ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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FAI BEI SOGNI - La forma dell'assenza

15/11/2016

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​If it be your will
That I speak no more
And my voice be still
As it was before
I will speak no more
(If It Be Your Will by Leonard Cohen)

Com’è difficile lasciarli andare, abbandonarsi al dolore della perdita. Come si può lasciare andare una parte di noi? Sarebbe come separarsi da un arto, da un organo senza il quale non si può vivere. Il dolore è talmente forte e radicato che esplode dentro e, a volte, ossimoricamente, più la lacerazione è profonda e meno lascia i suoi segni sulla superficie; così ci si affeziona anche alla sofferenza, perché colma il senso di vuoto, perché materializza la mancanza. Quel dolore lacerante diventa quotidiano e non si è in grado di separarsene; non si può, è funzionale alla vita, aiuta ad andare avanti; è una corazza, è quella spina ben conficcata nella carne sanguinante che fa sentire vivi e rende sempre presente il ricordo. L’amato rimane con noi grazie al dolore che la sua perdita procura, e non si può dimenticare. 
L’angoscia assume una consistenza fantasmica, una necessaria presenza priva di corpo, ma il desiderio, la passione, il bisogno di non sentirsi abbandonati le danno forma e materia. L’urgenza della vicinanza deraglia verso l’illusione pur di salvarsi dalla follia, dalla certezza, forse, di una debolezza che spinge sull’orlo del baratro, preferendo la morte alla vita, perché meno dolorosa, in una resa che non ammette perdono. 
Gli occhi di un bambino vedono oltre, gridano no alla morte, si cullano nell’inganno, spingendosi nel non visto e nel non visibile, proiettando il bisogno di amore nel dolore; lo chiudono in una bara vuota, lo plasmano nella figura vigile, severa e apotropaica di un personaggio televisivo, il fantasma Belfagor.
 
Come over to the window my little darling,
I’d like to try to read your palm.
I used to think I was some kind of Gypsy boy
before I let you take me home.
Now so long, Marianne, it’s time that we began
to laugh and cry and cry and laugh about it all again.
(So long, Marianne - Leonard Cohen)

