Il saper ridere di se stesso, l’esser serio senza prendersi sul serio, la puntuta ironia capace sovente di trasformarsi in autoironia, costituiscono uno dei tratti salienti della personalità di attore di Vincent Price : un’icona dell’horror a cui il genere ha portato grande fortuna, fama e delle notevolissime interpretazioni, ma che lo ha non di rado costretto sia a sentirsi limitato nelle possibilità di scelta a livello artistico, sia a vedersi mancare il pieno sostegno di una critica troppo spesso legata a categorie di giudizio ottusamente miopi rispetto al genere.
Oscar insanguinato – debitore, ma solo a livello di struttura narrativa, de L’abominevole dottor Phibes di Robert Fuest (1971), di poco antecedente e sempre con Price mattatore – del britannico Douglas Hickox, concede a Price una totale e appagante libertà interpretativa, gli consente di misurarsi, finalmente e da assoluto protagonista, con Shakespeare e, soprattutto, gli dà la possibilità di svillaneggiare e letteralmente massacrare, sia pure con grande classe e affilata ironia, proprio la categoria dei critici, che risulterà bersaglio dei raffinati omicidi del suo personaggio, il folle e geniale ex (assai poco propenso a esserlo) attore di teatro Edward Lionheart. Non va dimenticato, peraltro, come il film di Hickox sia in grado anche di proporsi come una sottile, e mai meramente accademica, incursione negli impervi territori del meta-teatro e del meta-cinema, sia pure in forma di sfrenato gioco al massacro, ancorché temperato dal ghignante nume del black humour incarnato da Price.
Già nei titoli di testa è possibile intravedere la sagacia di Hickox, che inframmezza i canonici credits introduttivi con gustosi filmati d’epoca, che ripercorrono alcune delle più celebri tragedie del Bardo: film(ati) muti, in b/n e probabilmente girati sul palcoscenico nei primi anni del secolo scorso, tanto da renderli degli esempi proprio di quel teatro filmato tanto vituperato dai critici cinematografici moderni e, al contrario, molto amato agli esordi del cinema, quando la concezione manichea dei primi esegeti dell’immagine in movimento riguardava i contenuti, (1) mentre il concetto di “specifico filmico” era ancora di là da venire. Subito dopo si entra nel presente diegetico, che, nel caso di Oscar insanguinato, coincide col presente delle riprese: la mdp inquadra un furgone che reca la scritta: “Shakespeare’s/of Fulham SW6/Removers”. Poi l’inquadratura si restringe fino a diventare il dettaglio della prima pagina del Financial Times (con la data 15 marzo 1972), il cui lettore, il critico teatrale George Maxwell (Michael Hordern), sarà anche la prima vittima di Lionheart.
1) In questo metro di giudizio è possibile però, paradossalmente, notare anche un’anticipazione dell’uggiosa solerzia di quegli esteti del cinema alto che inizieranno a bandire Price dal loro orizzonte, una volta che questi sembrerà aver intrapreso la via che allontana dalla (loro) buona considerazione, cioè la via dei generi. In realtà, la controversia sui contenuti non è mai venuta meno e non risulta assente nemmeno oggi.
Torniamo per un attimo alla scritta sul furgone e ai filmati iniziali. Tutto il film è percorso da una serie di rompicapi, di richiami più o meno espliciti, e sempre di impronta ludica, alle opere di Shakespeare, nonché di giochi di parole, apprezzabili solo nella versione in lingua originale. La scritta sul furgone indica che, nella zona di Fulham, il cui postal code è appunto SW6, (2) agiscono i “removers” di Shakespeare, cioè Lionheart e i suoi bizzarri accoliti, ma anche, a livello metafilmico, Hickox e la sua troupe, il cui scopo è quello di rimuovere, ricollocare Shakespeare, sia in ambientazioni aliene alla sacralità dei teatri londinesi canonici, sia come rivisitazione delle sue opere in una chiave interpretativa decisamente e beffardamente inedita.
2) La sigla indica, nello specifico, l’area South/West di Londra, distretto n° 6, anche se una parte dell’azione si svolge nel distretto contiguo SW15, in cui ha sede il teatro abbandonato (in realtà, si tratta del vecchio e dismesso ippodromo di Putney, demolito nel 1975) dove ha il suo covo Lionheart.
