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IL BUIO SI AVVICINA - Il New Horror americano e il cinema di ​Wes Craven (4)

1/12/2017

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Parte quarta

Effetto Notte – Il Wes Craven teorico

Nella prima metà dei ’90, già a partire da La casa nera, Craven comincia, anzi, più correttamente, prosegue con maggiore consapevolezza e più esplicitamente un lavoro di sistemazione concettuale e critica del suo cinema, nonché di quelle che possono essere individuate come le matrici del suo genere – oltre che dei vari sottogeneri – d’appartenenza. Si tratta del tassello conclusivo che completa il suo percorso creativo. 
Cinque sono i film che risaltano maggiormente, non solo come esito tecnico-artistico, bensì anche come sviluppo ed evoluzione di tale riflessione teorica: Nightmare – Nuovo incubo (1994) e i quattro Scream (1996, 1997, 2000, 2011). Se questi ultimi possono essere considerati come parti di un unico insieme in perenne evoluzione, Nightmare – Nuovo incubo suggella la conclusione della fortunata saga (ovviamente tralasciando reboot e crossover vari), ma anche questo nuovo inizio di riordinamento auto-riflessivo. 
Nuovo incubo, anziché mettere in discussione le radici dell’opera craveniana o compiere un mero lavoro di revisione storico-estetica, finisce col ribadire e moltiplicare l’importanza mitologica e mitopoietica della figura di Freddy, nonché del racconto dell’orrore in generale. Il passaggio-chiave, all’interno del film (più appropriatamente titolato in originale Wes Craven’s New Nightmare: qualcosa di molto personale per il regista), per chiarire la portata di questa nuova attitudine – in realtà, già presente nei suoi lavori e ben dissimulata nella tessitura della narrazione – si situa nel dialogo che Heather Langenkamp, in persona, ha con Wes Craven, in persona anch’egli, verso la metà del film. Naturalmente, dato che Nuovo Incubo è meta-cinema dichiarato, gli attori sono chiamati a interpretare (anche) se stessi, ma questo aspetto si rivelerà, a conti fatti, qualcosa di ben più complesso di un semplice disvelamento degli ingranaggi della macchina-cinema. 
Si diceva che la Langenkamp incontra Craven in persona, il quale le spiega i motivi per cui ha intenzione di girare un ulteriore e (forse) ultimo Nightmare – che già esiste dinnanzi agli occhi dello spettatore – a partire da un incubo ricorrente che lo tormenta, che sta diventando una sceneggiatura e che, ovviamente, ha come protagonista proprio Freddy: “Si tratta di una certa entità ed è antica, molto antica. È esistita in varie forme e in diverse epoche. L’unica cosa che la caratterizza è il suo scopo: uccidere l’innocenza”. Poi, poco più avanti, incalzato dalla Langenkamp, Craven prosegue: “Può essere catturato. Dagli sceneggiatori, per esempio. Spesso capita che riescano a immaginare una storia valida, grazie alla quale questa entità vi rimane imprigionata. Il problema nasce quando la storia finisce e può finire per molti motivi: perché ha stancato, perché è stata troppo semplificata per la vendita o perché è troppo inquietante  ed è stata censurata. Ad ogni modo, quando la storia finisce, il male viene liberato”. 
Ora, in questo monologo breve emergono vari elementi, tutti importanti, ma solo uno di questi risulta effettivamente essenziale. Certamente, l’”entità” di cui parla Craven si rivela, abbastanza apertamente, come una figura diabolica, probabilmente il Demonio in persona (1), di più, un essere antichissimo, universale, unico, ancorché capace di mutare fisionomia: il Male assoluto quindi, ai confini con la pura astrazione concettuale. Emergono anche alcune interessanti argomentazioni relative alle capacità catartiche e apotropaiche del cinema, in particolare l’horror, oltre che alcune sapide considerazioni (sassolini di varia foggia e misura che Craven si toglie dalle scarpe) sul valore delle saghe filmiche, sui loro rischi, sul ruolo della censura e così via. 
A risplendere per la sua portata è però un’altra considerazione di Craven, attinente allo scopo ultimo di tale entità e cioè “uccidere l’innocenza”: un campanello d’allarme dovrebbe suonare, anche laddove si consideri tale asserzione come esclusivamente riferita a uno dei temi centrali della saga di Nightmare. È ben evidente l’ambiguità di tale dichiarazione e la possibilità che essa possa essere inaspettatamente capovolta, proprio a partire da ciò che Freddy rappresenta effettivamente per le sue vittime, ma anche, non secondariamente, per gli spettatori e, infine, per ciò che egli esprime per il genere di cui è uno dei simboli più notevoli. 
Freddy, anche a un livello meramente diegetico e al contrario di ciò che sembra voler dire Craven, è proprio il guardiano dell’innocenza, colui che consente al mondo fanciullesco e a quello adulto di restare ben distinti e separati, colui che terrorizzando o uccidendo gli adolescenti impedisce loro di crescere, di diventare adulti, appunto, e perciò di perdere proprio la loro innocenza. Solo nella fanciullezza, inoltre, si è portati a credere all’Uomo Nero, perciò il suo incombere è esattamente la protezione di tale credenza e perciò della fanciullezza stessa. Egli è sogno e fantasia, il suo mondo è arabescato e barocco, pregno di sorprese e di piaceri sanguigni e, si sa, il sogno e la fantasia possono sconfinare con sfuggente e repentina facilità nell’incubo più greve, le sorprese e i piaceri sanguigni possono trasformarsi in dolori intollerabili (come ha compreso perfettamente Clive Barker – e chi meglio di lui? – intervistato a proposito della creazione craveniana). 
A un secondo livello di interpretazione, che è poi ciò che questo lavoro di Craven sembrerebbe richiedere, si può estendere tale riflessione anche allo spettatore, chiamato certamente a uno sforzo supplementare (2), per via dei vari piani di lettura che il film offre e, in un certo qual modo, impone. Anche in questo ambito, l’affermazione di Craven va contestualizzata e approfondita. Quando parla di “uccisione dell’innocenza”, Craven sembra implicitamente riferirsi anche a se stesso, cioè all’operazione che egli sta compiendo sullo spettatore, nel senso che lo sta facendo uscire dal guscio ovattato della finzione, per porlo di fronte allo svelamento dei meccanismi del dispositivo cinematografico e del suo funzionamento, quindi per farlo emergere, brechtianamente, dalle nebbie dell’identificazione secondaria, obliterando la sospensione d’incredulità, cioè l’innocenza spettatoriale, appunto. 
In realtà, però, Craven – così come si era detto a proposito di Freddy – non si rivela, in tal modo, un assassino della purezza dello spettatore regredito narcisisticamente all’infanzia, bensì un suo difensore. Nightmare – Nuovo incubo si configura, infatti (così come sarà anche per la saga di Scream), non solo come un film di finzione efficacissimo, per come è costruito, ma addirittura un moltiplicatore della finzione stessa, che può, senza più alcun freno, transitare attraverso i vari piani di (ir)realtà e coinvolgere personaggi doppi, Heather Langenkamp/Nancy Thompson, Robert Englund/Freddy Krueger, John Saxon/Donald Thompson, tutti, in realtà, pienamente calati nel loro originario ruolo recitato, tanto da arrivare a una delle sequenze-chiave, in cui la Langenkamp si ritrova catapultata nel passato, durante un incubo, e incrocia il “padre diegetico” Donald Thompson, lo chiama col nome autentico dell’attore che lo interpreta, cioè John, ed egli non capisce. Craven ha portato quindi lo spettatore in visita nel proprio mirabolante luna park personale, gli ha svelato come funzionano alcune delle attrazioni più riuscite, per poi mostrargli che, alla fine del giro, lì all’uscita, c’è ancora una volta l’Uomo Nero in agguato.

