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WES CRAVEN - Leaving Elm Street

30/8/2015

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Di tutti i Masters of Horror che hanno contribuito a rendere grande il genere nel periodo a cavallo tra gli anni Settanta e Ottanta, Wes Craven è stato certamente uno dei più prolifici. Venticinque titoli tra cinema e televisione, da L’ultima casa a sinistra (1972) fino a Scream 4 (2011), attraverso parte dei quali il regista di Cleveland ha raccontato il lato oscuro e rimosso dell’America, mettendo nero su bianco gli incubi di un’intera generazione (anche letteralmente: si pensi alla saga di Nightmare) come mai il cinema aveva osato fare prima di allora.
Il suo è stato un viaggio lungo quattro decenni, percorso in compagnia di amici e colleghi quali George A. Romero, John Carpenter, Tobe Hooper, ma anche Joe Dante, Brian Yuzna, Sam Raimi, Clive Barker, solamente per citarne alcuni tra i più importanti. Nomi che hanno avuto l’ardire di raccontare la propria epoca filtrandola attraverso il punto di vista sporco e scomodo dell’horror, talvolta andando incontro a critiche feroci e a incomprensioni, ma sempre mantenendo quella personalità di sguardo che ai nostri occhi, oggi, li rende fondamentali.

Analizzando tutte queste filmografie nella loro interezza, quella di Craven non è stata certamente la migliore: troppi i passi falsi, troppi i brutti film, soprattutto nell’ultima parte della carriera. L’ultimo titolo veramente all’altezza della sua fama, almeno a parere di chi scrive, è Scream, e risale ormai già a diciannove anni fa: da allora Craven ha proseguito questa saga ripiegandone i contenuti su se stessi (i primi due sequel uscirono più o meno in concomitanza con la celebre parodia Scary Movie, perdendo il confronto) e mettendo poi la propria firma su progetti anonimi (Cursed – Il maleficio) o addirittura pessimi (Red Eye, My Soul to Take). Fino a Scream 4, appunto: un capitolo con il quale è tornato a raccogliere qualche consenso, nonostante la natura innegabilmente fuori tempo massimo di un film che fa fatica a rapportarsi concretamente con la contemporaneità, insistendo anacronisticamente su una componente metacinematografica ormai di presa sin troppo facile.
Ma non è sempre stato così: se oggi ricordiamo e celebriamo Wes Craven è perché c’è stato un tempo in cui la sua opera ha davvero lasciato il segno, tracciando una linea di confine tra un prima e un dopo e arrivando a elevare un genere da sempre considerato di serie B. Dunque poco importa se quello che è venuto poi non si è dimostrato all’altezza. Craven è riuscito nell’impresa di proseguire e fare proprio il discorso iniziato da Romero nel 1968 con La notte dei morti viventi: in maniera seconda solamente al Tobe Hooper di Non aprite quella porta e Quel motel vicino alla palude, ha messo in scena gli orrori della provincia che fino a quel momento erano stati occultati dietro il modello della perfetta famiglia americana mostrato dalla televisione sin dagli anni Cinquanta. Lo ha fatto dapprima rivisitando La fontana della vergine di Bergman in chiave exploitation (L’ultima casa a sinistra), poi con il successo di Le colline hanno gli occhi; ma non è certamente banale né riduttivo ribadire come il suo nome sarà sempre indissolubilmente legato a Freddy Krueger, la sua creatura più famosa e riuscita: con Nightmare – Dal profondo della notte Craven ha posto una pietra miliare difficilmente eguagliabile, creando praticamente dal nulla una figura di villain che si è rivelata essere la più radicata nell’immaginario collettivo dai tempi dei mostri classici della Universal. Un film che è riuscito come pochi altri a rappresentare il senso di fragilità di una generazione intera, punita a causa di colpe che non gli appartengono e colpita nell’unica dimensione fino a quel momento considerata inespugnabile, ovvero quella del sogno.
Non sempre Craven è riuscito a mantenere il controllo creativo e produttivo degli altri capitoli della saga, ma è comunque a lui che si deve la riuscita generale di una serie che ha raccontato in diretta la caduta libera di un decennio, gli anni Ottanta, in cui tutti erano talmente sopraffatti dal proprio edonismo da non riuscire ad accorgersi che la catastrofe era già cominciata. È sempre in quegli anni che troviamo anche il bellissimo Il serpente e l’arcobaleno, oltre ad alcuni prodotti minori da non sottovalutare come Dovevi essere morta, Sotto Shock e, soprattutto, il generalmente poco considerato La casa nera (anonimo titolo italiano per il ben più suggestivo The People Under the Stairs), parabola che più esplicita non si potrebbe sull’America repubblicana dell’era Reagan.

Mentre negli anni Novanta il genere comincia ad arrancare, perdendo per strada le carriere di registi un tempo interessanti come Hooper e Yuzna o condannandone altre all’oblio (Romero), Craven si dimostra incredibilmente al passo coi tempi riflettendo sul ruolo dell’horror nella società, mettendosi in gioco addirittura in prima persona. Nightmare – Nuovo incubo non è solamente l’occasione per riappropriarsi del personaggio di Freddy Krueger, ma è anche una riflessione vertiginosa sulla natura del proprio lavoro di artista, in un mondo dominato dai media in cui tutto sembra pronto per essere trasformato in icona (ben prima dell’era di internet).
Il primo Scream arriva due anni più tardi e prosegue in questa direzione in maniera certamente meno efficace; eppure è un film che rivisto oggi appare molto meno datato di quanto si potesse temere, oltre a essere il prologo (inconsapevolmente?) ideale per tutto quello che l’horror sarebbe divenuto poi. Con la morte di Wes Craven quindi non se ne va soltanto una figura fondamentale per qualsiasi appassionato di cinema horror (sarebbe quantomeno riduttivo limitarsi a questo), ma soprattutto un regista che non ha mai smesso di interrogarsi sul rapporto tra la realtà e la finzione generata da essa, rivendicando con forza la componente sociale di un genere che ha dimostrato la propria statura titanica in ognuno di quei momenti in cui si è fatto portavoce di un disagio profondo e ben radicato. Ecco perché tutti noi gli dobbiamo moltissimo.  

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Into The Pit

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