Una donna velata di nero, il volto nascosto da una maschera che ne cela la reale identità, una presenza a metà strada tra la vita e la morte, un fantasma che risiede in una zona di non vita, che veglia sul piccolo Massimo. La forma che assume il dolore di un bambino risiede nel quotidiano irreale filtrato dal tubo catodico che alimenta gli incubi, le paure ma allo stesso tempo i desideri, il bisogno di essere amato da quella figura materna che lo ha abbandonato. A volte non si vede, altre volte si sceglie di non voler vedere. Gli indizi ci sono, la realtà è lampante, ma lo sguardo decide di perdersi volontariamente in uno smarrimento terapeutico. Chiudere gli occhi e rifugiarsi in una tenera bugia, mentire a se stessi per proteggersi dalla vita; una mistificazione illusoria perché il dolore, pur rimanendo presente, non ci trovi poi così facilmente, giocando a nascondino tra le emozioni, tra le zone d’ombre.
Ogni immagine è virtuale, sospesa tra il reale e la sua astrazione. La realtà viaggia su due binari che scorrono in parallelo, l’uno sull’altro. A volte i piani collimano, altre volte si estraniano l’uno dall’altro. Massimo è teso, sempre rivolto in un angolo tra due muri, con i palmi delle mani rivolte davanti a lui, per difendersi, per non essere toccato. Emozioni, sentimenti e paura sono tenuti distanti. Chiuso in un guscio inscalfibile, è granitico nei confronti della vita, vive di “se” nella sospensione di un tempo che non ammette vie d’uscita, si rivolge alla fede solo come soluzione al suo dolore, nella vana speranza che gli renda indietro ciò che gli è stato tolto senza spiegazione.
Un ultimo bacio è un bacio negato, privo di ricordo, non vissuto, perché il sonno rapisce la mente e il corpo stanco, il calore e l’affetto materno si perdono in una notte d’inverno, mentre la neve scende lenta, avvolgendo ogni cosa nel suo silenzioso manto soporifero, ovattando il fragore della perdita, nascondendo il dolore della morte. 
La gioiosa follia di una mamma bambina, che ritaglia le foto delle stelle del momento, custodendo i sogni di carta in un album dalle pagine scure, ora balena come una scintilla negli occhi velati dalle lacrime del male di vivere, ora si accende rumorosa, scatenandosi in un twist con il suo bambino, o cantando le canzoni di Modugno; un canto disperato, forse una richiesta d’aiuto rivolta proprio al suo piccolo, ignaro di tutta quella sofferenza, ma innamorato della sua mamma. 
Uno sguardo perso nel finestrino di un bus, smarrito tra i deliri di pezzi alla deriva che difficilmente ricompongono un animo così fragile, in un precario equilibrio fanciullesco; parafrasando Carmelo Bene in Nostra signora dei Turchi, “lei stava in equilibrio, come un filo del ventre premuto al davanzale, i piedi in aria, mentre lui le cercava il palazzo moresco tra i capelli, spettinando le cupole e le arcate dipinte appena dalla luna fresca, quando i rossi grattati parevano lentiggini sulla pelle più bianca delle cupole, all'illusione”. 
​
Nell’arco di trent’anni, la storia scorre in parallelo alla crescita di Massimo; le immagini filtrate dalla tv regalano uno spaccato degli ultimi anni dell’Italia delle canzonette della Carrà, fino a Mani pulite, con Di Pietro sullo sfondo e l’attacco per analogia con la figura di Giovanni Athos, che tanto ricorda il Raoul Gardini di quegli anni. 
Da bambino dissidente e rancoroso, Massimo diventa uomo, subisce la vita, quasi inerme, in maniera remissiva. La guerra a Sarajevo con le sue nefandezze e le scelleratezze del genere umano che si miscelano alle tante atrocità; liberarsi dei ricordi in quella casa in cui è cresciuto insieme al suo dolore diventa un’esigenza, buia, piena di ombre e dall’atmosfera claustrofobica, vicina, per alcuni aspetti, alla casa de I pugni in tasca. Massimo vuole voltare pagina, tagliare con gli austeri busti di Napoleone, con Juliette Greco e Belfagor, allontanarsi per sempre da quelle pareti che trasudano sofferenza, impregnati di lacrime. Nessuna donna potrà mai sostituire la figura di sua madre, come in quel Cat People le cui immagini scorrono sullo schermo quando da piccolo cerca il profumo della mamma tra le braccia di un’estranea; nessuna donna può sostituirsi ad un’altra, ogni donna è unica, nelle sue fragilità, nella sua capacità di dare amore e anche nell’impossibilità di tollerare il dolore quotidiano di vivere. 
È forse la presa di coscienza del suicidio della madre che libera Massimo dal fardello di quella sofferenza, o almeno da una parte di essa, perché “è più coraggioso crescere un bambino che arrendersi alla morte”; la resa da parte dell’oggetto della sua passione è per lui inconcepibile, e in qualche modo gli infonderà il coraggio di (ri)prendere a vivere. 
​
In Fai bei sogni, dal libro di Massimo Gramellini, ci sono tanti temi cari a Marco Bellocchio, dalla figura materna, alla famiglia, alla morte che aleggia lungo tutto lo scorrere del film, presenza ingombrante ma voluta e desiderata. In quest’ultima opera di Bellocchio, presentata a Cannes 69 alla Quinzaine des Réalisateurs, c’è soprattutto la poetica di un Autore che, se nel precedente Sangue del mio sangue si affidava ad  una narrazione anarcoide, conferendo all’opera una libertà visionaria e surreale, qui si inspessisce di sentimenti laceranti, emozioni vere che arrivano come fendenti al cuore dello spettatore. Nonostante il tema trattato, Bellocchio non indulge in scontati sentimentalismi ed eccessi buonisti, ma tratteggia in maniera oggettiva ed eticamente neutrale le vicende e i suoi protagonisti. 
Una mise en scène deliziosamente retrò, grazie anche alla fotografia di Daniele Ciprì, saldamente legata a un logos che parla direttamente all’anima, una contorsione dei sensi che graffia il cuore, con dolore. 
C’è una strada che una madre e suo figlio dovrebbero percorrere insieme, vicini l’una all’altro, un tragitto che accompagna entrambi nella crescita, un percorso che seppur breve non deve essere turbato, perché il cordone ombelicale li rende un corpo unico, un mondo unico, un universo a parte. Così dovrebbe essere.

Mariangela Sansone

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica
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Titolo originale: Fai bei sogni
Anno: 2016
Regia: Marco Bellocchio
Sceneggiatura: Marco Bellocchio, Valia Santella, Edoardo Albinati
Interpreti principali: Valerio Mastandrea, Berenice Bejo, Roberto Herlitzka. Guido Caprino, Fabrizio Gifuni
Fotografia: Daniele Ciprì
Musiche: Carlo Crivelli
Durata: 137’
​Uscita italiana: 10 novembre 2016

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LA TEORIA SVEDESE DELL'AMORE - La solitudine dell'indipendenza