​1) Su questo tema Danilo Arona, Wes Craven – Il buio oltre la siepe, edizioni Falsopiano, Alessandria 1999.
2) Il film al botteghino non fece propriamente sfracelli, forse proprio per la sua aura teorica.

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​Un meccanismo simile pervade anche il primo Scream, per poi estendersi, moltiplicandosi esponenzialmente, nei tre seguiti. Se in Nightmare – Nuovo incubo ci si trova di fronte a un’opera che guarda se stessa, il proprio passato e le proprie origini, nei vari Scream ci si trova al cospetto di un unico film mutante, che si divide/moltiplica in/per quattro: film-cannibale che divora i suoi padri, che si nutre di innumerevoli altri film, si abbevera alle regole dello slasher (e degli innumerevoli sotto-filoni e filiazioni, ma anche dei modelli, “alti” e “bassi”), per originare un monstrum sfuggente alle etichette e refrattario alle catalogazioni, proprio in quanto concept-contenitore esattamente di etichette, catalogo sotto forma di (decine di) citazioni verbali e contestuali, cliché, riferimenti, pullulare in(de)finito di immagini allo specchio, magma montante che soffoca (piacevolmente) lo spettatore inavveduto e distante dal genere, così come riesce ad attirare a sé, divertendo quasi sempre e talvolta stuzzicando, quello che col genere ci è cresciuto (3). 
Una specie di orgia pagana, una suite prog rock senza interruzioni, che dura per quattro film, oltre agli innumerevoli film nel/nei film, come la serie, ancora più lunga, di Stab, che fa la sua comparsa all’interno del contesto diegetico di Scream 2, in veste di adattamento cinematografico delle “reali” vicende accadute a Woodsboro, California, creando un vero e proprio labirinto, un corridoio degli specchi che moltiplica e stratifica ulteriormente i piani meta-testuali. 
Nonostante queste premesse e nonostante il gioco, comunque dichiarato, al quale, se si vuole partecipare – e questo fin dalla sequenza d’apertura del primo Scream – è meglio essere preparati, ci si trova di fronte a un lavoro che, pur non prendendosi sul serio, fa sul serio (4). Proprio come accadeva in Nightmare – Nuovo incubo, anche in questa nuova saga lo scopo di Craven non è quello di demolire il genere, ma di (ri)scoprirne le coordinate, di attualizzarne i temi in un contesto temporale che già conosce il prima, cioè la storia e l’evoluzione del filone, visto che ora, come spiega con felice intuizione Danilo Arona: “[…] l’unico horror possibile di fine millennio non è quello che ci racconta una storia, bensì quello che ci racconta ‘come si racconta una storia’”(5). Viste tali premesse, non può sfuggire, comunque, come l’obiettivo di Craven si situi, appunto, nel raccontare una storia complessa, nonché articolata su più piani significanti, ma nella quale, in ogni caso, è possibile cogliere sia un ritorno, ancora una volta, di alcuni temi cari al regista, sia la sua abilità nel rielaborarli, ricostruirli, mutarli di segno e di senso, per poi disporli come tessere di un intricato mosaico. Il tutto, così come in Nightmare – Nuovo incubo, per moltiplicare, non annacquare, le possibilità del racconto di paura. 

3) Naturalmente, chi, in primis, col genere ci è cresciuto è lo sceneggiatore Kevin Williamson, vera e propria mente in perenne ebollizione dietro le quinte dei vari Scream.
4) Esattamente l’opposto di ciò che accade nella (inutile) serie di Scary Movie (quello che avrebbe dovuto essere il titolo originario di Scream), una creatura partorita, a partire dal 2000, da quegli inopportuni mattacchioni dei fratelli Wayans e poi adottata da David Zucker: film parodici e, quindi, che non prendono sul serio nulla, a parte però se stessi, a parte il loro essere, appunto, caricature, sia della serie di Scream, in primis, sia più in generale dell’horror come elemento fondativo dell’immaginario. Essi si delineano, perciò, come derive di una derivazione, senza amore vero né conoscenza autentica per ciò che viene sbeffeggiato, come è invece per le parodie horror riuscite. La serie di Scream forse ha avuto l’unico demerito di dare la stura, involontariamente, a nefandezze come Scary Movie. 
5) Danilo Arona, op. cit., p. 142.

