I was a young man, full of hope and dreams
But now it seems to me that all is lost and
nothing gained
Sometimes things ain't what they seem
No brave new world, no brave new world […]
Stranger in a strange land
Land of ice and snow
Trapped inside this prison
Lost and far from home
(Iron Maiden – Stranger in a Strange Land – dall’album Somewhere in Time, 1986)
Il primo lungometraggio di Robert Eggers ha fatto il botto, e dopo aver vinto il premio per la miglior regia (categoria U. S. Dramatic) al Sundance del 2015, con notevoli riscontri anche fra il pubblico del festival, si avvia a essere considerato uno dei migliori horror di questi anni, ricchi di titoli ma non di rado deficitari di idee.
Quando un film attecchisce pressoché istantaneamente all’immaginario del pubblico, è probabile che si tratti di un’opera capace di insinuarsi sottopelle, di innestarsi, prima che in ogni altra dimensione dell’interiorità, in quella posta appena al di sotto della soglia della coscienza, di regalare un’immagine precisa, ancorché deforme, o forse esatta proprio perché tale, degli strati più profondi e riposti dell’inconscio individuale e collettivo degli astanti. The Witch (o magari The VVitch, con la sommità centrale della “W” attraversata, forse per motivi simbolici, da uno spazio vuoto, come lasciano intuire i caratteri che marcano i titoli di testa e le varie locandine pubblicitarie del film) funziona prima di tutto come grimaldello della psiche, per poi defluirvi in guisa di fiume oscuro, le cui acque limacciose risultano abitate dai fantasmi e dalle (p)ossessioni di cui è preda l’uomo, perlomeno quello cresciuto nel timore del peccato, della colpa e di una punizione sovrannaturale.
Pur aderendo in superficie a un canovaccio narrativo che riprende parecchie situazioni-(arche)tipo dell’horror moderno e contemporaneo (la dimensione dell’home invasion, del survival, della possessione maligna) e pur sviluppando alcuni elementi essenziali del racconto a partire dal conflitto uomo-natura, un tema spesso presente nel cinema pressoché di ogni epoca, TW riesce a marchiare lo sguardo e a incastonarsi nella memoria per la magmatica stratificazione di temi e suggestioni; per la capacità di restituire un orizzonte storico e culturale assai distante nel tempo, eppure prossimo e per molti versi familiare; per l’abilità con cui gli elementi perturbanti riescono a innestarsi nel tessuto connettivo di una vicenda già di per se stessa estrema e allucinatoria; per una non comune maestria nel tenere le redini di una narrazione a più livelli, senza mai scadere nella retorica o nella banalità; infine per la padronanza nell’armonizzare gli elementi visuali con quelli acustici, intrecciando un tappeto percettivo assai complesso, nel quale un peculiare elemento significante è costituito dalla lingua parlata, un inglese secentesco ricco di intonazioni ed espressioni desuete e perciò stesso assai evocative. Un’alchimia pressoché perfetta e frutto di 5 anni di ricerche, studi e approfondimenti di carattere storico, aneddotico, folclorico, ambientale, che si sono poi risolti in 26 giorni appena di riprese.
La complessità dell’intreccio tematico e narrativo di TW emerge, fondamentalmente, dai due macro-insiemi di duali contrapposti che lo caratterizzano: Vecchio Mondo/Nuovo Mondo, Old England/New England, società-comunità/famiglia, divino/demoniaco, per ciò che attiene al primo; cultura/natura (anche spartiacque simbolico fra il primo e il secondo insieme), maschile/femminile, età adulta/fanciullezza, legge/pulsione, certezza fideistica/dubbio, familiare/perturbante, per ciò che attiene al secondo. Se il primo gruppo svolge la funzione di delineare lo sfondo storico e di garantire lo sviluppo tematico del film, il secondo si assume invece il compito di creare le premesse per la progressione drammaturgica.
Entrambi, peraltro, muovono lo sviluppo del racconto e risultano strettamente complementari, in modo tale da salvaguardare la compattezza e l’unità dell’opera, mantenendosi sempre reciprocamente aperti e comunicanti, anche perché senza l’uno, l’altro faticherebbe ad affiorare. Va notato anche che, se nel secondo insieme i due estremi della dicotomia sono compresenti, nel primo, invece, uno dei due è pressoché sempre assente, eppure indispensabile, nella sua assenza, per far scaturire il senso del suo opposto.
La denominazione “New England” contiene in sé, però, l’ambiguità e la contraddizione di un proiettarsi avanti pur guardando indietro, della ricerca di un Nuovo le cui radici sono già stabilite e consolidate, segnando, in definitiva, la continuità fra tale Nuovo e il Vecchio, oltre al sottendersi di un atteggiamento irriducibilmente colonialista e conservatore, anziché l’affermarsi di una effettiva apertura verso un mondo estraneo e marcato da un’alterità irriducibile. Con queste premesse, è inevitabile che le Terre Selvagge si ergano come la minaccia dell’ignoto di fronte a chi ripone esclusivamente in se stesso e nel proprio dio la cieca fiducia di una superiorità morale meramente ipotetica.
