Eppure, tra le strade tetre e mortali di una qualsiasi periferia urbana, si annida il bocciolo della purezza. C’è Frank (Caleb Landry Jones), efebica creatura ammalata nel sangue, destinata a insinuare in Eleanor il desiderio di verità, condivisione, normalità. A un tempo vittima e oggetto d’amore. Chiave di volta nella tradizionale lotta tra anime bianche e anime nere.
Clara ed Eleanor condividono il sangue e la medesima natura, eppure non potrebbero apparire più diverse. La prima è colei che si è calata nell’orrore della vita e della morte: la vampira da tradizione, figura sensuale e sessualizzata che, come un serpente incantatore, ipnotizza le sue prede con mosse e danze provocanti e sinuose. Clara si sporca le mani e difende la giovane Eleanor, proteggendola e salvaguardandone l’innocenza. Ironico paradosso. Eleanor, che pure si nutre di sangue, è identificata con una sorta di tragico candore (ma insieme anche di colpa) da preservare. Ottima la prova delle due attrici, che non potrebbero essere più diverse eppure suggeriscono da subito l’idea di un rapporto empatico, tutto giocato sui contrasti.
L’intero film è in verità strutturato sulla contrapposizione non solo tra personaggi ma tra epoche: la prima storica, la seconda contemporanea. Entrambe affascinanti, misteriose. Entrambe decadenti. La dissolutezza, la perdita di moralità, l’affannosa ricerca del piacere della carne, o di un corpo eternamente giovane, crea più orrore nella cornice del passato che in quella presente. Quelli dell’epoca napoleonica sono non solo gli albori della storia di Clara e Eleanor, ma l’inizio di una crisi morale e umana che inevitabilmente conduce alla perdizione. E poi al niente. All’oggi. Una città rossa, nera e blu, tinta di colori forti ma pervasa di insicurezze. Crea pena la presentazione infelice e desolata della nostra società, popolata di vampiri dormienti ma già abitata da persone in crisi esistenziale ed emotiva, disperate di trovare pace per l’incompiutezza della propria vita.
Questo è il mondo senza le imposizioni pop della Twilight Saga. Senza i vampiri luccicanti, vegetariani e patinati dell’epoca targata Stephenie Meyer. La sceneggiatrice Moira Buffini, che per il film ha ripreso e adattato la propria pièce teatrale, non brilla per originalità nello sviluppo dell’intreccio, ma sa raccontare i personaggi. L’ambizione antropologica e culturale sulle radici caraibiche del vampirismo trova un senso solo nella rappresentazione visiva offerta da Neil Jordan, mentre ciò che davvero interessa a livello di scrittura è la dimensione psicologica. La prospettiva su Byzantium è quella di un quadro post-femminista in cui le gloriose e dannate protagoniste vagano in cerca di una pace inesistente, piume nere impossibilitate a uscire dal proprio corpo, attaccate alla vita (?) solo per vegliare l’una sull’altra. Vampire carnose, dolenti e spregiudicate, antiche e ultra-moderne, che finiscono tuttavia col rincorrere il solo desiderio di avere un compagno, l’amore, il simile con il simile.
È un viaggio nel tempo della tradizione letteraria, cinematografica e culturale, questo Byzantium di Neil Jordan, che con gli elementi del fantastico ha un rapporto evidentemente speciale. Da In compagnia dei lupi a Intervista col vampiro, fino a Ghost House, il passo verso Byzantium è lontano solo in termini temporali. Trent’anni hanno solo ridisegnato la cornice di ciò che alla macchina da presa è concesso mostrare. Trent’anni hanno offerto a Neil Jordan la possibilità di giocare con la natura horror della storia, e delle sue creature, osando di più nell’immagine di sangue e desiderio, ma senza perdere nell’allusione. Trent’anni non hanno cambiato certo le idee, non hanno ridefinito gli archetipi. Il vampiro può forse uscire con la luce del giorno, ma la lotta con il male, con la natura, la religione, permane, anzi è prevalente.
A suo modo Byzantium è un film conservatore, e c’è da essergliene grati. Non è un horror moderno, ma classico. Certo, quando sgorgano fiumi di sangue, letteralmente ne siamo travolti. È un’onda meno scioccante di quella mostrata da Kubrick in Shining, ma è sempre incastonata nel surreale, in una rappresentazione estrema e iconica del vampiro. Neil Jordan non si pone problemi di veridicità e aderenza letteraria, visuale o culturale, e anzi continua nell’opera di rottura nei confronti degli stereotipi di genere.
Come Stephenie Meyer prima di Moira Buffini, anche qui si riscrive il vampiro inserendolo in un quadro nuovo, vero e credibile in quanto inserito nello specifico, stretto, circoscritto mondo di Byzantium. La saggia mano registica è ciò che davvero distingue questo film dall’orda di cloni di Twilight, nell’esasperante moda che da anni sta spremendo questo genere. Forse l'autrice aveva in mente un’opera femminista e antropologica, ma Byzantium si presenta più semplicemente come un intelligente urban fantasy, il cui autentico tocco di classe è dato dall’uomo con la macchina da presa.
Francesca Borrione
Sezione di riferimento: Into The Pit
Scheda tecnica
Regia: Neil Jordan
Sceneggiatura: Moria Buffini (dal suo testo teatrale A Vampire Story)
Interpreti: Gemma Arterton, Saoirse Ronan, Jonny Lee Miller, Sam Riley, Tom Hollander
Fotografia: Sean Bobbitt
Musiche: Javier Navarrete
Durata: 118'
Anno: 2012
Uscita italiana: luglio 2014 (home video)