The dream warriors – Sognare la morte, combattere per la vita
Con Le colline hanno gli occhi, Wes Craven di fatto conclude quella che può idealmente essere considerata la prima fase del suo percorso tematico, iniziando a transitare dall’incubo a occhi aperti degli esordi a quello a occhi chiusi – o meglio, aperti su un’altra e ben più complessa dimensione – che prenderà una forma compiuta e matura solo a partire dalla metà degli anni ’80.
I titoli che si avvicendano a coprire i circa sette anni che intercorrono fra Le colline hanno gli occhi e quella che forse è l’opera più importante di Craven, cioè Nightmare – Dal profondo della notte (1984), sembrano per certi versi preparare il terreno proprio al deflagrare della potenza iconoclasta e beffarda di Freddy Krueger, accompagnato dal suo inesauribile bagaglio di ingegnose e mortali trappole oniriche. Pur essendo molti di questi titoli di passaggio perlopiù trascurabili, va anche detto, tuttavia, che in pressoché tutti è presente la dimensione del sogno come porta aperta su una dimensione veritativa altra e distante da quella della veglia. Se Summer of Fear (1978) “è una sorta di trattato di impotenza onirica”, come ebbe a dire lo stesso Craven (1), Benedizione mortale (1981) – l’unico titolo sopra la media nel periodo in questione – si presenta come una sorta di spartiacque simbolico fra un prima e un dopo, con il confronto-scontro fra famiglie-comunità, già tema portante del dittico settantiano, e con un plot da thriller, a tratti irrisolto anche se spesso assai efficace, e altresì con interessanti inserti onirici, che già anticipano il magnum opus che verrà tre anni dopo.
Dopo i trascurabili, quando non sostanzialmente dimenticabili, Il mostro della palude (1982) e Invito all’inferno (1984), si giunge finalmente a varcare, in pompa magna e ufficialmente, l’ombroso ingresso che separa la vita cosciente da quella nebulosa del sonno. Il territorio delle nuove lotte per la sopravvivenza, nell’opera di Craven, diviene quindi quello liminare fra realtà e sogno: un confine/varco che non solo separa e discerne gli elementi del mondo diegetico sullo schermo, mantenendoli però sempre comunicanti, ma che crea anche un cortocircuito fra quell’universo di ombre e quello della sala, nel quale rimane sospeso lo spettatore. È il cortocircuito della visione filmica, che Craven approfondirà ulteriormente nell’ultima parte della propria carriera.
Con il primo Nightmare, il cinema di Wes Craven esprime la raggiunta maturità artistica del regista, una maturità che paradossalmente vede come protagonista (e anche come pubblico principale di riferimento) il mondo dell’adolescenza – in particolare nel ruolo della protagonista Nancy Thompson (Heather Langenkamp, la cui fama sarà legata a filo doppio con la saga di Freddy, così come lo sarà anche quella di Robert Englund) – nel quale realtà e immaginazione, veglia, sonno e allucinazione ancora si (con)fondono e in cui le barriere della sospensione di incredulità non sono del tutto sviluppate o calcificate nell’immaginario.
La paura attecchisce in buona parte ancora nella sfera dell’irrazionale, dell’invisibile, e il mondo adulto non possiede (più) le chiavi per entrarvi. Leggendo il film in tal modo, ne risulta innanzitutto una potentissima metafora sia del cinema fantastico sia del cinema in generale, i quali richiedono a chi accede alla sala, specie nel caso del primo, di abbandonare all’entrata le proprie grigie e incrollabili certezze, per avere accesso a quella zona crepuscolare che è il mondo proiettato sullo schermo. La pienezza del sogno e la sua appartenenza a quell’unica dimensione dell’uomo che è l’esistenza non può che risiedere nella purezza della giovane età, dimentica delle sonnolente e limitate leggi della ragione. In buona sostanza, il motivo per cui Freddy (2) non può essere sconfitto dagli adulti e per cui può essere compreso e, sia pure a stento, tenuto a bada dai ragazzi si situa nel fatto che egli abita, da archetipico orco/Uomo Nero, il territorio intangibile e opaco dell’immaginazione e delle ombre dell’inconscio.