Seguendo lo stesso ordine di ragionamento, è possibile scorgere, nei filmati introduttivi, una serie di arguti slittamenti di segno e di senso, che possono rimandare alla dicotomia fra la comicità involontaria delle immagini (cariche di tempo e lontane dalla sensibilità dello spettatore moderno) e la tragicità degli argomenti trattati, oppure al contrasto fra l’opera del Bardo – in cui predomina la parola – e le immagini, che, non essendo sonorizzate, non possono che affidare la loro espressività a gesti necessariamente enfatici ed esageratamente teatrali; infine si può individuare, nel passaggio dai filmati in b/n alla prima sequenza diegetica ambientata nel presente e a colori, uno scarto fra il vecchio e il nuovo, cioè una metafora del conflitto che caratterizza la lotta impari fra l’anziano e nostalgico ex attore di teatro e un mondo nel quale per lui non c’è più posto.
È lo spirito indomabile del protagonista e la sua acre collera verso i critici suoi detrattori che fanno da motore per lo svilupparsi di un canovaccio narrativo tanto prevedibile nella struttura, quanto imprevedibile, sottilmente malinconico, palesemente sarcastico e furiosamente sanguigno nella messa in scena, così come nella recitazione, mentre un labirintico gioco di rimandi e allusioni, o di implicazioni fra teatro e cinema, verità e finzione, recitazione e immedesimazione, arte e critica (con velleità letterarie) sostanzia l’opera con una stratigrafia di significati non sempre di immediata identificazione.
La trama è presto detta: Lionheart – attore scespiriano di vecchia scuola, gigione, enfatico, magniloquente e ampolloso secondo i suoi detrattori, divino, sublime, geniale secondo il suo parere e quello della leale figlia Edwina ( Diana Rigg ) – dato per morto dopo essersi buttato nel Tamigi, in seguito alla delusione per la mancata premiazione come Attore dell’Anno (3), è invece più vivo che mai, dopo essere stato tratto in salvo da una comunità di barboni che occupa un fatiscente teatro in disuso, ed è pronto a vendicarsi dei nove critici che hanno composto la giuria per l’assegnazione del premio e che, nel corso degli anni, non hanno fatto altro che umiliarlo con le loro perfide recensioni. Ciò che conta, naturalmente, è il come della vendetta, che prende le forme di una macabra e geniale rivisitazione di alcune fra le scene più cruente del repertorio di Lionheart. A farne le spese saranno otto dei nove, che, secondo la legge del contrappasso, moriranno come figure scespiriane.
3) Il premio teatrale, per insondabili motivi, si trasforma in “Oscar” nel titolo dell’edizione italiana.
Trevor Dickman (Harry Andrews), il cui cognome dice molto circa la sua vivacità sessuale, finirà in trappola – novello Antonio in una riedizione alquanto più sanguinosa, rispetto alla lettera del testo scespiriano, de Il mercante di Venezia – irretito proprio dalle grazie della figlia di Lionheart, complice del padre. Solomon Psaltery (Jack Hawkins) sarà vittima della propria gelosia – finendo con l’uccidere l’amata moglie, proprio come Otello, istigato da Lionheart/Iago – in un curioso gioco, ancora una volta legato al cognome, che rinvia al “salterio”, un antico strumento a corda, che basta pizzicare, affinché adempia al proprio compito. Col ghiottone Meredith Merridew (Robert Morley) – costretto a divorare i suoi adorati barboncini, in una macabra e spassosa riedizione del “fiero pasto” della regina Tamora nel Tito Andronico – forse, il gioco è diverso e un po’ più complicato, in quanto il cognome del personaggio corrisponde a quello del detective letterario creato (e molto amato) dal personaggio di Lord Andrew Wyke, interpretato da Laurence Olivier nell’ultimo film di Mankiewicz, Gli insospettabili (1972). Forse, quindi, uno sberleffo a un’icona assai diversa da Price, cioè il simbolo del grande teatro inglese e, non di rado, del cinema di serie A. (4)
4 ) Non si dimentichi, a tal proposito, come Price, invece, fosse stato il protagonista di uno dei primi film di Mankiewicz, Il castello di Dragonwick (1946), prima di passare il guado e approdare, di lì a qualche anno, sulla sponda dei B Movies, senza più riuscire, di fatto, a toccare nuovamente la sponda opposta.
In realtà, tutto il film è un gigantesco campo da gioco dove l’estro del regista, quello degli ideatori del soggetto e della sceneggiatura e soprattutto quello di Price hanno libero sfogo di flirtare con Shakespeare, nonché di eludere, così come di moltiplicare indefinitamente i mutevoli riflessi della mise en abîme fra teatro e cinema, fra finzione e realtà, fra recitazione e immedesimazione dell’attore protagonista, grazie alle sembianze, continuamente identiche e cangianti, del viso e del corpo di Price, mai così a suo agio nel cambiare pelle e abito, nell’uscire e rientrare nei panni di personaggi tragici letteralmente sdrammatizzati grazie al suo acume recitativo, pur mantenendo tutto il peso del loro destino fatale.