Se in Sotto shock il killer Horace Pinker assumeva le sembianze di vari personaggi per compiere i propri crimini, mantenendo inalterata la propria identità, nella saga di Scream troviamo innumerevoli killer (sempre in coppie, a parte nel terzo capitolo sceneggiato da Ehren Kruger, con un parziale apporto del mastermind Kevin Williamson), quindi innumerevoli identità, ma una sola fisionomia, quella di Ghostface. Da questo punto di vista, si potrebbe individuare proprio in Ghostface l’Uomo Nero craveniano a cavallo fra vecchio e nuovo millennio, cioè esattamente ciò che non era riuscito al regista con Pinker. Mentre in superficie la saga è irrorata dalla dimensione thriller/gialla da whodunit, facendo scattare nello spettatore il meccanismo di “ricerca” del colpevole che si cela sotto la maschera munchiana di Ghostface, sotterraneamente essa è percorsa dalla fisionomia inconfondibile, e sempre uguale a se stessa, come è regola nello slasher, del nuovo Uomo Nero, tant’è che la sua voce ricorrente al telefono è anch’essa sempre la medesima, vale a dire quella dell’attore Roger L. Jackson. 
Ecco, il telefono: la serie di Scream straripa di media comunicativi. La televisione, tanto per cominciare, elemento dominante in Sotto Shock, possiede, nella saga di Scream, un ruolo sostanzialmente marginale, come medium obsoleto e, oltretutto, poco cinematografico, a parte la sua funzione di diffusore di notizie costitutivamente distorte, grottescamente amplificate o ridicolmente mendaci (si pensi al finale di Scream 4), in quanto troppo spesso al servizio esclusivo dello spettacolo fine a se stesso. In tutti e quattro i capitoli, infatti, un ruolo centrale è ricoperto dalla giornalista Gale Weathers (Courteney Cox), che indaga sugli omicidi per prevalente tornaconto personale, per la caccia perenne all’agognato scoop. Quindi, più che la televisione in quanto tale, è il giornalismo d’informazione a essere svillaneggiato e deriso. 
Invece, l’onnipresente, classico (un cliché fondamentale fra i tanti) e ben più arcaico telefono diviene decisivo, anche in quanto fucina di voci senza volto, medium per eccellenza del fuoricampo, quindi del cinema stesso, tant’è che viene usato pressoché sempre da Ghostface, per dialogare da una posizione di forza con le proprie vittime, giacché le può osservare senza essere visto (6), oltretutto moltiplicando in loro l’inquietudine, vista la prossimità della sua presenza, garantita dall’udibilità del suono della sua voce. 
Accanto al sapiente utilizzo del telefono si nota, in tutti i titoli della serie, il proliferare di immagini, schermi, punti d’osservazione (7), che rendono ciascun capitolo un vero e proprio manuale dello sguardo, una straniante “storia dell’occhio”. A spiccare è soprattutto l’aggiornamento riuscito, in Scream 4 (o SCRE4M), della tecnologia della comunicazione, rappresentata in particolare dalle poliedriche possibilità offerte della telefonia mobile contemporanea, nonché dalla massiccia presenza di internet e dei social network, che innescano e moltiplicano la propagazione di informazioni e il contatto a distanza (8) in tempo reale, incrementando ancora una volta, ancora di più, la potenza dell’Uomo Nero, insieme ai piani di senso del film. 
Tali aggiornamenti te(le)matici, oltre a registrare la volontà di Craven di non arrendersi alla senilità, di non lasciarsi sopravanzare dai mutamenti avvenuti nel villaggio globale (non si dimentichi che SCRE4M è del 2011), risultano elementi portanti della narrazione e perfettamente inseriti nel suo tessuto, tanto da costituirne uno dei propulsori. Il movente del killer, nel quarto capitolo, sarà infatti la visibilità mediatica, la fama repentina diffusa in tempo reale, da ottenersi attraverso l’onnipresente e istantanea opera di rielaborazione/falsificazione della realtà, compiuta dai media, istituzionali e non. 
Ne risulta, in sintesi, un nuovo Uomo Nero, cinicamente al passo con i tempi e capace (quasi) sempre di girare a suo favore qualsiasi situazione o contesto. Oltre alla presenza del nuovo babau aggiornato alla contemporaneità, fanno capolino anche alcuni dei vari temi cari al regista, come, ad esempio, l’ottusità del mondo adulto – specie se incarnazione dell’autorità (polizia, giornalisti, autorità scolastiche) – e soprattutto, altra regola dello slasher, la sua prevalente assenza dalle vicende narrate, cui fa da contraltare la descrizione complessivamente precisa e verosimile di un’altra vera protagonista della saga, cioè l’età tardo-adolescenziale, con i suoi svariati difetti e i più sporadici pregi. 

6) Ubiquità e sguardo di “sorvolo” in perenne posizione favorevole, cioè “occhio di Dio”, per dirla con Giaime Alonge, oltre a conoscenze e informazioni sconosciute a tutti gli altri personaggi, sono alcune delle caratteristiche più marcate degli assassini (semi)metafisici e (quasi sempre) imprendibili dello slasher.
7) Si pensi a tal proposito alla sequenza conclusiva del primo Scream o a quella, altrettanto ingegnosamente costruita, della maratona filmica con la proiezione intera della serie Stab nel quarto capitolo: in entrambe, la giornalista Gale Weathers, che indaga sugli omicidi, tenta di colonizzare il punto d’osservazione privilegiato di Ghostface, credendo di potersi sostituire percettivamente a lui e quindi di poterne prevenire le mosse. Il tutto tramite l’utilizzo di sofisticati apparati tecnologici (in una altrettanto sofisticata e riuscitissima messa in scena da parte di Craven). Naturalmente, in entrambi i casi fallisce, dato che solo l’Uomo Nero può essere ubiquo e onnisciente, così come solo i suoi occhi possono vedere tutto. I vani tentativi della donna non fanno altro che potenziare, quindi, la dimostrazione di forza del killer.
8) Una distanza che, ovviamente, Ghostface riesce a colmare con prodigiosa facilità.

