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L’ULTIMO UOMO DELLA TERRA - La zona morta

30/4/2014

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Roma, quartiere dell’EUR, estate 1961: l’occhio di una mdp girovaga senza meta nei luoghi dove un uomo e una donna si sono dati appuntamento. Nessuno dei due vi si recherà. La mdp è libera, così, dall’incombenza di centrare il proprio sguardo sui due personaggi e sulla loro storia e si sofferma, semplicemente, a osservare: una donna con una carrozzina, edifici completati o in costruzione, tratti di vie deserte; poi un cavallo condotto da un fantino, un raro passante, delle inquadrature ravvicinate o dei campi lunghi dall’alto in cui regnano il vuoto, il silenzio o tutt’al più i rumori del vento o dell’acqua di un rigagnolo; un autobus deposita i propri passeggeri che si disperdono. Poi, come se i radi passanti fossero stati risucchiati da una forza invisibile, rimangono solo i luoghi, le strade deserte, un mondo senza più traccia dell’umano.
Antonioni chiude L’eclisse (1962) non solo escludendo dal finale i due protagonisti, ma addirittura eliminando ogni traccia di un’umanità sempre più tenue e alla deriva, creando un (non) luogo oltre i confini della realtà, un angosciante paesaggio liminare in cui i segni della civiltà sembrano vestigia di epoche remote.
Due anni dopo, esattamente negli stessi luoghi deprivati di ogni impronta antropica, lì dove il film di Antonioni si concludeva, inizia L’ultimo uomo della terra. Non sembrano trascorsi due anni, ma appena un giorno. Il sole sorge sul quartiere di una città fantasma (1), la mdp ritrova le stesse strade spopolate, gli edifici in costruzione, i palazzi ormeggiati in fila e poi, finalmente, gli esseri umani, o quel che ne resta. Alcuni corpi stesi sull’asfalto punteggiano le vie deserte. Un carrello laterale percorre una di queste vie fino ad arrestarsi di fronte a un’abitazione sulla cui porta si notano un crocefisso, uno specchio e una corona d’aglio. Stacco. L’occhio meccanico si avvicina al davanzale di una finestra oltre la quale, su un letto, è disteso un uomo addormentato.

1) Il quartiere dell’EUR, con le sue forme architettoniche ai confini con l’astrazione, ha titillato spesso la fantasia di svariati registi prevalentemente italiani. Alcuni esempi: dall’episodio felliniano di Boccaccio ’70 (1962) a Il boom di De Sica e I mostri di Risi (episodio I due orfanelli), entrambi del 1963, passando anche per il curioso La decima vittima di Petri (1965). Nel 1982, con Tenebre, anche Argento ne rimane affascinato. Nel 1999, Julie Taymor vi ambienta il suo Titus. Negli ultimi tempi troviamo invece, dal 2005 al 2010, Veronesi, Brizzi e Muccino far tappa nel quartiere romano... Tanto per fare un confronto con il nostro glorioso passato. 

Là dove il finale della pellicola di Antonioni caricava sullo spettatore tutto il fardello di uno sguardo sospeso in una vera e propria Zona – uno spazio svuotato di ogni significato topografico, in cui emergeva in primo piano il Tempo puro, privo quindi di ogni coordinata cronologica – il film di Salkow/Ragona (2) utilizza il tramite di un personaggio carismatico, Robert Morgan (interpretato, non a caso, dal sublime Vincent Price), sulle cui spalle grava tutto il peso di uno spazio sconfinato, che coincide con la totalità del pianeta: la terra intera è una Zona, una Zona morta. Non importa, quindi, neppure sapere dove la vicenda sia ambientata (3), dato che Morgan è l’ultimo individuo della propria specie e l’umanità è estinta. Forse. 

2) Caso felicissimo di opera di genere – ispirata comunque da un capolavoro della letteratura sci-fi come Io sono leggenda del (mai bastevolmente) compianto Richard Matheson – che viaggia contiguamente, come accennato, ai percorsi dell’autorialità più esposta e apprezzata, L’ultimo uomo della terra si guadagna, fin dall’inizio della realizzazione, la fama di oggetto misterioso e, nel tempo, di vero e proprio feticcio per cultori. Già è sufficiente l’incerta paternità della regia, assegnata, a seconda dell’edizione italiana o americana, a Ragona o a Salkow, a conferire, anche solo alla lavorazione di questo film, un’aura di unicità e mistero. Un altro aspetto enigmatico è costituito dai credits dell’edizione americana che attribuiscono a Matheson stesso (con lo pseudonimo di Logan Swanson) un contributo nella stesura della sceneggiatura. 
3) Il romanzo di Matheson è ambientato in una cittadina americana, mentre nel film le coordinate geografiche si perdono, dato che si notano elementi scritturali o segnaletici, inseriti nella diegesi, indifferentemente vergati in inglese o in italiano, oppure ascrivibili alternativamente all’una o all’altra cultura. Di certo l’ambientazione romana, sia pure in una zona moderna e a tratti avveniristica, lontana quindi dalle vestigia ataviche della civiltà latina, ha poco o nulla della provincia americana. 