29/9/2016

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“Tutto andava bene, in Svezia. La gente viveva vite confortevoli... Standard di vita alti, progresso, pensiero moderno, fiducia nei nostri leader. Poi venne il momento di fare un altro passo avanti e di liberarci da strutture familiari antiquate, che ancora condizionavano il nostro modo di stare insieme, rendendoci dipendenti l'uno dall'altro.”  Così recita la voce fuori campo di Erik Gandini (Videocracy), regista italiano naturalizzato svedese, nei primi minuti del suo provocatorio documentario La teoria svedese dell'amore, uscito nei cinema grazie a Lab 80.
​Il passo in avanti di cui si parla fu pianificato nel 1972, quando un gruppo di politici visionari stilò il manifesto programmatico “La famiglia del futuro”, destinato a cambiare, e a migliorare, per sempre la società svedese. L'obiettivo prefissato consisteva nella realizzazione dell'indipendenza di ogni cittadino, “liberando” le mogli dai mariti, gli anziani dai figli, gli adolescenti dai genitori. Ogni individuo doveva evolversi in maniera autonoma e non essere considerato l'appendice di qualcun altro. 
Non è dunque un caso che Scene da un matrimonio di Ingmar Bergman, sceneggiato televisivo prima e adattamento cinematografico poi, sia datato 1973. L'opera di Bergman  evidenziava appunto i limiti del rapporto di coppia all’interno di una struttura, quella  coniugale, ormai obsoleta. Ma già il teatro nordico a cavallo tra Ottocento e Novecento sfornava figure femminili che rinnegavano il ruolo di moglie e madre, rivendicando il diritto all'indipendenza dalla famiglia borghese. Come non ricordare Nora Helmer in Casa di bambola (1879) di Ibsen? O Gertrud (1906) di Hjalmar Söderberg (da cui  Carl Theodor Dreyer ha tratto l'omonimo film)?

Sorge però spontanea la domanda di quale sia stato il reale impatto delle politiche adottate negli anni '70 nella società scandinava. In Svezia, nel 2015, quasi la metà dei nuclei familiari è composta di un unico elemento (la media più alta al mondo). Una persona su quatto muore senza l'assistenza di amici e parenti, molte donne single preferiscono rivolgersi alla banca del seme per far nascere e crescere un figlio senza il bisogno di un partner. Ma gli Svedesi sono felici? A quanto pare la risposta è negativa, perché l'autonomia e la sicurezza garantite dallo Stato non bastano a superare la profonda tristezza generata dall'isolamento e dalla solitudine. 
Quest’ultima considerazione ha spinto Erik Gandini a girare un documentario che metta in discussione le basi del modello sociale più individualista al mondo, insinuando dubbi sulla sua validità. L’insoddisfazione degli Svedesi sembra essere in effetti il prodotto della perdita del senso della comunità: ecco perché prendono forma gruppi di cittadini che si dedicano alla ricerca di persone scomparse o di giovani che si radunano nei boschi per riscoprire lo spirito di aggregazione. Oppure c'è chi addirittura compie una scelta estrema lasciando il proprio Paese per svolgere la professione di medico in Africa. 
Certo, manca un’analisi critica dell’altra faccia della medaglia, cioè delle società in cui persistono pesanti condizionamenti familiari, culturali e religiosi, che limitano l'esistenza di uomini e donne. Tuttavia Gandini ha dichiarato che il suo lavoro vuole rappresentare il punto di partenza per un dibatto “che potrebbe portare a qualcosa di buono”. 
Un ulteriore spunto di riflessione, che avvalla la tesi del regista, lo regala il sociologo polacco Zygmunt Bauman, alle cui lucide considerazioni sono affidati gli ultimi minuti del film: “Non è vero che la felicità significhi una vita priva di problemi. Una vita felice si ottiene fronteggiando le difficoltà, risolvendole. Accetti una sfida, fai del tuo meglio e ti impegni a vincerla. Si sperimenta la felicità nel momento in cui ci si rende conto di aver tenuto testa alle avversità e al destino. Ora, invece, la gioia di aver superato un problema, affrontandolo a pieno petto, è perduta. Siamo privati di essa quando il comfort aumenta”. Poi prosegue: “Abbiamo tutto. Abbiamo quello che ci serve per evitare la fame, la miseria, la povertà. Una cosa che non abbiamo, e che non ci può essere fornita dallo Stato, dai politici che stanno in alto, è lo stare insieme agli altri. Stare con altre persone, far parte di un gruppo: di questo ti devi occupare tu. Le persone che sono abituate a essere indipendenti stanno perdendo la capacità di accettare la convivenza con altra gente, perché sono già state private della capacità di socializzare. Ci vogliono molti sforzi, molta attenzione. Bisogna negoziare, rinegoziare, ridiscutere, concordare, ricreare. L'indipendenza ci priva delle capacità di fare tutto questo”. E conclude: “Più siamo indipendenti, meno siamo in grado di fermare la nostra indipendenza e di sostituirla con una piacevolissima interdipendenza”.