Craven, evidentemente, si fida poco delle nuove leve di giovani degli anni ‘90/’00, almeno tanto quanto confidava nei loro predecessori appena una decina d’anni prima (si pensi, soprattutto, al fondamentale Nightmare 3 o a La casa nera). Va anche sottolineato come risulti essenziale, nella costruzione dei personaggi all’interno dei vari episodi della serie, l’apporto di Williamson alla sceneggiatura, che conosce molto bene l’universo adolescenziale (all’epoca del primo Scream egli è poco più che trentenne, e quindi con una memoria ancora molto fresca dell’”età inquieta”) tanto da farne il protagonista indiscusso di alcuni dei suoi lavori televisivi seriali più importanti, come Dawson’s Creek e il recente The Vampire Diaries. 
Se aleggia talora una certa ribalda ruffianeria nelle produzioni televisive di Williamson, è anche vero però che, in Scream, tale atteggiamento è perlopiù assente, salvo forse verso le figure di film geeks come il Randy Meeks dei primi tre episodi (essendo fra le vittime del secondo episodio, egli nel terzo compare in “effigie”, in una videocassetta che contiene una delle sue proverbiali “lezioni” cinematografiche) o i suoi “eredi” Robbie Mercer e Charlie Walker nel quarto, anche se quest’ultimo, dietro la faccia pulita e trasognata, nasconde uno dei segreti-chiave del film. Un personaggio totalmente craveniano nello spirito è, invece, la nuova giovane eroina adatta alla nuova saga, Sidney Prescott. Tale personaggio è presente in tutti gli episodi ed è sempre interpretata da Neve Campbell, che, accanto alla Nancy Thompson/Heather Langenkamp dei Nightmare ideati da Craven, rappresenta la migliore figura positiva nel suo cinema, altrimenti predominato e fagocitato, quasi sempre, dalle memorabili facce e incarnazioni del Male. 
Nei quattro Scream, Craven si dimostra ormai assoluto padrone del mezzo e riesce magnificamente a gestire le dinamiche interne del racconto così come quelle meta-narrative, prestando una certosina attenzione al ritmo dell’azione, allo spazio in cui gli eventi si dipanano e soprattutto alla funzione dello sguardo come costruttore di senso e come creatore, nell’economia della narrazione, delle gerarchie e dei rapporti di forza fra i personaggi. Quindi si delinea un interscambio continuo fra piani e strati diversi del testo, che rimandano l’uno all’altro con acume, moltiplicando vicendevolmente la propria intensità, la propria portata, il proprio senso. Con la saga di Scream, infine, già dal suo primo apparire nell’ormai lontano 1996, ci si trova di fronte a quello che, col senno di poi, può anche essere considerato un vero e proprio testamento artistico, sia pure diluito nel tempo, di Craven, un regista capace di guardare con lucidità, e forse con un pizzico di rimpianto, alle radici di quella lunghissima “notte dell’orrore” che è stato il New Horror. 
Rimane da chiedersi cosa sarebbe potuto essere Wesley Earl Craven se non fosse divenuto Wes Craven: molte cose, probabilmente. Laureato in filosofia, uomo colto e intelligente, eclettico nelle passioni come nelle competenze, cinefile e non, forse sarebbe potuto diventare un ottimo regista mainstream, magari avrebbe potuto avere più fortuna come autore horror (anche se ne ha avuta, tutto sommato, almeno dalla seconda metà dei ’90 in poi, più dei suoi colleghi “maggiori” Carpenter e Romero), oppure essere un ottimo insegnante di college (come in realtà fu, prima di farsi folgorare definitivamente dal cinema), o chissà, magari uno scrittore (il suo romanzo Fountain Society, del 1999, aveva come tema portante, guarda un po’, l’immortalità). 
Fortunatamente per chi lo ha amato, è riuscito a diventare e ad essere solo Wes Craven.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Into The Pit

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IL BUIO SI AVVICINA – Il New Horror americano e il cinema di Wes Craven (3)