L’attore americano si dimostra a proprio agio, peraltro, anche nei panni più prosaici, ma altrettanto riusciti, di un bobby, di un parrucchiere gay, di uno chef francese, interpretazioni queste, così come quelle più consone all’antico repertorio del suo personaggio, che hanno il pregio di ingannare sempre la polizia, nonché i suoi detrattori, moltiplicandone, di volta in volta, la sospensione d’incredulità.
Peraltro, alla riuscita dell’insieme contribuiscono in modo cospicuo anche due gruppi diversi di personaggi, oltre alla splendida presenza di Diana Rigg: i critici, da un lato, e gli homeless, presso cui il protagonista ha trovato rifugio, dall’altro. Per i primi andranno fatte alcune ulteriori precisazioni, per cui se ne riparlerà fra breve, mentre i secondi, oltre ad averlo salvato dalle acque del Tamigi, lo hanno poi accolto nella propria sgangherata comunità. Sotto l’effetto degli intrugli alcolici più repellenti e improbabili, si ergono a poco consapevoli complici dei suoi delitti e costituiscono il suo colorato pubblico, animando il suo personalissimo teatro delle ombre, simulacri di uomini che non sono più tali, così come egli non è più un attore anche se fa di tutto per sentirsi ancora sulla scena, ancora vivo uccidendo. Ma è tutta un’illusione, che oltretutto si riverbera e moltiplica, proteiforme gioco di specchi, grazie al conflitto fra attore e personaggio, nonché poi fra personaggio e figure da lui interpretate.
Là dove nasce l’illusione, cioè nell’interpretazione di Price, è anche là dove essa si esaurirà definitivamente, giacché così come Lionheart gioca a fare l’attore pur non essendolo più, Price gioca a fare l’attore scespiriano pur non essendolo (quasi) mai stato, anche se, forse, la verità più grande e malinconica emerge proprio da questa inestricabile serie di finzioni.
Nel finale, oltre che all’ultimo commiato di Lionheart dalle scene e dalla vita, non a caso interpretando Re Lear assieme alla figlia morente, (5) si assiste anche all’estremo saluto di Price a un mondo, quello della rappresentazione alta, del teatro (così come del cinema) considerato di livello, che non gli appartiene, che lo respinge come un estraneo. Dopo il magnifico e prolungato duello fra l’attore americano e i comprimari, tutti rigorosamente britannici (e tutti estremamente in parte nel lasciare spazio all’estro di Price), che interpretano i critici, duello che fino a quel momento aveva visto Price trionfare, giunge il momento della fine dell’illusione e dell’imporsi dell’infelice verità.
Lionheart ha preso prigioniero il rappresentante più illustre della giuria che gli rifiutò il premio, Peregrine Devlin (Ian Hendry), e lo minaccia di accecarlo (6) se non cambierà il suo responso nei propri confronti. L'uomo, però, ostinatamente rifiuta, intanto che sta per giungere la polizia, che porrà fine alla vicenda (salvando anche Devlin stesso), mentre Lionheart si getterà fra le fiamme del suo vecchio e ultimo teatro.
5) Nell’epilogo, quando Lionheart decide di uscire di scena incendiando il “suo” teatro, i suoi unici compagni di sventura, gli homeless, percepiscono istintivamente che la conclusione è vicina e si ribellano al loro “maestro”, colpendo a morte la figlia Edwina: chi gli ha restituito la vita, ora, simbolicamente, gliela toglie.
6) Come accade al conte di Gloucester nel Re Lear, appunto.
Ecco, il rifiuto persistente di Devlin di ammettere le qualità di Lionheart costituisce la sanzione, anche simbolica, dell’impossibilità, per Price, sia di essere ritenuto meritevole di riconoscimento da parte di un critico snob, sia di poter essere considerato degno, in quanto americano, di recitare Shakespeare da parte di un inglese. L’unica qualità che Devlin/Hendry riconosce a Lionheart/Price è quella di saper “uscire di scena”, vale a dire di togliersi di mezzo; un malinconico epitaffio che decreta l’inafferrabilità di un mondo del quale sicuramente Price avrebbe meritato almeno un frammento.
Gian Giacomo Petrone
Sezione di riferimento: Into The Pit
Scheda tecnica
Titolo originale: Theatre of Blood
Anno: 1973
Durata: 104’
Regia: Douglas Hickox
Sceneggiatura: Anthony Greville-Bell
Fotografia: Wolfgang Suschitzky
Musiche: Michael J. Lewis
Montaggio: Malcolm Cooke
Interpreti principali: Vincent Price, Diana Rigg, Ian Hendry, Harry Andrews, Coral Browne, Robert Morley
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