Di Maggie si parla in particolare per quella che, sin dalle prime battute, parrebbe una presenza inappropriata per una pellicola indipendente e non certo d’azione. Arnold Schwarzenegger ribalta però i pregiudizi, calandosi con notevole impegno e dedizione in un ruolo umanissimo. Il suo Wade è un padre che al di là della stazza lotta contro se stesso e il proprio senso di inadeguatezza: non è stato in grado di proteggere la figlia, è un uomo di casa devoto alla famiglia ma incapace di difenderla. Wade fa quindi la sola cosa che gli rimane: afflitto dalle responsabilità verso i figli e la moglie, prende per mano la sua piccola e le offre un incondizionato amore, accogliendola nell’abbraccio più grande che un genitore possa offrire.
Si potrebbe dire che Schwarzenegger sia perfino l’attore giusto per il personaggio: il corpo di Terminator e Conan mostra senza filtri la propria vulnerabilità, il proprio senso di umanità, l’essere disarmati di fronte alla tragedia. La malattia, il male, o comunque si voglia definire il cancro che consuma la piccola Maggie. Nel film mai viene pronunciata la parola ‘zombie’, ma il senso di paura, di precarietà, di orrore per ciò che il mondo ha fatto ai propri abitanti è devastante.
Dall’altra parte c’è lo sguardo della protagonista, e la performance toccante di Abigail Breslin, con quel suo interpretare con il corpo ogni piccola mutazione interiore, le emozioni, la paura, il desiderio, l’istinto. La ragazzina che smette i virginali abiti bianchi per indossare quelli dell’adulta, chiudere la porta dell’adolescenza incompiuta, tagliare il vincolo familiare e compiere la propria scelta. Spiccare il volo, consapevole. Come cadere.
Nel presente tratteggiato da Henry Hobson (qui alla sua prima regia), ci siamo abituati alla presenza degli zombie, quasi che la convivenza sia ormai accettata, purché le due specie – umana e nonumana – rimangano su contesti separati. La trasformazione dell’adolescente Maggie in zombie è qui rappresentata come un passaggio: la ragazzina affronta la difficile transizione dalla vita alla morte, da una forma a un’altra. Il suo corpo lentamente si esaurisce e si spoglia, sfibrandosi, inaridendosi, perdendo il contatto con la forma umana, con la famiglia, con la vita terrena, e andando incontro al proprio destino con l’anima intatta.
Non si tratta nemmeno di un film horror o thriller in senso stretto, quanto di una malinconica metafora su ciò che siamo o potremmo essere, sull’adolescenza perduta, sul distacco dalle radici, su quel male che ci contagia e ci consuma, inspiegabile e incurabile. Maggie (nelle sale italiane con il titolo Contagious) potrebbe anche presentarsi come un coming-of-age, un racconto di formazione, se ci dimentichiamo del sottinteso orrorifico e osserviamo il plot per ciò che è: la storia di una giovane ragazza che, affetta da un male incurabile, affronta il viaggio verso la morte; il percorso interiore più difficile che si imponga a un essere umano.
Questa è la fine dell’adolescenza, forse, in una società povera e inaridita, post-apocalittica ma senza traumi. Un luogo in cui non si spera più. Non si osserva l’altro. Non ci si tocca. Si è rinchiusi in casa come in un bozzolo. Una città senza apparenti confini, dai campi bruciati e i cieli ingrigiti, in cui le strade urbane sono affollate di giovani zombie. Certo questo non è un paese per vecchi, né lo sarà mai. La nuvola cupa che incombe sui rassegnati sopravvissuti è una certezza, non una minaccia.
Maggie guarda indietro alla propria vita senza futuro, si conforta, si consola, si macera cercando di affrontare la realtà che l’aspetta. Deve tagliare il cordone ombelicale, deve staccarsi dall’amore verso i genitori, deve abbandonare suo padre. Deve farsi adulta. La figura paterna è centrale in questo ritratto psicologico così oscuro. Le emozioni sono drammatizzate proprio nella descrizione delle dinamiche parentali, perché l’atto di lasciare il nido, a volte, è più difficile per chi resta che per chi va.
A fare di Maggie un’opera originale e meritevole non è nemmeno l’umanizzazione dello zombie - cosa in ogni caso piuttosto inusuale in un cinema di genere che ancora tende a stereotipare i non-morti - quanto la compassione verso le creature costrette ad abbandonare la vita terrena. Questa progressione, la via dell’abbandono, è ciò che commuove, la prospettiva capovolta sulla protagonista costretta a osservare se stessa mentre il proprio corpo muta, da tempio di gioventù e bellezza in involucro spezzato, sgretolato, perduto. Mentre la vita stessa le sfugge via, e gli amici, le voci care, la coccola materna, l’affetto paterno sfumano malinconicamente.
La dimensione intimista di questo dramma post-apocalittico non ha poi molto a che vedere con The Walking Dead; richiama piuttosto la mutazione kafkiana di District 9. Maggie è una tragedia umana, un affresco della società, una riflessione sulla perdita, sull'elaborazione del lutto, ma se vogliamo è anche una parabola sul libero arbitrio. Sull’anima pura, che vince perfino sull’istinto della creatura.
Francesca Borrione
Sezione di riferimento: Into The Pit, Film al cinema
Scheda tecnica
Titolo originale: Maggie
Regia: Henry Hobson
Anno: 2015
Interpreti: Abigail Breslin, Arnold Schwarzenegger, Joely Richardson
Sceneggiatura: John Scott 3
Fotografia: Lukas Ettlin
Montaggio: Jane Rizzo
Musiche: David Wingo
Durata: 97'
Uscita italiana: 25 giugno 2015
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