20/11/2017

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Parte terza

The dream warriors – Sognare la morte, combattere per la vita

​Con Le colline hanno gli occhi, Wes Craven di fatto conclude quella che può idealmente essere considerata la prima fase del suo percorso tematico, iniziando a transitare dall’incubo a occhi aperti degli esordi a quello a occhi chiusi – o meglio, aperti su un’altra e ben più complessa dimensione – che prenderà una forma compiuta e matura solo a partire dalla metà degli anni ’80. 
I titoli che si avvicendano a coprire i circa sette anni che intercorrono fra Le colline hanno gli occhi e quella che forse è l’opera più importante di Craven, cioè Nightmare – Dal profondo della notte (1984), sembrano per certi versi preparare il terreno proprio al deflagrare della potenza iconoclasta e beffarda di Freddy Krueger, accompagnato dal suo inesauribile bagaglio di ingegnose e mortali trappole oniriche. Pur essendo molti di questi titoli di passaggio perlopiù trascurabili, va anche detto, tuttavia, che in pressoché tutti è presente la dimensione del sogno come porta aperta su una dimensione veritativa altra e distante da quella della veglia. Se Summer of Fear (1978) “è una sorta di trattato di impotenza onirica”, come ebbe a dire lo stesso Craven (1), Benedizione mortale (1981) – l’unico titolo sopra la media nel periodo in questione – si presenta come una sorta di spartiacque simbolico fra un prima e un dopo, con il confronto-scontro fra famiglie-comunità, già tema portante del dittico settantiano, e con un plot da thriller, a tratti irrisolto anche se spesso assai efficace, e altresì con interessanti inserti onirici, che già anticipano il magnum opus che verrà tre anni dopo. 
Dopo i trascurabili, quando non sostanzialmente dimenticabili, Il mostro della palude (1982) e Invito all’inferno (1984), si giunge finalmente a varcare, in pompa magna e ufficialmente, l’ombroso ingresso che separa la vita cosciente da quella nebulosa del sonno. Il territorio delle nuove lotte per la sopravvivenza, nell’opera di Craven, diviene quindi quello liminare fra realtà e sogno: un confine/varco che non solo separa e discerne gli elementi del mondo diegetico sullo schermo, mantenendoli però sempre comunicanti, ma che crea anche un cortocircuito fra quell’universo di ombre e quello della sala, nel quale rimane sospeso lo spettatore. È il cortocircuito della visione filmica, che Craven approfondirà ulteriormente nell’ultima parte della propria carriera. 
Con il primo Nightmare, il cinema di Wes Craven esprime la raggiunta maturità artistica del regista, una maturità che paradossalmente vede come protagonista (e anche come pubblico principale di riferimento) il mondo dell’adolescenza – in particolare nel ruolo della protagonista Nancy Thompson (Heather Langenkamp, la cui fama sarà legata a filo doppio con la saga di Freddy, così come lo sarà anche quella di Robert Englund) – nel quale realtà e immaginazione, veglia, sonno e allucinazione ancora si (con)fondono e in cui le barriere della sospensione di incredulità non sono del tutto sviluppate o calcificate nell’immaginario. 
La paura attecchisce in buona parte ancora nella sfera dell’irrazionale, dell’invisibile, e il mondo adulto non possiede (più) le chiavi per entrarvi. Leggendo il film in tal modo, ne risulta innanzitutto una potentissima metafora sia del cinema fantastico sia del cinema in generale, i quali richiedono a chi accede alla sala, specie nel caso del primo, di abbandonare all’entrata le proprie grigie e incrollabili certezze, per avere accesso a quella zona crepuscolare che è il mondo proiettato sullo schermo. La pienezza del sogno e la sua appartenenza a quell’unica dimensione dell’uomo che è l’esistenza non può che risiedere nella purezza della giovane età, dimentica delle sonnolente e limitate leggi della ragione. In buona sostanza, il motivo per cui Freddy (2) non può essere sconfitto dagli adulti e per cui può essere compreso e, sia pure a stento, tenuto a bada dai ragazzi si situa nel fatto che egli abita, da archetipico orco/Uomo Nero, il territorio intangibile e opaco dell’immaginazione e delle ombre dell’inconscio. 
Una volta che gli adulti della cittadina (immaginaria, ma uguale a tanti altri centri della provincia americana) di Springwood decidono di giustiziare l’assassino di ragazzini Freddy Krueger, quando ancora è un uomo vivente o qualcosa che gli assomiglia, innanzitutto essi commettono l’errore di pensare, oltre che di sostituirsi alla Legge (umana o divina, poco importa), anche di poter sopprimere una creatura con tratti già mitici: non si può uccidere l’orco, perché comunque rinascerà in altri racconti – come effettivamente accadrà anche a Freddy – o in altri sogni mostruosi; non si può uccidere il Male, lo si può solo limitare; non si possono rimuovere totalmente gli spettri partoriti dalle nostre paure o azioni, perché ritorneranno sotto forma di incubi. 
Qui, oltretutto, Craven porta alle estreme conseguenze le tematiche proprie dei primi film: se ne L’ultima casa a sinistra e ne Le colline hanno gli occhi lo scontro fra civiltà e barbarie veniva rappresentato come contrapposizione fra clan ormai indistinguibili, contrapposizione nella quale dal male poteva germogliare solo il male, chiunque l’avesse commesso e chiunque avesse iniziato a commetterlo, in Nightmare Craven è come se partisse dalla conclusione di tali assunti per mostrarne gli effetti, per raccontare come la nascita della “buona” comunità/nazione affondi, e non possa che affondare, le proprie radici nel sangue, là dove l’arbitrio, l’ingiustizia e l’assenza della legge ne costituiscono le premesse. 