Una volta che gli adulti della cittadina (immaginaria, ma uguale a tanti altri centri della provincia americana) di Springwood decidono di giustiziare l’assassino di ragazzini Freddy Krueger, quando ancora è un uomo vivente o qualcosa che gli assomiglia, innanzitutto essi commettono l’errore di pensare, oltre che di sostituirsi alla Legge (umana o divina, poco importa), anche di poter sopprimere una creatura con tratti già mitici: non si può uccidere l’orco, perché comunque rinascerà in altri racconti – come effettivamente accadrà anche a Freddy – o in altri sogni mostruosi; non si può uccidere il Male, lo si può solo limitare; non si possono rimuovere totalmente gli spettri partoriti dalle nostre paure o azioni, perché ritorneranno sotto forma di incubi.
Qui, oltretutto, Craven porta alle estreme conseguenze le tematiche proprie dei primi film: se ne L’ultima casa a sinistra e ne Le colline hanno gli occhi lo scontro fra civiltà e barbarie veniva rappresentato come contrapposizione fra clan ormai indistinguibili, contrapposizione nella quale dal male poteva germogliare solo il male, chiunque l’avesse commesso e chiunque avesse iniziato a commetterlo, in Nightmare Craven è come se partisse dalla conclusione di tali assunti per mostrarne gli effetti, per raccontare come la nascita della “buona” comunità/nazione affondi, e non possa che affondare, le proprie radici nel sangue, là dove l’arbitrio, l’ingiustizia e l’assenza della legge ne costituiscono le premesse.
Ecco allora che in Nightmare 3 – I guerrieri del sogno, del 1987 (nel quale Craven, dopo l’assenza da Nightmare 2 – La rivincita, torna alla sua creatura in veste di sceneggiatore (3) e la cosa si riverbera positivamente su quello che viene considerato uno degli esiti migliori all’interno della saga), la vicenda sembra muoversi proprio da tali premesse, per indirizzarsi non solo verso l’eliminazione definitiva dell’Uomo Nero, ma anche verso la possibilità di rendergli quella giustizia che da vivo, nonostante le nefandezze compiute, non aveva avuto. L’obiettivo ultimo degli antagonisti di Freddy sarà quello di seppellire i suoi resti in terra consacrata, tentando di donargli la pace: un (malriuscito) tentativo, da parte di ciò che resta della comunità di Springwood, di rimediare alle proprie colpe, una specie di rito apotropaico per esorcizzare la maledizione di Freddy.
La rivelazione di altri antefatti riguardanti il concepimento e la nascita di Freddy (Amanda Krueger, molti anni prima, nelle vesti talari di suor Mary Helena, rimasta rinchiusa nel manicomio di Westin Hills, venne violentata dai pazienti e rimase incinta: il frutto di quella cieca violenza fu Freddy) conducono a vedere quest’ultimo come una sostanziale vittima, sia per la sua nascita, sia per le pulsioni aberranti derivate, senza colpa da parte sua, da uno dei possibili e degeneri padri, forse anche un vago riferimento a M – Il mostro di Düsseldorf (1931), film nel quale, peraltro, compare una filastrocca/nenia simile a quella che accompagna la saga di Nightmare. Tuttavia, Freddy è irriducibile a qualsiasi ridimensionamento della sua figura, a qualsiasi tentativo di conferirgli tratti anche vagamente umani, perché egli, da buon guardiano della soglia dell’incubo, da demone di epoche remote cresciuto e nutrito dalla cattiva coscienza dell’uomo, oltre che nato da un atto estremo di crudeltà, non può che rappresentare un male originario e inestirpabile, il Male.