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica 
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Titolo originale: The Swedish Theory of Love
Anno: 2015
Regia: Erik Gandini
Sceneggiatura: Erik Gandini
Fotografia: Vania Tegamelli, Carl Nilsson, Fredrik Wenzel, Lukas Eisenhauer, Kristian Bengtsson, Daniel Takacs.
Montaggio: Johan Söderberg
Musica: Johan Söderberg
Durata: 76'/90'
​Uscita in Italia: 22 settembre 2016

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THE NEON DEMON - You want a piece of me?

16/6/2016

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Non c’è più nessuno di fronte, nessuna destinazione finale, una qualunque va bene, come qualunque interattore. Il sistema funziona così all’infinito e la sua sola possibilità è quella di una altrettanto infinita involuzione. (1)

“La bellezza non è tutto… è l’unica cosa”

Si apre il sipario e l’immagine parla del vuoto, di tempi sospesi in un altrove non definito e non definibile, spazi che portano in non-luoghi, in cui la realtà è patinata e glaciale. Mentre nell’angeriano Puce Moment, dagli strass del vestito di Yvonne Marquis, emergeva voluttuosa una bocca carnosa e scarlatta, nell’ultimo film di Refn gli scintillii introducono alla sublimazione dell’occhio, affascinato, lusingato, corteggiato e infine fagocitato.
Nicolas Winding Refn con The Neon Demon, presentato in anteprima alla 69ª edizione del Festival di Cannes, torna nelle sale a distanza di tre anni da Only God Forgives, film che destò notevoli contestazioni, dividendo pubblico e critica.
​
Jesse (Elle Fanning), sedicenne timida e innocente, arriva a Los Angeles per intraprendere il lavoro di modella e si trova subito a confrontarsi con una realtà ostile che non risparmia nessuno. La ragazza si muove a tentoni in una società in cui non puoi permetterti di essere debole, in cui per sopravvivere si deve sacrificare la purezza, si deve necessariamente scegliere tra l’essere la vittima o il carnefice. Jesse appare l’elemento dissonante in una ritmica sociale che è quella del frastuono, dell’apparire a tutti i costi, in cui la vanità non scende a compromessi ma esige di essere sublimata dagli sguardi altrui, senza distinzioni. 
La fisionomia di Jesse lascia pensare al cerbiatto capitato malauguratamente nella selva selvaggia e pronto ad essere sacrificato nelle fauci del lupo cattivo. I suoi occhi grandi, velati di tristezza, si sgranano attoniti di fronte ai comportamenti delle sue colleghe, ed esprimono curiosità e un senso di fascinazione per questa nuova vita. Sono tanti i lupi cattivi in cui si imbatte la ragazza, a cominciare dal proprietario del motel dove alloggia, Hank (Keanu Reeves), viscido e attratto dalle lolite, un lupo feroce che bussa insistentemente alla porta della giovane modella durante la notte, per poi sbranare la sua vicina di stanza. Come la casa dei tre porcellini, la dimora che ospita Jesse è un rifugio poco sicuro, in cui è impossibile nascondersi e sfuggire alla belva.
Ognuno vuole un pezzo di quella bellezza che non passa inosservata; nel giro di poche ore si parla solo della nuova ragazza arrivata a Los Angeles. Fin dal primo appuntamento in un’agenzia di modelle Jesse appare predestinata al successo e senza alcuno sforzo travolge le sue concorrenti, attirando ammirazione e invidia. La giovane ha qualcosa di unico che la distingue dalle altre modelle, una bellezza pericolosa, come le diceva la madre quando lei era ancora bambina, pericolosa forse perché mista all’innocenza e alla purezza di uno spirito quasi fanciullesco, ben lontano dalle dinamiche dello star-system; un'attraente ragazza incontaminata dal germe della vanità, dall’ossessione per la perfezione. Tra bellezze artificiali, passate attraverso le mani di un chirurgo, in una città in cui divorarsi rappresenta il vivere quotidiano, spicca il candore di una Bambi dagli occhi dolci e innocenti, causa dell’invidia delle streghe/colleghe che cercano l’elisir di lunga vita e le chiedono: “Che cosa si prova a entrare in una stanza, a essere notate,  come se fosse inverno mentre il sole sei tu?”. 
Nel corso del film scopriamo però che Jesse non è un cerbiatto impaurito; la sua personalità si incastra perfettamente in quella cornice di personaggi negativi in cui la malvagità è un aspetto fondamentale della fusis umana. Dalla consapevolezza di non essere in grado di non fare nulla e di non aver doti particolari, se non quella di “essere carina”, emerge la competizione e la voglia di rivalsa, che si palesano trasformandola anche fisicamente. La bestia che si insinua nella sua camera altro non è che quell’aspetto del suo spirito che rimane più recondito agli occhi di chi la osserva. È l’immagine nello specchio, riflessa e duplicata, che accoglie amandola in un bacio saffico. Jesse è il suo stesso demone. Gli specchi disseminati lungo tutto lo svolgimento filmico riflettono l’immagine bidimensionale dell’essere umano; le modelle si incontrano per la prima volta in un bagno e conversano di fronte a uno specchio, mediatore e filtro, schermo in cui lo sguardo si sofferma sull’apparenza; è un dialogo mediat(ic)o tra simulacri baudrillardiani, in cui si osserva “la generazione di modelli di un reale senza origine o realtà: un iperreale”. (2)  