Ecco allora che in Nightmare 3 – I guerrieri del sogno, del 1987 (nel quale Craven, dopo l’assenza da Nightmare 2 – La rivincita, torna alla sua creatura in veste di sceneggiatore (3) e la cosa si riverbera positivamente su quello che viene considerato uno degli esiti migliori all’interno della saga), la vicenda sembra muoversi proprio da tali premesse, per indirizzarsi non solo verso l’eliminazione definitiva dell’Uomo Nero, ma anche verso la possibilità di rendergli quella giustizia che da vivo, nonostante le nefandezze compiute, non aveva avuto. L’obiettivo ultimo degli antagonisti di Freddy sarà quello di seppellire i suoi resti in terra consacrata, tentando di donargli la pace: un (malriuscito) tentativo, da parte di ciò che resta della comunità di Springwood, di rimediare alle proprie colpe, una specie di rito apotropaico per esorcizzare la maledizione di Freddy. 
La rivelazione di altri antefatti riguardanti il concepimento e la nascita di Freddy (Amanda Krueger, molti anni prima, nelle vesti talari di suor Mary Helena, rimasta rinchiusa nel manicomio di Westin Hills, venne violentata dai pazienti e rimase incinta: il frutto di quella cieca violenza fu Freddy) conducono a vedere quest’ultimo come una sostanziale vittima, sia per la sua nascita, sia per le pulsioni aberranti derivate, senza colpa da parte sua, da uno dei possibili e degeneri padri, forse anche un vago riferimento a M – Il mostro di Düsseldorf (1931), film nel quale, peraltro, compare una filastrocca/nenia simile a quella che accompagna la saga di Nightmare. Tuttavia, Freddy è irriducibile a qualsiasi ridimensionamento della sua figura, a qualsiasi tentativo di conferirgli tratti anche vagamente umani, perché egli, da buon guardiano della soglia dell’incubo, da demone di epoche remote cresciuto e nutrito dalla cattiva coscienza dell’uomo, oltre che nato da un atto estremo di crudeltà, non può che rappresentare un male originario e inestirpabile, il Male. 
Con la nascita e lo sviluppo della figura di Krueger, Craven dà forma a un’originalissima declinazione della possessione, quindi dell’invasione del territorio più intimo per l’uomo, quello della propria interiorità. Se la possessione diabolica può essere letta come una sorta di soul invasion, estremizzazione dell’home invasion, cioè della colonizzazione, da parte di oscure forze estranee, dell’ambiente in cui l’uomo trova rifugio e sicurezza (4),  Craven si spinge ancora più in là, arrivando a una laica conscience invasion, a partire dalla quale non tanto l’interiorità in quanto tale è occupata, ma piuttosto quell’isola misteriosa in essa racchiusa che va sotto il nome di Es, di inconscio. Il tutto, nondimeno, in totale assenza di qualsiasi attitudine psicanalitica o para-scientifica. 
Craven crede nella forza dirompente e immaginifica del sogno come un altro grandissimo, Howard Phillips Lovecraft, e, come quest’ultimo, non crede agli alambicchi della ragione o della scienza come chiarificazione definitiva ai misteri del reale. Egli confida, quindi, nella forza rivelatrice e magica della visione notturna, laddove il “vedere” si configura come potenziamento della mente (visto che l’occhio è serrato), come “occhio di troppo”, capace di svelare l’invisibile. Questo “occhio di troppo” è il dono posseduto solo da pochi eletti, capaci di annullare lo strato pellicolare della realtà sensibile, per penetrarne le intricate maglie, i livelli sottostanti. Solo delle menti pure come quelle fanciullesche – o per esteso, come quelle degli spettatori cinematografici persi nelle ombre della visione filmica – possono accedere alla soglia che lega le dimensioni apparentemente separate della veglia e del sonno, per varcarla, anche insieme se necessario, come accadrà in Nightmare 3. 
Se la coscienza collettiva della società adulta è contaminata dalla colpa originaria (cioè il sangue versato in funzione della vendetta e perciò maledetto) che l’ha fondata come tale, ma che in realtà l’ha divisa al proprio interno col prevalere dell’interesse particolare di ciascuna cellula familiare, l’unica autentica comunità rimasta è quella adolescenziale, che agisce di concerto, al proprio interno, per riscattare la colpa originaria dei padri. In Nightmare 3, per portare a termine il compito, la micro-comunità degli adolescenti minacciati da Freddy sarà costretta a costituirsi come inconscio collettivo, o meglio, come pattuglia sperduta all’interno di quell’inferno della mente che è l’antro sospeso al di là della materia, ancorché ancorato a una dimensione inquietantemente tattile e fisica, dove si nasconde l’Uomo Nero. 
Per affrontarlo, mentre i pochi adulti che hanno compreso, cioè il padre di Nancy (John Saxon) e il dottor Gordon (Craig Wasson), da svegli, tentano l’esorcismo (in realtà vano, come suggerirà il finale) per la sepoltura dei resti di Freddy, i ragazzi, con Nancy in testa, si addentrano nel territorio del mostro, quello dell’inconscio, da veri dream warriors. In definitiva, il loro compito non è solo tentare di distruggere la minaccia per le loro vite, ma ciò che essa rappresenta per la loro libertà di esprimere la propria soggettività attraverso l’interezza dell’Io. Se non esistesse il sonno col suo corollario di sogni, Freddy non potrebbe costituire un pericolo per loro, ma l’uomo che non dorme mai, l’uomo che, metaforicamente e non solo, vive esclusivamente del proprio intelletto calcolante, senza concedere spazio al mistero dell’ignoto, alle proprie fantasie e ai propri fantasmi, non è più un essere libero. 
Ecco, proprio della forza di questa metafora si abbevera il cinema, horror e non, assieme a tutti quegli esseri umani che ancora credono ai racconti e ai fantasmi o, perlomeno, non riescono a smettere di farlo, da veri dream warriors.