Con la nascita e lo sviluppo della figura di Krueger, Craven dà forma a un’originalissima declinazione della possessione, quindi dell’invasione del territorio più intimo per l’uomo, quello della propria interiorità. Se la possessione diabolica può essere letta come una sorta di soul invasion, estremizzazione dell’home invasion, cioè della colonizzazione, da parte di oscure forze estranee, dell’ambiente in cui l’uomo trova rifugio e sicurezza (4), Craven si spinge ancora più in là, arrivando a una laica conscience invasion, a partire dalla quale non tanto l’interiorità in quanto tale è occupata, ma piuttosto quell’isola misteriosa in essa racchiusa che va sotto il nome di Es, di inconscio. Il tutto, nondimeno, in totale assenza di qualsiasi attitudine psicanalitica o para-scientifica.
Craven crede nella forza dirompente e immaginifica del sogno come un altro grandissimo, Howard Phillips Lovecraft, e, come quest’ultimo, non crede agli alambicchi della ragione o della scienza come chiarificazione definitiva ai misteri del reale. Egli confida, quindi, nella forza rivelatrice e magica della visione notturna, laddove il “vedere” si configura come potenziamento della mente (visto che l’occhio è serrato), come “occhio di troppo”, capace di svelare l’invisibile. Questo “occhio di troppo” è il dono posseduto solo da pochi eletti, capaci di annullare lo strato pellicolare della realtà sensibile, per penetrarne le intricate maglie, i livelli sottostanti. Solo delle menti pure come quelle fanciullesche – o per esteso, come quelle degli spettatori cinematografici persi nelle ombre della visione filmica – possono accedere alla soglia che lega le dimensioni apparentemente separate della veglia e del sonno, per varcarla, anche insieme se necessario, come accadrà in Nightmare 3.
Se la coscienza collettiva della società adulta è contaminata dalla colpa originaria (cioè il sangue versato in funzione della vendetta e perciò maledetto) che l’ha fondata come tale, ma che in realtà l’ha divisa al proprio interno col prevalere dell’interesse particolare di ciascuna cellula familiare, l’unica autentica comunità rimasta è quella adolescenziale, che agisce di concerto, al proprio interno, per riscattare la colpa originaria dei padri. In Nightmare 3, per portare a termine il compito, la micro-comunità degli adolescenti minacciati da Freddy sarà costretta a costituirsi come inconscio collettivo, o meglio, come pattuglia sperduta all’interno di quell’inferno della mente che è l’antro sospeso al di là della materia, ancorché ancorato a una dimensione inquietantemente tattile e fisica, dove si nasconde l’Uomo Nero.
Per affrontarlo, mentre i pochi adulti che hanno compreso, cioè il padre di Nancy (John Saxon) e il dottor Gordon (Craig Wasson), da svegli, tentano l’esorcismo (in realtà vano, come suggerirà il finale) per la sepoltura dei resti di Freddy, i ragazzi, con Nancy in testa, si addentrano nel territorio del mostro, quello dell’inconscio, da veri dream warriors. In definitiva, il loro compito non è solo tentare di distruggere la minaccia per le loro vite, ma ciò che essa rappresenta per la loro libertà di esprimere la propria soggettività attraverso l’interezza dell’Io. Se non esistesse il sonno col suo corollario di sogni, Freddy non potrebbe costituire un pericolo per loro, ma l’uomo che non dorme mai, l’uomo che, metaforicamente e non solo, vive esclusivamente del proprio intelletto calcolante, senza concedere spazio al mistero dell’ignoto, alle proprie fantasie e ai propri fantasmi, non è più un essere libero.
Ecco, proprio della forza di questa metafora si abbevera il cinema, horror e non, assieme a tutti quegli esseri umani che ancora credono ai racconti e ai fantasmi o, perlomeno, non riescono a smettere di farlo, da veri dream warriors.
1) Cfr. Danilo Arona, op. cit., p. 46.
2) Nel primo Nightmare, il personaggio viene chiamato semplicemente “Fred”; diventerà “Freddy” a partire dal secondo capitolo.
3) Coadiuvato da Frank Darabont, Bruce Wagner e da Chuck Russell, che siede anche dietro la mdp, mentre si rivede anche la Langenkamp, parimenti assente dal secondo capitolo.
4) Si noti come nel film-archetipo sulla possessione, L’esorcista, tale colonizzazione cominci come controllo del demonio sugli oggetti della casa, primo fra tutti il letto, cioè il luogo in cui si passa, non a caso, dalla realtà concreta alla dimensione scivolosa del sogno.