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Fin dalla sua comparsa Morgan è l’unico fulcro della narrazione. In poche, intensissime inquadrature, lo spettatore viene messo al corrente di tutto ciò che c’è da sapere di essenziale su di lui. Dapprima il suono di una sveglia lo desta (segno di abitudine reiterata), poi lo si nota alzarsi ed entrare in una specie di soggiorno dove campeggiano vari calendari che vanno dal 1965 (dove è evidenziato il giorno 22 dicembre) al 1968 e sui quali i giorni trascorsi sono stati ossessivamente cancellati dal personaggio tramite una croce. Attraverso la voce over del protagonista stesso si apprende ciò che ne marca l’esistenza: “Dicembre 1965, da questo giorno ho ereditato il mondo. Sono solo tre anni e mi sembra più di un secolo”.
Il contrasto fra le azioni che Morgan compie e ciò che la sua voce evoca, cioè fra il suo vivere insensatamente giorno dopo giorno, contando, e l’infinità del tempo che lo aspetta, delineano i tratti fondamentali del protagonista. Egli è un ergastolano planetario e la prigione è costituita, appunto, dal mondo intero. A nulla valgono i suoi tentativi di mettersi in contatto, tramite una ricetrasmittente, con eventuali altri sopravvissuti. Le onde della ricezione conducono solo suoni gracchianti: nessuna risposta. Fuori dalle mura del suo rifugio lo attende ciò che resta dell’umanità, dopo una terribile epidemia che ne ha decimato i componenti, lasciando i superstiti quali stolidi umanoidi privati della scintilla dell’intelligenza, cioè di fatto dei predatori, le cui abitudini e pulsioni richiamano quelle del vampiro.
Un lungo flashback rievoca le tappe che hanno condotto l’umanità a essere sterminata da un aberrante morbo. Le autorità sanitarie mondiali sono in allarme per il diffondersi di una patologia, portata da un batterio sconosciuto, che non lascia scampo. Vanamente gli scienziati ricercano una cura. Morgan, che fa parte di un team di microbiologi, tenta anch’egli di arginare l’epidemia, ma senza successo. Si ammalano anche sua moglie e sua figlia. Là dove la scienza risulta impotente, inizia a farsi spazio la superstizione, il mito. Le autorità proibiscono alle famiglie di seppellire i propri cari, imponendo loro di consegnarli ai militari, affinché i cadaveri siano bruciati. Il mondo sembra fare un salto indietro di parecchi secoli, per tornare ai tempi della peste e dei monatti. Inizia a circolare la voce – anche fra coloro che hanno eletto la razionalità a unica guida, come Sam Cortman, collega di Morgan e suo amico – che i morti ritornino in vita sotto forma di vampiri. Morgan capirà solo quando sua moglie, dopo essere stata da lui seppellita, tornerà a fargli visita pallida, esangue e alla ricerca della vitale emoglobina. L’homo sapiens scompare e la terra viene così colonizzata da una nuova e al contempo originaria razza di predatori, che non esitano a nutrirsi dei loro simili, in una lotta selettiva dove solo i più forti sopravviveranno.
Morgan resiste come unico superstite della sua specie, senza contrarre il morbo, perché il suo sangue è miracolosamente immune e questo lo rende forte, sano e spaventosamente solo. La voce over continua del personaggio, in forma di flusso di coscienza, rimarca, a un tempo, la centralità del suo punto di vista nel racconto filmico e il fluire del suo pensiero senza possibilità di dialogo, dato che egli non ha interlocutori. I vampiri che vengono tutte le notti a perseguitarlo, fra cui si annida anche Sam Cortman, il suo amico di un tempo, non sono altro che bestie feroci con sembianze umane, che biascicano il suo nome come un mantra per cercare di ipnotizzarlo. Solo il loro involucro corporeo richiama alla mente la matrice della loro origine ormai dispersa come sabbia nel vento.
Perciò Morgan risulta anche l’ultimo depositario della memoria collettiva della specie umana, una memoria che è diventata individuale e che scomparirà per sempre se altri non saranno pronti a raccoglierla e a custodirla. Chiuso nel suo rifugio di notte, protetto dai simboli apotropaici di antiche, arcane superstizioni, come la croce, l’aglio, gli specchi (4), di giorno Morgan uccide. La gran parte del suo tempo diurno è dedicata a scovare i revenant nei loro rifugi e impalarli, per poi arderli nella grande cava fumante dove, tre anni prima, i cadaveri dei primi contagiati avevano iniziato a essere gettati per tentare di arginare l’infezione.