1) Cfr. Danilo Arona, op. cit., p. 46.
2) Nel primo Nightmare, il personaggio viene chiamato semplicemente “Fred”; diventerà “Freddy” a partire dal secondo capitolo.
3) Coadiuvato da Frank Darabont, Bruce Wagner e da Chuck Russell, che siede anche dietro la mdp, mentre si rivede anche la Langenkamp, parimenti assente dal secondo capitolo.
4) Si noti come nel film-archetipo sulla possessione, L’esorcista, tale colonizzazione cominci come controllo del demonio sugli oggetti della casa, primo fra tutti il letto, cioè il luogo in cui si passa, non a caso, dalla realtà concreta alla dimensione scivolosa del sogno.

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​Aggredire il sogno e colonizzarlo significa annullare le attività attraverso le quali l’essere umano drena giornalmente le proprie angosce, per poi ricominciare daccapo a farle sedimentare col sorgere del sole, significa disumanizzare i suoi processi cognitivi e vitali, privandolo non solo del riposo, ma soprattutto della fondamentale rielaborazione di ciò che accade nella vita cosciente, rendendolo perciò spossessato del proprio Io e della propria identità, quindi, in una parola, zombificato. Attorno a tale assunto, si sviluppa quello che probabilmente è il nucleo centrale di un altro pezzo fondamentale del mosaico autoriale di Craven, Il serpente e l’arcobaleno (1987). 
Di sicuro, il nostro ci mette tempo a mettere a fuoco i suoi temi, tanto da attraversare, dopo A Nightmare on Elm Street, come è già capitato e come ancora capiterà, un periodo transitorio, che va sostanzialmente dal 1984 al 1988 (fatta salva la sceneggiatura di Nightmare 3, come detto), con qualche lavoro televisivo, titoli da sala di poco conto, quando non palesemente modesti; tuttavia è anche certo che, quando le idee divengono chiare, Craven sforni lavori di altissimo profilo. In questo caso, già l’idea di partenza è notevole: riprendere la figura dello zombi non dai geniali lavori di Romero (che solo tre anni prima, nel 1985, con Day of the Dead, aveva concluso quella che, per circa vent’anni, sarà nota come la “trilogia” sugli zombi), ma direttamente dalla tradizione haitiana del voodoo. 
Il tutto però risalta maggiormente, se si tiene presente il riferimento di Craven non ad un momento storico qualsiasi, ma a quello che precedette di poco la caduta del dittatore Jean-Claude Duvalier, noto come “Baby Doc” (subentrato al potere del padre François Duvalier “Papa Doc”, alla morte di questi nel ’71). Per inciso, i rapporti di Papa Doc con gli Usa non furono idilliaci soltanto durante la breve presidenza di J.F. Kennedy, ma lo furono prima del mandato e dopo la morte di quest’ultimo. In particolare gli Stati Uniti, dopo l’attentato di Dallas del 1963, tornarono subito a fornire supporto al dittatore, in funzione anticomunista e anticubana. Solo con il democratico Jimmy Carter (presidente dal 1977 al 1981), da una parte, e il nuovo dittatore Baby Doc, dall’altra, il potere di quest’ultimo venne posto in discussione dall’amministrazione statunitense, ma egli riuscì a rimanere in carica, senza scossoni, fino alla rivolta popolare del febbraio 1986, ed è noto che fine facciano i dittatori veramente invisi agli americani. 
In più, giusto per dare l’esatta coloritura della nazione haitiana e per evidenziare quelli che saranno gli ulteriori meriti della pellicola di Craven – un film di finzione, per di più horror, capace di individuare una cifra non solo realistica ma veritativa, assente da molti lavori documentari o sedicenti “impegnati” – va ricordato l’uso che i due dittatori fecero del loro potere. In particolare Papa Doc, spregiudicato come tutti i tiranni e buon conoscitore della cultura e delle tradizioni locali, mantenne il proprio posto di comando facendo leva sul doppio binario del terrore poliziesco e di quello magico. Si autoproclamò houngan, “mago nero”, e poi addirittura tentò di accostare la propria figura a quella psicopompa di Baron Samedi, il Signore dei morti. 
I ferocissimi Tonton Macoutes (“uomini neri” od “orchi” in creolo), i suoi pretoriani, rivestirono il doppio ruolo di poliziotti e di stregoni. Un miscuglio sincretico di cattolicesimo e credenze voodoo fu utilizzato per controllare le menti della popolazione, in un contesto in cui la religione era “oppio dei popoli” non solo metaforicamente, ma anche letteralmente, giacché le pratiche del voodoo prevedevano l’utilizzo di forti sostanze allucinogene per provocare le “visioni”. Il figlio di Papa Doc, Baby Doc, nella parte finale del proprio regno utilizzò gli stessi metodi di terrore del padre ed è in tale contesto temporale che si inserisce la narrazione di Craven, col prologo ambientato nel ’78 e il resto del film nella metà degli anni ‘80. 
Il serpente e l’arcobaleno amalgama una materia narrativa assai complessa attorno alla figura del protagonista, Dennis Alan (Bill Pullman), vero fulcro del racconto. Tramite Alan, si condensa e si chiarisce, per quanto possibile, l’enigma-chiave su cui fa perno il film e cioè dove finisca la percezione reale delle cose e dove inizi l’allucinazione, un tema che somiglia molto a quello sviluppato da Craven con la comparsa di Freddy sugli schermi. Il protagonista è uno scienziato, un etno-botanico e antropologo inviato da una multinazionale farmaceutica statunitense per studiare le proprietà, ai confini con la magia, di alcune piante sconosciute dell’isola di Haiti e i loro effetti sull’uomo. Una volta in loco, Dennis scopre a proprie spese cosa significhi una visione di natura potentemente allucinata, a causa dei preparati di alcuni sciamani locali, nonché come si configuri la vita di un popolo che non conosce la libertà, nemmeno quella di pensare. 
Il film gioca splendidamente sia sul binario politico del controllo mentale e fisico, sia su quello onirico-sciamanico della valenza della visione semplice, legata alla percezione naturale e dunque alla veglia, nel suo confronto con la visione potenziata, legata all’allucinazione e all’incubo. L’interrogativo profondo, posto da Il serpente e l’arcobaleno, riguarda – così come accadeva, sia pure in modi e contesti diversi, nei vari Nightmare – la verità aggrovigliata e complessa dell’allucinazione/visione, in quanto contrapposta a quella lineare dell’esperienza diurna. Come nell’etimo greco del termine pharmakon, che indica sia il veleno sia la medicina, anche nel contesto esaminato dal film l’ambiguità rimane, giacché la droga è mezzo sia di controllo mentale e psichico sia di liberazione individuale, ma anche collettiva (laddove la visione riesca a porre in contatto soggetti diversi, come accadeva anche in Nightmare 3, ma senza l’ausilio di droghe), in quanto apertura psicofisica verso dimensioni veritative altre e più profonde rispetto a quelle garantite dalla percezione naturale, e a quest’ultima irrimediabilmente precluse. Lo stesso Alan potrà sconfiggere Peytraud (Zakes Mokae), capo dei Tonton Macoutes, solo in stato di allucinazione estrema. 
Quindi, non solo un film politico, anche se certamente Il serpente e l’arcobaleno lo è a pieno titolo, ma anche una riflessione ardita e composita sui poteri di suggestione e di controllo della mente umana. La realtà è multiforme e stratificata: per accedere alle dimensioni che la innervano latenti, è necessario oltrepassare la condizione limitante della percezione ordinaria e del raziocinio.