Di sicuro, il nostro ci mette tempo a mettere a fuoco i suoi temi, tanto da attraversare, dopo A Nightmare on Elm Street, come è già capitato e come ancora capiterà, un periodo transitorio, che va sostanzialmente dal 1984 al 1988 (fatta salva la sceneggiatura di Nightmare 3, come detto), con qualche lavoro televisivo, titoli da sala di poco conto, quando non palesemente modesti; tuttavia è anche certo che, quando le idee divengono chiare, Craven sforni lavori di altissimo profilo. In questo caso, già l’idea di partenza è notevole: riprendere la figura dello zombi non dai geniali lavori di Romero (che solo tre anni prima, nel 1985, con Day of the Dead, aveva concluso quella che, per circa vent’anni, sarà nota come la “trilogia” sugli zombi), ma direttamente dalla tradizione haitiana del voodoo.
Il tutto però risalta maggiormente, se si tiene presente il riferimento di Craven non ad un momento storico qualsiasi, ma a quello che precedette di poco la caduta del dittatore Jean-Claude Duvalier, noto come “Baby Doc” (subentrato al potere del padre François Duvalier “Papa Doc”, alla morte di questi nel ’71). Per inciso, i rapporti di Papa Doc con gli Usa non furono idilliaci soltanto durante la breve presidenza di J.F. Kennedy, ma lo furono prima del mandato e dopo la morte di quest’ultimo. In particolare gli Stati Uniti, dopo l’attentato di Dallas del 1963, tornarono subito a fornire supporto al dittatore, in funzione anticomunista e anticubana. Solo con il democratico Jimmy Carter (presidente dal 1977 al 1981), da una parte, e il nuovo dittatore Baby Doc, dall’altra, il potere di quest’ultimo venne posto in discussione dall’amministrazione statunitense, ma egli riuscì a rimanere in carica, senza scossoni, fino alla rivolta popolare del febbraio 1986, ed è noto che fine facciano i dittatori veramente invisi agli americani.
In più, giusto per dare l’esatta coloritura della nazione haitiana e per evidenziare quelli che saranno gli ulteriori meriti della pellicola di Craven – un film di finzione, per di più horror, capace di individuare una cifra non solo realistica ma veritativa, assente da molti lavori documentari o sedicenti “impegnati” – va ricordato l’uso che i due dittatori fecero del loro potere. In particolare Papa Doc, spregiudicato come tutti i tiranni e buon conoscitore della cultura e delle tradizioni locali, mantenne il proprio posto di comando facendo leva sul doppio binario del terrore poliziesco e di quello magico. Si autoproclamò houngan, “mago nero”, e poi addirittura tentò di accostare la propria figura a quella psicopompa di Baron Samedi, il Signore dei morti.
I ferocissimi Tonton Macoutes (“uomini neri” od “orchi” in creolo), i suoi pretoriani, rivestirono il doppio ruolo di poliziotti e di stregoni. Un miscuglio sincretico di cattolicesimo e credenze voodoo fu utilizzato per controllare le menti della popolazione, in un contesto in cui la religione era “oppio dei popoli” non solo metaforicamente, ma anche letteralmente, giacché le pratiche del voodoo prevedevano l’utilizzo di forti sostanze allucinogene per provocare le “visioni”. Il figlio di Papa Doc, Baby Doc, nella parte finale del proprio regno utilizzò gli stessi metodi di terrore del padre ed è in tale contesto temporale che si inserisce la narrazione di Craven, col prologo ambientato nel ’78 e il resto del film nella metà degli anni ‘80.