È dal manifestarsi di tale presunta superiorità che scaturisce lo scontro in apertura del film, fra il capofamiglia William (Ralph Ineson) e la comunità di cui è cittadino, in quanto sia l’uno sia l’altra ritengono di perseguire, ciascuno a modo proprio e secondo parametri difformi, gli autentici precetti delle Sacre Scritture. William, assieme alla sua famiglia, viene perciò esiliato dal piccolo villaggio in cui risiede. A partire dall’allontanamento di William e dei suoi congiunti (la moglie Katherine, la primogenita Thomasin, il secondogenito Caleb e i due gemelli Mercy e Jonas), scompare la dimensione sociale aggregata dall’orizzonte del film e rimane esclusivamente quella nucleare della famiglia, costretta a conquistarsi uno spazio in cui sopravvivere all’interno dei boschi ancora inesplorati del New England (1).
1) Il film, per motivi prettamente economici, risulta girato nella zona della località selvaggia di Kiosk, Ontario, in Canada, un’area che, anche per le difficoltà ambientali, non risultava in cima alle preferenze di Eggers, che avrebbe voluto invece lavorare proprio nel New England, terra nella quale ha trascorso la fanciullezza.
Assieme alla dimensione comunitaria si dissolve anche quella civilizzata, e i membri della famiglia di William sono costretti a confrontarsi, innanzitutto, con l’asperità di un territorio impervio e inospitale, che contribuirà in modo determinante alla loro sconfitta. Il progredire delle contrarietà, la disfatta nel tentativo di domare una realtà indomabile – “We will conquer this wilderness. It will not consume us” dice William al secondogenito Caleb, all’apparire delle prime e già insormontabili difficoltà – e l’impossibilità di assumere il controllo, innanzitutto topografico, di un ambiente che sembra un immenso labirinto nascono in primo luogo dalla potenza della Natura, di fronte alla quale l’uomo bianco e il suo dio sembrano dapprima vacillare, per poi cedere rovinosamente. Dall’impossibilità di sopravvivere in un contesto tanto estremo scaturiscono quindi, come inevitabile conseguenza, le conflittualità latenti, che opereranno come un invisibile morbo all’interno del nucleo familiare, conducendolo alla distruzione.
Due sono i primi foschi presagi della tragedia imminente, cui ne seguiranno parecchi altri, in un crescendo di inquietudine magistralmente orchestrato da Eggers: il nuovo nato, il piccolo Samuel, scompare misteriosamente (2) e il raccolto, su cui William aveva fatto affidamento per l’inverno, marcisce. La Wilderness non sembra soggiogabile, perciò l’uomo dovrà simbolicamente regredire alla condizione di cacciatore/predatore, semplicemente per non morire di fame, primo passo indietro rispetto alla dimensione civilizzata da agricoltore stanziale.
2) Eggers mostra, in due sequenze consecutive, la propria abilità registica, giocando d’ellissi. Dapprima riprende Thomasin, la primogenita di William, mentre gioca con Samuel, che letteralmente le sparisce di sotto gli occhi, e poi, dopo aver mostrato la ragazza mentre si inoltra nella macchia alla ricerca del fratellino, con un magistrale stacco che annichilisce l’orientamento spazio-temporale, introduce lo sguardo nella spelonca in cui una vecchia e cadente megera sembra occuparsi del piccolo, dapprima con apparente amorevolezza, anche se poi fa capolino una lama; un altro stacco mostra la cariatide mentre ricopre il suo corpo di una viscida sostanza rossastra, il cui colore è acuito dal tipo d’illuminazione dell’ambiente. Niente di più è dato alla conoscenza dello spettatore, anche se parecchio riceve la sua immaginazione.
Da qui in poi, ogni momento della vita quotidiana della famiglia diviene occasione di conflitto, mentre i segnali inquietanti si moltiplicano. Iniziano le prime controversie legate all’età e al sesso dei componenti del nucleo, con i due genitori a rappresentare l’autorità della legge (sia pure con dissapori interni alla coppia, specie per motivi legati al rapporto privilegiato fra William e la figlia maggiore Thomasin, che scatenano la gelosia latente della moglie di William, Katherine), che per chiari motivi culturali si configura come legge divina, precetto biblico, e i quattro ragazzi a incarnare in varie forme la dimensione di una pulsione repressa, quindi sotterraneamente coltivata e pronta a erompere, talora con intensità brutale.