1) Jean Boudrillard, Il patto di lucidità o l’intelligenza del male, in J. B., La scomparsa della realtà, trad. it. e note di A. Zuliani, Lupetti, Bologna 2009, p. 89
2) Jean Baudrillard, Simulacres et simulation

Le immagini scorrono lente, si sovrappongono, in lotta tra loro, creando nuovi spazi tra una sovrapposizione e l’altra, in cui l’uno non esiste mai; tra gli interspazi vivono molteplici forme e si annidano fantasmi. Sempre in quegli interspazi lo sguardo è libero dai limiti dell’immagine, va oltre, un oltre che supera i limiti della prigione visiva, si confronta con la sua molteplice natura riflessa e nel suo restituirsi si muta, si trasforma, partorisce nuova carne; l’involucro si vuota e Jesse lascia affiorare la sua perfidia. La bellezza è il suo potere, la ragazza diviene parte di quel mondo in cui brilla come stella unica e rara. “Non sono io che voglio essere come loro, sono loro che vogliono assomigliare a me”. 
La messa in scena refniana in The Neon Demon subisce l’eco del suo film precedente, Only God Forgives, minimalista, essenziale e stilizzato, avvolgendo l’opera di quella patina gelida a cui il regista ha abituato il suo pubblico. I cromatismi vermigli accompagnano il climax metamorfico della modella, lo schermo è inondato da un sanguinolento rosso quando da bambina innocente si ritrova donna, quasi un’iniziazione sessuale sulla passerella, in un viaggio lisergico tra simboli esoterici ed alchemici, tanto cari a Jodorowsky. Questa sua ultima opera ha molto in comune anche con Fear-X, l’esordio americano di N.W.R.: diversi elementi segnano la cifra stilistica del regista, i tempi dilatati e una lentezza che contribuiscono ad alimentare la tensione, i dialoghi scarni e quasi superflui che lasciano spazio all’estetizzazione estrema dell’immagine, l’importanza che assume il tappeto sonoro che accompagna le immagini; se però in Fear-X il silenzio accompagnava la suspense, qui, come anche in Drive, il regista si avvale delle potenti musiche di Cliff Martinez per scandire i ritmi della narrazione.
Refn, in The Neon Demon, impreziosisce la sua opera con una maniacale cura estetica, adottando un registro visivo che è ipnosi per gli occhi. Sovente la luce inonda la scena, una luce fredda, abbacinante, che nasconde qualcosa di sinistro, e come nei quadri di Edward Hopper in cui le solitudini umane si consumano alla luce delle sole, così le luci dei riflettori dello star-system abbagliano le aspiranti starlette come falene.
Stilizzazioni estreme creano i non-luoghi in cui Jesse e le sue colleghe si muovono, nel bianco/vuoto di uno shooting fotografico in cui inizia la trasformazione della modella che assume la consapevolezza del suo potere/bellezza, o in una discoteca arredata solo da luci stroboscopiche e da sospensioni bondage in stile Araki Nobuyoshi.
Le inquadrature bidimensionali, perlopiù frontali, schiacciano le figure sulla superficie, privandole di profondità; una metafora, forse, della società attuale in cui tutto è vissuto velocemente, di una vita che viaggia sui social e nella rete, si ferma alle immagini e non va oltre la superficie. Il regista tratteggia attraverso stratificazioni visive una consistenza a-materica della realtà, arida, svuotata da emozioni e palpiti profondi, ma che arriva come una lama, immediata, affascinando lo sguardo e disorientandolo. È l’elogio della vacuità, del vuoto che si cela sotto il sipario sgargiante del cosmo, della vita.
​Nelle scene finali, in un set che riecheggia Helmut Newton, la bidimensionalità è immersa nella fulgida luce del giorno, tra architetture lineari, e le immagini si offrono all’occhio gelide, quasi mortifere. La morte è un elemento costante in questo lavoro, scivola dalle prime scene sino alla chiusura del film, passando attraverso la camera settoria, e nonostante gli espliciti riferimenti sessuali, la sensualità non si fa mai morbosa, ma rimane legata a immagini lugubri; non a caso l’unico rapporto sessuale si consuma sul tavolo di un obitorio, in cui eros e thanatos si riuniscono, scambiandosi fluidi corporali in un orgasmo funebre. 
Non manca in quest’ultimo lavoro una spiccata vena horror ma, come spesso capita, la matrice orrorifica nei film di Refn corre in parallelo alla narrazione, è sottile, mai gridata e ostentata. Il regista non si avvale né del fantastico, né dell’onirico, ma fa affidamento, il più delle volte, alla naturale componente sadica e violenta dell’uomo. The Neon Demon è un film malato: all’inizio scivola lentamente tra immagini fredde e vuote, poi si addensa sino a divenire organico, si infiltra nei corpi deragliando verso la malattia e se del vampirismo ha la ricerca estrema dell’eterna giovinezza, in realtà questa è un’opera necrofila e cannibale, che si ciba della bellezza, ossessione di un mondo che non ha tempo e voglia di andare oltre lo sguardo, e fagocita le visioni come il bulbo oculare divorato con bramosia di possesso da Sarah (Abbey Lee).