Il serpente e l’arcobaleno amalgama una materia narrativa assai complessa attorno alla figura del protagonista, Dennis Alan (Bill Pullman), vero fulcro del racconto. Tramite Alan, si condensa e si chiarisce, per quanto possibile, l’enigma-chiave su cui fa perno il film e cioè dove finisca la percezione reale delle cose e dove inizi l’allucinazione, un tema che somiglia molto a quello sviluppato da Craven con la comparsa di Freddy sugli schermi. Il protagonista è uno scienziato, un etno-botanico e antropologo inviato da una multinazionale farmaceutica statunitense per studiare le proprietà, ai confini con la magia, di alcune piante sconosciute dell’isola di Haiti e i loro effetti sull’uomo. Una volta in loco, Dennis scopre a proprie spese cosa significhi una visione di natura potentemente allucinata, a causa dei preparati di alcuni sciamani locali, nonché come si configuri la vita di un popolo che non conosce la libertà, nemmeno quella di pensare.
Il film gioca splendidamente sia sul binario politico del controllo mentale e fisico, sia su quello onirico-sciamanico della valenza della visione semplice, legata alla percezione naturale e dunque alla veglia, nel suo confronto con la visione potenziata, legata all’allucinazione e all’incubo. L’interrogativo profondo, posto da Il serpente e l’arcobaleno, riguarda – così come accadeva, sia pure in modi e contesti diversi, nei vari Nightmare – la verità aggrovigliata e complessa dell’allucinazione/visione, in quanto contrapposta a quella lineare dell’esperienza diurna. Come nell’etimo greco del termine pharmakon, che indica sia il veleno sia la medicina, anche nel contesto esaminato dal film l’ambiguità rimane, giacché la droga è mezzo sia di controllo mentale e psichico sia di liberazione individuale, ma anche collettiva (laddove la visione riesca a porre in contatto soggetti diversi, come accadeva anche in Nightmare 3, ma senza l’ausilio di droghe), in quanto apertura psicofisica verso dimensioni veritative altre e più profonde rispetto a quelle garantite dalla percezione naturale, e a quest’ultima irrimediabilmente precluse. Lo stesso Alan potrà sconfiggere Peytraud (Zakes Mokae), capo dei Tonton Macoutes, solo in stato di allucinazione estrema.
Quindi, non solo un film politico, anche se certamente Il serpente e l’arcobaleno lo è a pieno titolo, ma anche una riflessione ardita e composita sui poteri di suggestione e di controllo della mente umana. La realtà è multiforme e stratificata: per accedere alle dimensioni che la innervano latenti, è necessario oltrepassare la condizione limitante della percezione ordinaria e del raziocinio.
Sotto shock, è noto, nasce con l’intento di creare un nuovo babau degno di Krueger, stavolta però in grado di agire nel mondo reale, servendosi della propria capacità di assumere le sembianze di chiunque (5), oltre che di utilizzare qualsiasi apparecchio elettronico, in primis il televisore, per spostarsi da un luogo all’altro e, nel caso del televisore, per accedere al mondo che si situa dentro lo schermo.
L’idea di partenza ha delle qualità, così come alcune soluzioni narrative: ad esempio l’ubiquità di un ex serial killer giustiziato ma redivivo, Horace Pinker (un non proprio memorabile Mitch Pileggi), capace di essere ovunque e chiunque, accanto ad alcune trovate, fra cui spicca la capacità del protagonista Jonathan Parker (il poco convincente Peter Berg) di sfruttare la “telegenicità” del killer per bloccarne i movimenti con un telecomando televisivo, o ancora, il duello/inseguimento finale fra i due antagonisti da un canale all’altro della tv. Li si vedrà passare, letteralmente e fisicamente, da reportage di guerra in b/n o a colori alle immagini di un vecchio film, dal palco di un concerto rock allo spettacolo di un tele-imbonitore (interpretato dallo “sciamano” Timothy Leary).
Si evince con chiarezza il messaggio di critica ai media: il mondo reale (sempre nelle mani di adulti) e la Storia sono ben più terribili e annichilenti anche dell’orrore più spinto che l’immaginazione possa partorire; la tv, differentemente dal cinema, mescola, trita e frulla tutto, realtà e finzione, parola e immagine, vita e morte, annullandone la forza e il senso. La televisione è quindi un contenitore vuoto, attraverso la cui inconsistenza il cinema può transitare, pur rischiando di venirne risucchiato. La bontà delle intenzioni e, come detto, alcune idee tutt’altro che peregrine trovano il loro limite nella durata forse eccessiva della pellicola (110’), negli interpreti non sufficientemente in parte o all’altezza, in una messa in scena che ripesca alcune idee già sfruttate nel cinema di Craven, senza avere la forza e la lucidità necessarie, in questo caso, per valorizzare ed elaborare appieno quelle nuove.