Mentre i due fanciulli più grandi, Thomasin (la bravissima e magnifica Anya Taylor-Joy) e Caleb (Harvey Scrimshaw), sembrano adombrare una recondita passione incestuosa, motivata anche dall’assenza di altri coetanei – uno degli effetti della solitudine e della lontananza dalla dimensione della vita comunitaria – i due gemelli più giovani sviluppano un isolamento dalla realtà familiare, vivendo appartati, covando un sordo rancore specie verso la sorella più grande, e soprattutto trasformando i loro passatempi in occasioni per comunicare e giocare col nero caprone della fattoria, Black Phillip, la cui figura assumerà ben presto inquietanti contorni sovrannaturali, anche se non attraverso il ricorso alle possibilità enfatizzanti e spettacolari del visivo, bensì grazie alla sua capacità evocativa e allusiva, specie per l’immaginario di chi ha familiarità con certi arcaici accostamenti simbolici.
Naturalmente, essendo la famiglia di William l’unica comunità presente in quel contesto ambientale, sarà al suo interno che i suoi membri cercheranno la causa delle loro sciagure, il capro espiatorio da sacrificare per mondarsi delle loro colpe innanzi al loro Dio. La parola "strega" – dotata all’epoca, evidentemente, di un certo potere, oltre che terrorizzante, anche e soprattutto taumaturgico e apotropaico (una volta che il Male viene identificato tramite un nome e un volto, fa meno paura), dato che consentiva, agli sprovveduti fedeli delle comunità cristiane dell’epoca e alle molto meno sprovvedute autorità che li governavano, di individuare la causa del Male con certezza, per poi liberarsene, attraverso il rito purificatore della messa a morte – comincia a rimbalzare di bocca in bocca, fra i membri della famiglia, e sembra condurre a Thomasin, la quale a sua volta muove ai gemelli la medesima accusa. Nessuno di loro sarà più in grado di uscire dal circolo vizioso delle accuse reciproche, che li accompagnerà fino al tragico epilogo.
Il Soffio Vitale della Wilderness, cioè l’autentico sovrano di quei luoghi (che solo dei poveri di spirito che non vedranno il Regno dei Cieli chiamano, con fantasia assai limitata, Satana), anziché sottomettersi alla debole mano di quegli esseri umani, penetra sottilmente nelle loro fragili anime e attraversa le altrettanto fragili mura della loro casa, per sconquassarne le vite, assieme alle loro stolide credenze. L’uomo di fede conoscerà allora, nella sua forma più autentica, la dimensione della solitudine di fronte all’incommensurabilità della Natura, scoprendo quanto debole e impotente egli possa essere, qualora quel Dio in cui aveva riposto tutte le proprie speranze si riveli un’illusione.
Eggers gioca sagacemente coi luoghi comuni del sacro, della superstizione e del folclore (non a caso, il sottotitolo del film è A New-England Folktale), esprimendo l’orrore senza mai scadere nel grottesco o rimestare nel ripugnante, ma lavorando con sapienza i suoi personaggi ai fianchi e suggerendo un’angoscia che abita le pieghe riposte dell’oscurità, sia quella dell’anima sia quella dell’immagine (illuminata pressoché sempre da luci naturali, ragion per cui, nelle scene notturne o con fioche fonti di chiarore, il buio si impadronisce sovente del visivo, risucchiando i personaggi).
TW, oltre a delinearsi come horror raffinato, pungente e crudele, si rivela in modo esplicito come film potentemente politico e, sia pure parzialmente, anche laico, giacché affronta i temi nodali dell’emancipazione umana dalle catene dell’adesione acritica ai dogmi e ai rigidi dettami di un credo restrittivo e malriposto, perché estende il tema dell’emancipazione alla figura femminile centrale, cioè Thomasin, l’unica della famiglia a salvarsi dalla distruzione, divenendo parte della congregazione di sacerdotesse della Wilderness (streghe, secondo l’accezione comunemente diffusa), perché infine getta in faccia allo spettatore le grevi dinamiche esistenziali che avvolgono la vita di una famiglia di ottusi integralisti religiosi.
La parte finale può forse dare l’impressione di una certa collocazione ideologica (quindi lontana da un atteggiamento autenticamente laico) anti-cristiana (non è un mistero il successo che il film ha riscosso presso alcune congregazioni sataniste, ad esempio il Satanic Temple di Detroit), anche se marcata da un profondo spirito libertario (il libro, la parola, la conoscenza e l’affrancamento dai vincoli, prospettati dalla voce suadente dello Spirito della Wilderness a Thomasin, si ritrovano giocoforza contrapposti alla sottomissione, all’oscurantismo, alla regola), ma in The Witch non è l’immagine a essere ideologica/ideologizzata, bensì, tutt’al più, l’occhio di chi guarda, qualsiasi sia la propria divinità di riferimento.
Gian Giacomo Petrone
Sezione di riferimento: Into the Pit
Scheda tecnica
Anno: 2015
Durata: 89’
Regia, soggetto e sceneggiatura: Robert Eggers
Fotografia: Jarin Blaschke
Musiche: Mark Korven
Montaggio: Louise Ford
Interpreti principali: Anya Taylor-Joy, Ralph Ineson, Kate Dickie, Harvey Scrimshaw
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