Mariangela Sansone

Sezioni di riferimento: Film al cinema, Cannes

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​Scheda tecnica

​Titolo originale: The Neon Demon
Anno: 2016
Regia: Nicolas Winding Refn
Sceneggiatura: Nicolas Winding Refn, Mary Laws, Polly Stenham
Fotografia: Natasha Braier
Musiche: Cliff Martinez
Durata: 117’
Uscita in Italia: 8 giugno 2016 
Interpreti principali: Elle Fanning, Christina Hendricks, Keanu Reeves, Jena Malone.

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IL CIELO PUÒ ATTENDERE - L’amaro sorriso di Gene

25/5/2016

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​​L’ho amata in Femmina Folle, la ritengo la sua prova recitativa più maestosa. L’ho conosciuta con il Castello di Dragonwyck quando ero bambina e l’ho cercata fra i film, come un esploratore discreto che sbircia attraverso le fronde degli alberi per catturare i movimenti di un magnifico uccellino.
Gene Tierney è un’attrice “per pochi”, suo malgrado. Con i chiarissimi occhi a mandorla sempre pronti a scivolare verso l’inverno, gli zigomi alti e la figura esile appare sullo schermo come una dea silenziosa. Non fa rumore. Quando parlo di attrici del passato basta citare alcuni nomi per vedere entusiasmo sul viso del mio interlocutore: Bette Davis, Rita Hayworth, Katharine Hepburn, le indimenticabili. E poi faccio un goffo tentativo, dico “Mi piace molto anche Gene Tierney” e dall’altra parte vedo spesso uno scomodo punto interrogativo.

​Chi è Gene Tierney?