4) Contrariamente alla più diffusa vulgata del vampiro, la cui immagine non può essere riflessa da alcuna superficie, nel film di Salkow/Ragona i non-morti vedono la propria immagine sugli specchi e non riescono a sopportarla, ne hanno orrore, forse perché vi scorgono i lineamenti di una specie vivente a cui non sentono più di appartenere.

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Uccidere vampiri metodicamente rende il protagonista però anche un grottesco e tragico genocida, un duplicato abnorme del bacillo che aveva sterminato l’umanità, dato che egli, in piena coscienza oltretutto, agisce con l’unico scopo di sterminare la nuova specie padrona del pianeta. Il nuovo flagello si chiama Robert Morgan. Per il protagonista si tratta però anche e soprattutto di sopravvivenza, non solo fisica, ma anche psicologica. In un mondo regredito allo stadio primordiale dell’homo homini lupus (anche se, paradossalmente, l’ultimo e unico uomo autentico rimasto è proprio Morgan), l’unica speranza per chi resta è uccidere i propri nemici e difendere il proprio territorio nonché la propria identità, anche perché a Morgan non rimane nemmeno l’estrema possibilità di diventare uno di loro, visto che è immune al contagio: egli, oltre a non volere, non può diventare parte della nuova collettività che assomiglia sinistramente a un branco.
La missione che egli ha deciso di svolgere ha però anche un significato intensamente psicologico per il protagonista, giacché, nell’attesa di un evento risolutore, egli tiene impegnate le proprie giornate attraverso uno scopo. L’organizzazione del proprio tempo risulta fondamentale per l’uomo civilizzato, ecco perché Morgan concepisce la propria attività di sterminatore di vampiri come un lavoro. Nel suo laboratorio fabbrica i paletti per impalare i non-morti, e sulla piantina della città organizza la caccia, quartiere per quartiere, mentre il resto del tempo lo trascorre nel suo rifugio ad aspettare che un nuovo giorno cominci: l’arte di sopravvivere.
L’incontro, dapprima con un cane (che però Morgan è costretto a sopprimere, dato che l’animale è affetto dal male), poi con una donna (Franca Bettoja) sembrano risvegliare il desiderio del protagonista di vivere autenticamente, di prendersi cura finalmente di qualcuno al di fuori di sé. La speranza sembra tenuta desta anche dal fatto che l’incontro con la giovane avviene di giorno, nel periodo cioè in cui i vampiri, indeboliti, riposano. Morgan è costretto però a ricredersi, quando, dopo aver esaminato il sangue di lei, riscontra tracce del bacillo. Scoperta doppiamente terrificante, giacché le speranze del nostro di essersi imbattuto in un altro essere umano sembrano naufragare, insieme all’inviolabilità della propria dimora.
La donna si schermisce, spiegandogli la sua provenienza da una comunità di sopravvissuti, che, anche se contagiati, hanno scoperto un antidoto per bloccare, sia pure senza debellare, la malattia. Il suo scopo è quello di prendere contatto con Morgan e di svelare se egli abbia rinvenuto un vaccino più efficace del loro. Morgan ha allora l’illuminazione folgorante che aspettava da tempo: inietterà il proprio sangue immunizzato nelle vene della donna per vederne la reazione.
L’esperimento funziona, la donna guarisce; Morgan non solo ha trovato, ma è diventato il nuovo vaccino. È però troppo tardi, perché i compagni di lei si avvicinano alla dimora di Morgan a notte inoltrata e, dopo aver sterminato i vampiri che l’assediano, iniziano a dargli la caccia. L’emersione di questa seconda comunità di ibridi che non sono né del tutto umani né del tutto vampiri rimescola le carte, gettando una luce ancora più fosca su un orizzonte già estremamente sinistro. La nuova razza (che aspira a essere) padrona ha deciso di riscrivere da zero la storia dell’umanità distrutta e, come ogni racconto originario, sarà una storia scritta con il sangue, anche quello sano, ma vecchio, di Morgan.
Lo sterminio dei vampiri, davanti all’abitazione del protagonista, ha il sapore di una spedizione punitiva da regime totalitario. L’uccisione del protagonista sull’altare della chiesa in cui si è rifugiato è un vero e proprio rito sacrificale. Scompare l’ultimo uomo della terra e con lui, forse, la possibilità per chi rimane di ritrovare la propria umanità. In ogni senso.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Into the Pit


Scheda tecnica

Anno: 1964
Durata: 85’
Regia: Ubaldo Ragona, Sidney Salkow (ed. USA)
Soggetto: tratto dal racconto I Am Legend (1954) di R. Matheson
Sceneggiatura: Furio M. Monetti, Ubaldo Ragona, Logan Swanson (alias R. Matheson, ed. USA)
Fotografia: Franco Delli Colli
Musiche: Paul Sawtell, Bert Shefter
Montaggio: Franca Silvi, Gene Ruggiero (ed. USA)
Interpreti principali: Vincent Price, Giacomo Rossi-Stuart, Franca Bettoja, Emma Danieli

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