La metafisica occidentale, nata in Grecia con Platone, vede delinearsi il suo nucleo concettuale dominante attorno al verbo idéin (vedere), a cui risultano strettamente correlati i sostantivi idéa (idea, veduta) ed é-idos (e-videnza, essenza, ciò che si dà stabilmente alla vista). Il conoscere autentico si configura come theoréin, vocabolo composto da due termini (théa e oráo) che rimandano all’atto del vedere. (1) La nascita della metafisica coincide con un sostanziale spostamento dal cosmo (l’essere, la phýsis) all’uomo, che diviene il métron, la misura di tutte le cose. La ricerca della verità, che sostanzia ogni interrogativo non solo dell’indagine filosofica, ma di ogni sapere, il rapportarsi all’essere per svelarne il mistero vengono a configurarsi perciò come attività che pongono al proprio centro l’uomo e il suo sguardo.
1) Per un primo approfondimento del tema, si rimanda alla consultazione dei seguenti testi: Martin Heidegger, Introduzione alla metafisica, Mursia, Milano 1968; Umberto Curi, La forza della sguardo, Bollati Boringhieri, Torino 2004; Paolo Gambazzi, L’occhio e il suo inconscio, Cortina, Milano 1999.
Diversamente dalla cultura greca, quella ebraico-cristiana risulta marcata invece dal primato dell’ascolto – in particolare, come è intuibile, della parola divina e della rivelazione che l’accompagna – che indica passività, quindi sottomissione, obbedienza. Non a caso, sia in greco che in latino, per indicare tale atteggiamento, sono utilizzati i verbi hyp-akoúein e ob-audire, che senza le preposizioni indicano direttamente l’ascoltare, l’udire. (2) Si tenga inoltre presente la polisemia del verbo ebraico shamá che indica sia l’ascoltare che l’accettare, a cui risulta collegata la preghiera dello Shemà, la cui frase di apertura “Ascolta, Israele, il Signore è il nostro Dio, il Signore è Uno” va pronunciata coprendosi gli occhi.
L’uomo occidentale si trova così diviso fra le due opposte istanze dell’interrogare il reale, liberamente e senza dogmi, penetrandone il mistero con la forza incoercibile del proprio sguardo, e dell’ascoltare con reverenza una verità già rivelata. Non tutto è così semplice, però. Fondare la propria conoscenza esclusivamente sulla potenza, sovente elusiva e illusoria, del proprio occhio e della propria capacità di discernimento può condurre a tragici abbagli, a chimere senza fondamento, là dove invece il disporsi all’ascolto dell’altro – non necessariamente di un dio – implica apertura, dia-lógos, con gli altri uomini e con il mondo stesso. Come sostiene Heidegger: “Nonostante il progresso verso nuove misure e nuovi scopi, l’uomo si inganna sull’autentica essenza delle sue misure. Misura male anche se stesso, e questo soprattutto quando assume esclusivamente la propria soggettività come misura per tutte le cose.” (3)
2) Cfr. U. Curi, op. cit. pp. 16-17.
3) M. Heidegger, Sull’essenza della verità, La Scuola, Brescia 1973, rist. 1996, p. 37.
Il dottor Xavier ( Ray Milland ), dopo anni di studi e ricerche, riesce a creare un composto chimico, in forma di collirio, che, una volta applicato, aumenta lo spettro della percezione visiva, consentendo di vedere attraverso i corpi solidi. Oltre che inventore del composto, Xavier decide, a suo rischio, di esserne anche l’unico sperimentatore, l’unica cavia. Lo scopo, inizialmente nobile, di servire la causa della medicina, sostituendosi ai macchinari a raggi X utilizzati per le diagnosi, nonché ai loro errori e imperfezioni, diviene ben presto l’ossessione di estendere il dominio del proprio sguardo su tutto il visibile. “Mio caro amico, solo Dio può vedere tutto” gli dice un collega e amico, il dottor Brant ( Harold J. Stone ), durante uno scambio di vedute già all’inizio del film, “Mio caro dottore, io mi sto avvicinando a Dio”, gli risponde Xavier. Gli effetti del prodigioso farmaco risultano, con il procedere delle applicazioni, persistenti e progressivi; gli strati di realtà che il protagonista è in grado di attraversare col proprio sguardo aumentano via via che egli accresce il dosaggio. Mano a mano che aumenta la sua potenza visiva si ingrandisce però anche il divario con gli altri esseri umani – amici e colleghi – e col resto del mondo.
In realtà, ciò a cui si assiste non è un effettivo potenziamento del potere dell’occhio, bensì una mutazione della natura della visione. Penetrare gli strati di realtà non significa vedere di più, ma vedere diversamente. Superare i confini della materia, la sua opacità e consistenza, indica l’impossibilità di coglierne la totalità delle forme, delle linee, dei contorni, giacché essi scompaiono per lasciare spazio agli strati sottostanti, fino a giungere a una percezione pre o post-umana, aberrante, mostruosa e inarrestabile.
Quando gli effetti del collirio sono ormai divenuti irreversibili e sempre più dolorosi, Xavier descrive così le proprie sensazioni: “Vedo la città, come se non fosse mai nata, che si leva verso il cielo con dita di metallo. Arti senza carne, travi senza cemento, insegne sospese senza sostegni, fili che corrono senza un palo. Una città mai nata. La carne dissolta in un acido di luce. Una città di morti.” Una visione primigenia e lisergica, in cui le forme degli oggetti si stemperano fino ad annegare in un oceano abbacinante di luce.