Il cielo può attendere di Ernst Lubitsch è il primo lavoro in Technicolor del regista, uno splendido abuso di colore che di colpo inonda le gonne e gli occhi, le tende e le camere da letto. Un'opera sofisticata che sfugge un po’ alle sembianze di commedia romantica esplosiva alle quali Lubitsch ci ha educati, recuperata da Lab 80 nell’intento di raccontare la Tierney in quattro titoli restaurati, da oggi disponibili in sala: oltre a Heaven Can Wait anche Il fantasma e la signora Muir di Mankiewicz, Vertigine di Preminger e Femmina folle di Sthal. Una bellissima iniziativa, che rappresenta il rilancio della distribuzione dei classici per Lab 80 film; una rassegna deliziosa come il sorriso ultraterreno della grande attrice che in pochi ricordano; una missione coraggiosa che porta ai nostri occhi questo cielo in attesa, con i suoi colori fiammeggianti.
​
Il racconto ha inizio niente meno che all’inferno, elegante palazzo dove il “direttore” riceve uno dei nuovi “candidati all’ingresso”. Si tratta di Henry Van Cleve (un irresistibile Don Ameche), settantenne dalle battute di spirito taglienti, con una vita da impenitente Casanova sulle spalle. Quando il diavolo gli chiede perché mai si sia presentato al suo cospetto, Van Cleve si rimbocca le maniche e ci guida attraverso un lungo flashback alla ricerca di quel “motivo valido per meritarsi l’inferno”. 
Coccolati dall’atmosfera surreale e spiritosa, seguiamo la narrazione delle gesta di Van Cleve sin dalla culla: potremmo quasi definirlo un atipico e allegro barone di Münchhausen, che giunto alla fine dei suoi giorni sente il bisogno di alleggerire la coscienza di certi antichi pesi. Bambino terribile, giovane scapestrato, giocatore d’azzardo, pecora nera della famiglia (dove si distingue un impagabile Charles Coburn nel ruolo del nonno) e celebre Dongiovanni, l’unica occasione che gli si presenta per rimettere la testa a posto è l’incontro con Martha Strable. 
Quest’ultima è la promessa sposa del cugino, ma per Van Cleve non sarà arduo spingerla fra le proprie braccia. A impersonare la timida sposina arrivata dal Kansas c’è proprio la Tierney e su di lei ci fermiamo un istante. Per sospirare, per catturare con gli occhi i preziosi colori del suo piumaggio. Nella scena del ricevimento prima delle nozze la Tierney indossa un vaporoso abito celeste che oggi abbiamo la possibilità di vedere nitido in ogni dettaglio grazie al restauro. L’attrice ingaggia una gara di freschezza con il fiore rosa tenue che tiene fra i capelli: ogni primo piano fa arrestare i battiti per la bellezza pura e splendente di quel viso, la luminosità dei capelli sapientemente acconciati, i bagliori glaciali degli occhi dal taglio quasi orientale. 
Quel fiore accomodato fra le ciocche non fa che esaltare l’incredibile fascino del viso di Martha. Uno starnuto della giovane sposina diviene l’occasione per restare sola con Van Cleve; ha inizio così quella che a tutti gli effetti ci sembrerà una storia d’amore, pur lasciando in noi una sottile, perenne amarezza. 
Questa commedia di schermaglie amorose e fughe passionali, di battute caustiche e siparietti gustosi, è un’accurata immersione in cui si scrutano fondali più vasti. La morte ha quasi un posto d’onore, nel film; la fiutiamo onnipresente nelle scene per quanto i colori e le risate vorrebbero convincerci del contrario. Fa tenerezza l’imperdonabile Van Cleve con le sue scappatelle, eppure è Martha la portatrice di un messaggio più profondo. Sta a questa Gene Tierney, alle prese con una delle sue più impegnative prove cinematografiche, riassumere l’amore e le sue tempeste, la rassegnazione e la pazienza. Non soltanto commedia, perciò, ma racconto intimo di un amore difficile.
Raccogliamo con cura questi frammenti della Diva Fragile che Lab 80 oggi ci regala. Perché non esiste una sola risposta alla domanda “Chi è Gene Tierney?”.
È stata un’attrice elegante, fresca come un fiore eppure perseguitata da sventure e periodi depressivi sfociati in terapie di elettroshock; è stata un sorriso con la notte sul fondo; è stata una voce troppo sottile ingrossata con il fumo di sigarette nella speranza di sembrare più fatale.
Per chi l’ha amata come me è stata la misteriosa Laura di Preminger, la perfida e disumana Ellen di Stahl, la dolcissima e agguerrita Lucy di Mankiewicz, presenza delicata in una casa dei fantasmi. E la Martha Strable che ama irragionevolmente un Henry Van Cleve, la donna che attende in quel cielo che può attendere e che finalmente torna al cinema.

Maria Silvia Avanzato

Sezioni di riferimento: Film al cinema, Vintage Collection


Scheda tecnica

Titolo originale: Heaven Can Wait
Anno: 1943
Durata: 112'
Regia: Ernst Lubitsch
Soggetto: dal lavoro teatrale Birthday di Leslie Bush-Fekete
Sceneggiatura: Samson Raphaelson
Fotografia: Edward Cronjager
Musiche: Alfred Newman
Attori: Gene Tierney, Don Ameche, Charles Coburn, Louis Calhern, Spring Byington

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LOUDER THAN BOMBS – Segreti di famiglia

