino ad allora, quando ci si rese conto che i mostri classici della tradizione europea (Dracula, Frankenstein) erano stati superati dai grandi mutamenti sociali e che quindi esisteva un nuovo tipo di pericolo, ben più grande e terrorizzante: quello che si nascondeva tra di noi.
Ecco, Jeepers Creepers è bello è importante innanzitutto perché recupera pienamente la funzione sociale del genere. E lo fa in maniera dimessa, agendo sottopelle: la creatura è il bau-bau, il boogeyman della grande tradizione americana, arricchita però da connotazioni fortemente antropologiche; è il mostro che fa paura perché rappresenta quello che noi – la società moderna – rifiutiamo. Il mostro che è tale innanzitutto perché suscita tanto spavento quanto attrazione: anche se la componente omosessuale sarà esplicitata maggiormente nel secondo capitolo (con il Creeper che lecca e annusa il finestrino dell’autobus dove sono prigionieri i ragazzi), già da questo film Victor Salva utilizza i codici del genere per ribaltare il punto di vista e mostrare la creatura soprannaturale come maligna anche in virtù del suo rappresentare un pericolo più di gender che altro; se il morto vivente in Romero è il riflesso dell’uomo così come si è trasformato oggi, allo stesso modo il Creeper è l’oscuro oggetto del desiderio, una creatura che recupera quella sana ambiguità che sembrava ormai sepolta da una spessa coltre di politicamente corretto.
In questa meravigliosa rilettura degli archetipi fiabeschi, dove la parentela tra i due protagonisti esclude qualsiasi improbabile sottotesto sentimentale, c’è tempo anche per fare spazio ad altri elementi della tradizione: la signora dei gatti, la veggente, la continuità temporale (tutto si svolge nell’arco di un pomeriggio e di una notte), il mausoleo degli orrori (la cappella tappezzata di cadaveri) e il momento di assedio (il finale nella stazione di polizia).
Salva, che aveva già in curriculum l’interessante Clownhouse, è in grado di reinventare gli stereotipi trattandoli alla stregua di tòpoi, e in più sa costruire gran bei momenti di cinema, primo tra tutti il segmento iniziale sulla strada; inoltre recupera (finalmente!) la figura del mostro puro e semplice e ricorda a tutti che esiste ancora un modo diverso di pensare il cinema dell’orrore, fatto di idee e non solamente di franchising ripetuti all’infinito.
Nemmeno lui, però, sarebbe più tornato su questi livelli: due anni dopo, nel 2003, Jeepers Creepers 2 si rivelerà molto più action (e sessualmente esplicito), ma perderà irrimediabilmente in fascino; l’ultimo Dark House (2014), invece, nonostante un innegabile talento visivo si è rivelato una delusione cocente per chi si aspettava un ritorno ai vecchi fasti (anche perché manca completamente di questo spessore). Ma nulla di tutto ciò riesce a sminuire l’importanza del film del 2001, un antipasto ottimo e succulento del new horror degli anni Zero.
"Hush, Hush, Hush, Here Comes the Boogeyman": Jeepers Creepers ti guarda, ti annusa, ti lecca. Ti vuole. Solamente per palati fini.
Giacomo Calzoni
Sezione di riferimento: Into The Pit
Scheda tecnica
Regia: Victor Salva
Sceneggiatura: Victor Salva
Montaggio: Ed Marx
Musiche: Bennett Salvay
Fotografia: Don E. FauntLeRoy
Anno: 2001
Durata: 90’
Uscita Italiana: 23/08/2002
Interpreti: Gina Philips, Justin Long, Jonathan Breck, Patricia Belcher, Eileen Brennan