Dopo il trascurabile film televisivo Delitti in forma di stella (1990), Craven si riscatta ampiamente dal mezzo scivolone di Sotto shock con lo splendido La casa nera. In esso sono presenti tutti o quasi i temi che contraddistinguono la sua poetica, tanto da poter essere considerato una specie di compendio del suo cinema, un compendio che però dà vita a un film pressoché perfetto in ogni sua componente, nonché arricchito da alcune convincenti suggestioni letterarie. Il racconto è imperniato sul conflitto fra una (per nulla) rispettabile famiglia facoltosa – col marito Eldon “Daddy” Robeson (un impeccabile Everett McGill), la moglie Mrs “Mommy” Robeson (Wendie Robie, altrettanto efficace, ma tutto il cast risulta felicemente amalgamato) e la figlioletta Alice (A. J. Langer) – e i residenti poverissimi di una zona periferica e disagiata di Los Angeles.
Circola voce che i Robeson posseggano un’immensa fortuna in monete d’oro e che la loro distinta facciata nasconda più di un segreto inconfessabile. Alla ricerca del famigerato tesoro, due adulti, il bianco Spencer (Jeremy Roberts), il nero Leroy (Ving Rhames), assieme a un ragazzino anch’egli nero, Pointdexter “Fool” Williams (Brandon Adams), si intrufoleranno nell’imponente casa-prigione, rimanendo intrappolati. Mentre i due adulti verranno eliminati rapidamente dai due inquietanti padroni di casa, con l’ausilio del loro fido rottweiler, Fool riuscirà a sfuggire, pur dovendo superare innumerevoli trappole e mortali tranelli, prima di portare a casa la pelle e prendersi la rivincita sui due aguzzini, una rivincita che assumerà i connotati del riscatto sociale dell’intero quartiere.
Come detto, tutti o quasi i temi del cinema di Craven prendono vita in questa divertente e nerissima fiaba (semi)gotica. Vi si ritrova innanzitutto la dimensione del sogno, di cui la pellicola risulta intrisa per quasi tutta la sua durata, essendo appunto una fiaba nera, una fantasia per immagini, e poi l’eterno conflitto fra adolescenza ed età adulta, quello socio-politico che aveva caratterizzato Il serpente e l’arcobaleno, quello fra perversione e innocenza che si delineava in Nightmare, quello fra borghesia benestante e reietti inselvatichiti dei primi film, ripreso poi anch’esso, in modo diverso, in Nightmare. Inoltre, ancora una volta, il conflitto territoriale diviene sintomo di un corrispondente conflitto di classe. Si assiste anche, rispetto ai lavori precedenti, a una descrizione più scanzonata e beffarda, ma non meno cupa, del nucleo familiare borghese, e ad una rielaborazione dell’home invasion, che sconfina con originalità nelle regioni, in apparenza più tradizionali, delle “case infestate”.
Tutti questi temi vengono sapientemente mutati di segno da Craven, tanto da trovarsi di fronte a qualcosa di pienamente in linea con la sua poetica, eppure anche diverso, sia pure in modo sottile e tangente. L’home invasion si tramuta in un processo di demolizione progressiva di un contesto familiare tirannico e repellente, nel quale i mostri sono gli “assediati”, non gli infiltrati o – nel finale – gli “assedianti”, cioè la popolazione del quartiere giunta alla casa dei Robeson per reclamare la propria libbra di carne. I due “coniugi” sono in realtà fratelli e, non avendo progenie naturale dal loro incestuoso rapporto, si sono riempiti la casa dei figli degli altri abitanti del quartiere, alla ricerca del rampollo perfetto (ecco “the people under the stairs” del titolo originale, ragazzi ormai più o meno cresciuti, incatenati da anni nella cantina dell’abitazione e regrediti a una condizione semi-animale: l’abitazione è quindi “infestata” dalle vittime). Anche Alice, la giovane che funge da figlia dell’anomala coppia, non è altro che l’ennesima ragazzina rapita nella zona.