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Nel periodo a cavallo fra gli ’80  e i ’90, prima di sviluppare quello che può venire considerato l’ultimo importante tassello tematico della sua carriera, cioè quello più marcatamente teorico, Craven sforna almeno due titoli degni di menzione: Sotto shock (1989) e La casa nera (1991). Può sembrare paradossale notare come il primo intenda costituire un’importante tessera del suo percorso autoriale, pur essendo per lunghi tratti un lavoro debole e disarmonico, quando non decisamente goffo, mentre il secondo, pur delineandosi, almeno all’apparenza, come un divertissement – forse il film di Craven che più di tutti ha l’andamento trasognato della fiaba, non senza dei sapidi momenti di humour nero – e quindi forse, ad una lettura disattenta, meno innovativo del primo, risulti comunque perfetto, sia nella costruzione narrativa sia nella conduzione registica. 
Sotto shock, è noto, nasce con l’intento di creare un nuovo babau degno di Krueger, stavolta però in grado di agire nel mondo reale, servendosi della propria capacità di assumere le sembianze di chiunque (5), oltre che di utilizzare qualsiasi apparecchio elettronico, in primis il televisore, per spostarsi da un luogo all’altro e, nel caso del televisore, per accedere al mondo che si situa dentro lo schermo. 
L’idea di partenza ha delle qualità, così come alcune soluzioni narrative: ad esempio l’ubiquità di un ex serial killer giustiziato ma redivivo, Horace Pinker (un non proprio memorabile Mitch Pileggi), capace di essere ovunque e chiunque, accanto ad alcune trovate, fra cui spicca la capacità del protagonista Jonathan Parker (il poco convincente Peter Berg) di sfruttare la “telegenicità” del killer per bloccarne i movimenti con un telecomando televisivo, o ancora, il duello/inseguimento finale fra i due antagonisti da un canale all’altro della tv. Li si vedrà passare, letteralmente e fisicamente, da reportage di guerra in b/n o a colori alle immagini di un vecchio film, dal palco di un concerto rock allo spettacolo di un tele-imbonitore (interpretato dallo “sciamano” Timothy Leary). 
Si evince con chiarezza il messaggio di critica ai media: il mondo reale (sempre nelle mani di adulti) e la Storia sono ben più terribili e annichilenti anche dell’orrore più spinto che l’immaginazione possa partorire; la tv, differentemente dal cinema, mescola, trita e frulla tutto, realtà e finzione, parola e immagine, vita e morte, annullandone la forza e il senso. La televisione è quindi un contenitore vuoto, attraverso la cui inconsistenza il cinema può transitare, pur rischiando di venirne risucchiato. La bontà delle intenzioni e, come detto, alcune idee tutt’altro che peregrine trovano il loro limite nella durata forse eccessiva della pellicola (110’), negli interpreti non sufficientemente in parte o all’altezza, in una messa in scena che ripesca alcune idee già sfruttate nel cinema di Craven, senza avere la forza e la lucidità necessarie, in questo caso, per valorizzare ed elaborare appieno quelle nuove.
Dopo il trascurabile film televisivo Delitti in forma di stella (1990), Craven si riscatta ampiamente dal mezzo scivolone di Sotto shock con lo splendido La casa nera. In esso sono presenti tutti o quasi i temi che contraddistinguono la sua poetica, tanto da poter essere considerato una specie di compendio del suo cinema, un compendio che però dà vita a un film pressoché perfetto in ogni sua componente, nonché arricchito da alcune convincenti suggestioni letterarie. Il racconto è imperniato sul conflitto fra una (per nulla) rispettabile famiglia facoltosa – col marito Eldon “Daddy” Robeson (un impeccabile Everett McGill), la moglie Mrs “Mommy” Robeson (Wendie Robie, altrettanto efficace, ma tutto il cast risulta felicemente amalgamato) e la figlioletta Alice (A. J. Langer) – e i residenti poverissimi di una zona periferica e disagiata di Los Angeles. 
Circola voce che i Robeson posseggano un’immensa fortuna in monete d’oro e che la loro distinta facciata nasconda più di un segreto inconfessabile. Alla ricerca del famigerato tesoro, due adulti, il bianco Spencer (Jeremy Roberts), il nero Leroy (Ving Rhames), assieme a un ragazzino anch’egli nero, Pointdexter “Fool” Williams (Brandon Adams), si intrufoleranno nell’imponente casa-prigione, rimanendo intrappolati. Mentre i due adulti verranno eliminati rapidamente dai due inquietanti padroni di casa, con l’ausilio del loro fido rottweiler, Fool riuscirà a sfuggire, pur dovendo superare innumerevoli trappole e mortali tranelli, prima di portare a casa la pelle e prendersi la rivincita sui due aguzzini, una rivincita che assumerà i connotati del riscatto sociale dell’intero quartiere. 
Come detto, tutti o quasi i temi del cinema di Craven prendono vita in questa divertente e nerissima fiaba (semi)gotica. Vi si ritrova innanzitutto la dimensione del sogno, di cui la pellicola risulta intrisa per quasi tutta la sua durata, essendo appunto una fiaba nera, una fantasia per immagini, e poi l’eterno conflitto fra adolescenza ed età adulta, quello socio-politico che aveva caratterizzato Il serpente e l’arcobaleno, quello fra perversione e innocenza che si delineava in Nightmare, quello fra borghesia benestante e reietti inselvatichiti dei primi film, ripreso poi anch’esso, in modo diverso, in Nightmare. Inoltre, ancora una volta, il conflitto territoriale diviene sintomo di un corrispondente conflitto di classe. Si assiste anche, rispetto ai lavori precedenti, a una descrizione più scanzonata e beffarda, ma non meno cupa, del nucleo familiare borghese, e ad una rielaborazione dell’home invasion, che sconfina con originalità nelle regioni, in apparenza più tradizionali, delle “case infestate”. 
Tutti questi temi vengono sapientemente mutati di segno da Craven, tanto da trovarsi di fronte a qualcosa di pienamente in linea con la sua poetica, eppure anche diverso, sia pure in modo sottile e tangente. L’home invasion si tramuta in un processo di demolizione progressiva di un contesto familiare tirannico e repellente, nel quale i mostri sono gli “assediati”, non gli infiltrati o – nel finale – gli “assedianti”, cioè la popolazione del quartiere giunta alla casa dei Robeson per reclamare la propria libbra di carne. I due “coniugi” sono in realtà fratelli e, non avendo progenie naturale dal loro incestuoso rapporto, si sono riempiti la casa dei figli degli altri abitanti del quartiere, alla ricerca del rampollo perfetto (ecco “the people under the stairs” del titolo originale, ragazzi ormai più o meno cresciuti, incatenati da anni nella cantina dell’abitazione e regrediti a una condizione semi-animale: l’abitazione è quindi “infestata” dalle vittime). Anche Alice, la giovane che funge da figlia dell’anomala coppia, non è altro che l’ennesima ragazzina rapita nella zona. 
I residenti del quartiere, dal canto loro, hanno visto progressivamente sparire nel nulla i propri figli ed essendo perlopiù indigenti, quindi non in grado di difendersi da sé o di essere protetti dalle forze dell’ordine, ancora una volta tratteggiate come colpevolmente incapaci, se non colluse e servili con le classi dominanti, sono costretti a subire la dura legge non scritta della società capitalistica, in cui solo chi è benestante ne viene riconosciuto come meritevole membro. In sostanza, si ripropone la situazione matrice di Nightmare, ma con una notevole differenza. Mentre in Nightmare il devil’s reject è l’emarginato e incazzatissimo Freddy, sorta di clochard sottoproletario, brutto, sporco e ultra-cattivo, ne La casa nera i veri mostri sono i solo apparentemente inciviliti Robeson. 
Naturalmente, se la famiglia borghese, tradizionale e benestante, spesso descritta da Craven come retrograda, bigotta e ottusa, veniva già messa alla berlina in molti dei titoli da lui sfornati in passato (6), qui viene addirittura additata come sentina di vizi connaturati e costitutivi, come crogiolo di perversioni estreme, stemperate dal magistrale registro umoristico individuato felicemente dal regista. Il film si giova di una calibrata armonia narrativa, vivificata dalle continue trovate scenografiche, grazie alle quali la casa diventa una vera protagonista aggiunta, col suo tracciato labirintico e la sua doppia spazialità, quella reale di casa-lager e quella fittizia di idillico quadretto domestico, con in più l’ulteriore invenzione di porre le vere vittime in una cantina buia, quindi in uno dei luoghi d’elezione del mostruoso fantastico (dove è anche occultato un tesoro d’altri tempi, degno di Ebenezer Scrooge), e i veri mostri alla luce degli eleganti piani abitati superiori. 
Non vanno neppure dimenticati i guizzi di una regia totalmente a suo agio con gli argomenti trattati e con la loro messa in scena, in cui si avvertono anche i rimandi letterari a Lewis Carroll e alla sua Alice, oltre che alle atmosfere dickensiane di Oliver Twist o del Canto di Natale. Emerge quindi un quadro complessivo, non solo relativo all’horror in generale, ma anche, più in particolare, alle connotazioni specifiche conferitegli da Craven, in cui i cliché consolidati vengono rielaborati, deformati, elusi e moltiplicati, con acume e consapevolezza, preparando la strada al periodo meta-filmico e teorico che caratterizzerà l’ultima parte della sua carriera.

(continua...)

5) Tema che si ritrova anche in un film di Jack Sholder, L’alieno (1987), di poco precedente, tanto da portare a pensare – come fa notare Danilo Arona – che Craven abbia forse voluto prendersi una piccola rivincita proprio su Sholder, che l’aveva “spodestato” dietro la mdp per la regia di Nightmare 2 – La rivincita (1985), anche se era stato Craven, comunque, a rifiutare di dirigerlo. Peraltro, Craven stesso nega di aver voluto “copiare” Sholder. In ogni caso, tale tema era già presente, come abbozzo, in un vecchio episodio della prima stagione (1960) di Ai confini della realtà, e precisamente Morire in quattro (The Four of Us Are Dying), scritto da Rod Serling e diretto da John Brahm. Il film Il tocco del male (1998) di Gregory Hoblit giocherà molte delle sue carte ancora sul medesimo tema.
6) Per Craven il contesto familiare, almeno quel particolare contesto da lui sperimentato in gioventù, visti i trascorsi personali con la madre-virago, invasata religiosa, difficilmente può essere tratteggiato con occhi indulgenti. Nel suo cinema, tale frattura psicologica originaria è quasi sempre ben presente.

Gian Giacomo Petrone

Sezione di riferimento: Into The Pit

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