L’errore fatale di Xavier è quello di non aver saputo arrestarsi innanzi al confine che separa l’ansia di conoscere dall’ambizione di controllare, vedere e sapere tutto. I primi strati di realtà non gli bastano, scrutare all’interno del corpo umano e riuscire a salvare una vita – come gli accade quando ha ancora il diritto e la capacità di esercitare la professione medica – non gli è più sufficiente. Una volta preda della propria hýbris conoscitiva, egli non saprà e vorrà più recedere. Questo sarà anche l’inizio della sua rovina.
Incapace di ascoltare i prudenti consigli dei colleghi e intrappolato nel circolo vizioso di una nuova natura percettiva progressiva e irreversibile, Xavier, dopo aver anche determinato, in un impeto di collera, la morte del dottor Brant, sarà bandito dalla società civile e costretto alla fuga. È comunque principalmente a causa di questa nuova natura percettiva, letteralmente di un inedito e non esperibile, per gli altri esseri umani, punto di vista sulle cose, che egli verrà rifiutato dai suoi simili e sarà considerato un estraneo, uno ksénos.
L’impossibilità di con(di)videre la propria mostruosa esperienza della realtà rende Xavier, in un crudele slittamento semantico, un mostro. Ed egli, col progredire della patologia che affligge i propri occhi, lo diventerà anche letteralmente. Il mutamento del suo aspetto avrà come segno visibile proprio il modificarsi abnorme del colore, della luminosità e delle proporzioni dell’iride e della pupilla. Egli sarà quindi costretto a dotarsi di pesanti occhiali da sole per ripararsi da due diverse minacce: dalla luce del sole, ormai insopportabile per il suo nervo ottico, e dagli sguardi indiscreti degli altri.
L’uomo di scienza che si era fatto abbagliare dalle apparentemente sconfinate possibilità dei saperi e delle tecniche da lui abilmente padroneggiati si ritrova ora sull’altro versante, quello della magia e della superstizione. Pur essendo frutto di studi accademici ed esperimenti di laboratorio, il suo potere viene ritenuto un dono soprannaturale.
Un giorno entra nel suo fatiscente “studio” una sua amica e collega di un tempo, la giovane dottoressa Fairfax ( Diana Van der Vlis ), che lo ha lungamente cercato. Xavier, sotto i pesanti occhialoni scuri e soprattutto a causa della vista alterata, non la riconosce. I suoi occhi, ormai, non sono in grado di discernere le fisionomie, di attribuire le identità, ma solo di scrutare ottusamente al di sotto della coltre della materia. Per la prima volta, però, egli mostra di capire, non più attraverso gli occhi, ormai quasi inservibili, ma attraverso gli orecchi: è la voce della donna, infatti, a rivelargli la sua identità e a convincerlo ad abbandonare quel luogo per andarsene con lei. Xavier, dopo una vita trascorsa nel suo dapprima chiaro e poi oscuro scrutare, finalmente decide di prestare ascolto a qualcuno. “Oh Dio, darei qualsiasi cosa per un po’ di buio!” dice alla donna.
Comincia così l’ultimo tentativo di raggiungere la salvezza e la pace. Ogni flebile speranza cadrà, però, ben presto. Dopo essere stato individuato dalla polizia, che lo cerca sia per l’omicidio del collega, sia in quanto ritenuto un mostro pericoloso da togliere dalla circolazione, Xavier fugge da solo, lontano dai centri abitati, dapprima in auto, poi a piedi. Durante questo suo estremo peregrinare, privo ormai del riparo degli occhiali, si imbatte in una stravagante cerimonia religiosa, officiata da un invasato predicatore all’interno di un tendone, i cui astanti sono gli altrettanto invasati abitanti di una piccola comunità rurale. Xavier entra nel bizzarro luogo per trovare il conforto di un riparo dal sole e, forse, qualcuno che sia in grado di ascoltarne la pena. Una volta finito il sermone del predicatore, Xavier si avvicina all’altare, mentre i fedeli si ritraggono sgomenti al suo passaggio, per aver notato il predominare della tonalità inchiostro sui suoi bulbi oculari e le sue pupille: masse oscure e limacciose, ormai prive di ogni scintilla di vita.
“Sei un peccatore? Desideri essere salvato?” viene chiesto a Xavier, che risponde: “Salvato? No. Sono venuto per dirti una cosa che vedo. C’è una grande oscurità, più lontana del tempo stesso. Oltre l’oscurità c’è una luce che cambia e scintilla. E, nel centro dell’universo, l’occhio che ci vede tutti.” Il predicatore non è in grado di capire la pena e la visionarietà folle delle parole di Xavier, fermo com’è sulla sua posizione di incrollabile e cieca fiducia in dogmi antichi e forse superati, e gli intima, secondo il celebre detto del Vangelo di Matteo: “Se il tuo occhio ti reca offesa, cavalo.” Xavier se li strapperà entrambi, ma non per obbedienza a parole per lui vuote e lontane – non più visione né ascolto per la sua anima persa – e nemmeno per punirsi, ma per ritrovare la pace, forse, nel buio, in un ultimo viaggio verso il paese del silenzio e dell’oscurità.
Gian Giacomo Petrone
Sezione di riferimento: Into The Pit
Scheda tecnica
Titolo originale: X: The Man with the X-ray Eyes
Anno: 1963
Durata: 79’
Regia: Roger Corman
Sceneggiatura: Robert Dillon, Ray Russell
Fotografia: Floyd Crosby
Musiche: Les Baxter
Montaggio: Anthony Carras
Interpreti principali: Ray Milland, Harold J. Stone, Diana van der Vlis, Don Rickles, John Hoyt
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