I residenti del quartiere, dal canto loro, hanno visto progressivamente sparire nel nulla i propri figli ed essendo perlopiù indigenti, quindi non in grado di difendersi da sé o di essere protetti dalle forze dell’ordine, ancora una volta tratteggiate come colpevolmente incapaci, se non colluse e servili con le classi dominanti, sono costretti a subire la dura legge non scritta della società capitalistica, in cui solo chi è benestante ne viene riconosciuto come meritevole membro. In sostanza, si ripropone la situazione matrice di Nightmare, ma con una notevole differenza. Mentre in Nightmare il devil’s reject è l’emarginato e incazzatissimo Freddy, sorta di clochard sottoproletario, brutto, sporco e ultra-cattivo, ne La casa nera i veri mostri sono i solo apparentemente inciviliti Robeson.
Naturalmente, se la famiglia borghese, tradizionale e benestante, spesso descritta da Craven come retrograda, bigotta e ottusa, veniva già messa alla berlina in molti dei titoli da lui sfornati in passato (6), qui viene addirittura additata come sentina di vizi connaturati e costitutivi, come crogiolo di perversioni estreme, stemperate dal magistrale registro umoristico individuato felicemente dal regista. Il film si giova di una calibrata armonia narrativa, vivificata dalle continue trovate scenografiche, grazie alle quali la casa diventa una vera protagonista aggiunta, col suo tracciato labirintico e la sua doppia spazialità, quella reale di casa-lager e quella fittizia di idillico quadretto domestico, con in più l’ulteriore invenzione di porre le vere vittime in una cantina buia, quindi in uno dei luoghi d’elezione del mostruoso fantastico (dove è anche occultato un tesoro d’altri tempi, degno di Ebenezer Scrooge), e i veri mostri alla luce degli eleganti piani abitati superiori.
Non vanno neppure dimenticati i guizzi di una regia totalmente a suo agio con gli argomenti trattati e con la loro messa in scena, in cui si avvertono anche i rimandi letterari a Lewis Carroll e alla sua Alice, oltre che alle atmosfere dickensiane di Oliver Twist o del Canto di Natale. Emerge quindi un quadro complessivo, non solo relativo all’horror in generale, ma anche, più in particolare, alle connotazioni specifiche conferitegli da Craven, in cui i cliché consolidati vengono rielaborati, deformati, elusi e moltiplicati, con acume e consapevolezza, preparando la strada al periodo meta-filmico e teorico che caratterizzerà l’ultima parte della sua carriera.
(continua...)
5) Tema che si ritrova anche in un film di Jack Sholder, L’alieno (1987), di poco precedente, tanto da portare a pensare – come fa notare Danilo Arona – che Craven abbia forse voluto prendersi una piccola rivincita proprio su Sholder, che l’aveva “spodestato” dietro la mdp per la regia di Nightmare 2 – La rivincita (1985), anche se era stato Craven, comunque, a rifiutare di dirigerlo. Peraltro, Craven stesso nega di aver voluto “copiare” Sholder. In ogni caso, tale tema era già presente, come abbozzo, in un vecchio episodio della prima stagione (1960) di Ai confini della realtà, e precisamente Morire in quattro (The Four of Us Are Dying), scritto da Rod Serling e diretto da John Brahm. Il film Il tocco del male (1998) di Gregory Hoblit giocherà molte delle sue carte ancora sul medesimo tema.
6) Per Craven il contesto familiare, almeno quel particolare contesto da lui sperimentato in gioventù, visti i trascorsi personali con la madre-virago, invasata religiosa, difficilmente può essere tratteggiato con occhi indulgenti. Nel suo cinema, tale frattura psicologica originaria è quasi sempre ben presente.
Gian Giacomo Petrone
Sezione di riferimento: Into The Pit
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