25/5/2016

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Per nulla intimidita dalla trasferta statunitense e dalla possibilità di lavorare con un cast internazionale, la “splendida” coppia Trier/Vogt realizza un’opera filmica dall’incedere plumbeo e sognante, forse lontana dal frastuono suggerito dal titolo. Louder Than Bombs (Segreti di famiglia per la distribuzione italiana) è infatti un omaggio all’album compilation dei The Smiths uscito negli USA in un un periodo in cui il gruppo inglese doveva e voleva imporsi in un nuovo mercato (citazione portafortuna, quindi).
Joachim Trier, esponente di spicco del cinema norvegese che già avevamo affrontato grazie al suo splendido Oslo, 31 agosto, riesce a sviluppare la propria poetica senza perdere ciò che lo caratterizza e le persone che attorno a lui hanno contribuito a dargli forma: Eskil Vogt (regista di Blind) alla sceneggiatura, Ola Fløttum alle musiche, Olivier Bugge Coutté al montaggio e Jakob Ihre alla fotografia formano una squadra che funziona e che sa condividere un obiettivo comune.
Nel caso specifico di Louder Than Bombs Trier matura ulteriormente la propria ideologia – elemento che, come vedremo, procede pari passo ad una felice evoluzione della prassi filmica – riuscendo ad affrontare, o ritornare, alla problematica insita nell’istituzione famiglia. Se il cuore di Reprise era la lotta generazionale che i due protagonisti dovevano affrontare per la propria affermazione, quello di Oslo, 31 agosto consisteva nella dissipazione e nello spreco di cui Philip, certamente depresso, era protagonista. Ma l’assenza dell’istituzione famiglia si faceva greve durante entrambi i film del regista norvegese, soprattutto considerato il finale di Oslo, in cui Philip, interpretato dal bravissimo Daniel Andersen Lie, ritornava alla casa di famiglia, tristemente vuota, con lo scopo di porre fine alla propria vita nel luogo in cui tutto aveva avuto inizio.
Louder Than Bombs narra la vicenda di un padre (Gabriel Byrne) e dei due figli Jonah (Jesse Eisenberg) e Conrad (Devin Druid) che, a tre anni dalla morte della moglie e madre Isabelle Reed (Isabelle Huppert), sono costretti a rimettere in discussione la sofferenza legata alla sua dipartita. Complice di questo processo sarà l’inaugurazione di una mostra e la pubblicazione di un articolo sulla carriera di Isabelle come fotografa di guerra. Il ritorno a casa di Jonah permetterà a Gene di riflettere sul proprio rapporto con i figli e con la perdita della moglie, ma tutti e tre faticheranno disperatamente a conciliare i sentimenti che, allo stesso tempo, li separano e li uniscono alla donna di cui hanno ricordi così differenti.
Presentato alla scorsa edizione del festival di Cannes senza troppi clamori e ricevuto in maniera contrastante dalla critica internazionale, l’ultima fatica di Joachim Trier è un'opera di difficile assimilazione, che allo stesso tempo si accosta e si distanzia dalle opere precedenti. La tipica giustapposizione delle sequenze – affine alla scrittura e alla riduzione in capitoli, sicuramente dovuta alla sceneggiatura di Vogt –, l’indugiare sui primi piani, lunghi ed anzi lunghissimi e i buchi testuali sono tutti presenti; ciò che distanzia Louder Than Bombs dalle opere precedenti è invece la perfetta unione tra necessità poetiche e possibilità filmiche. 
Il dramma familiare e la divergenza di giudizio (e ricordo) riguardo la morte di Isabelle sono il veicolo perfetto per mettere in scena un determinato e riuscito work in progress tutto incentrato sulla lenta e, appunto, progressiva costruzione e delineazione di un giudizio condiviso ed intelligibile su Isabelle.
Gene, ex attore, ha rinunciato alla propria carriera di attore per il bene del nucleo familiare e per permettere alla moglie di continuare con la propria professione; Jonah, il primogenito, è un brillante studioso che dopo essersi laureato a pieni voti è in procinto di iniziare la carriera di insegnamento; Conrad è il figlio introverso, colui che si nasconde nei giochi online, tra le cuffie che lo isolano dal mondo e nella scrittura di tutto ciò che gli accade. Tutti e tre hanno quindi percepito ed esperito Isabelle e la sua morte in maniera diversa. Trier prova a scandagliare quelle differenze tramite i frequentissimi flashback che si alternano al reale e al quotidiano creando un piano “altro” in bilico tra veglia e sogno, tra quotidiano e ricordo. 
Il cineasta danese, ma norvegese d’adozione, compie un gesto forte e deciso verso la ricerca di un’unità metalinguistica che passa attraverso le fratture del testo e la frantumazione dello sguardo. Trier, mettendo in dubbio il proprio, filma il lavorio delle memorie e dei sentimenti per trovare una prospettiva comune, operazione che implica la partecipazione non solo dello spettatore ma anche degli attori, del regista e dello sceneggiatore. 
Louder Than Bombs rappresenta una progressione nella carriera di Joachim Trier, e non certo un passo falso come si potrebbe ipotizzare dalla freddezza con cui è stato accolto alla sua presentazione a Cannes. Accettando le implicazioni che l’atto del filmare e del work in progress (come domande aperte sul testo) hanno sulla poetica autoriale e viceversa, Trier si afferma come autore coraggioso che non si vuole ripetere e che realizza – anche all’interno di un progetto internazionale che domanda necessari ritorni economici – un’opera a tratti intangibile, i cui “profondi” primi piani e i lunghi silenzi sono realmente più rumorosi di una bomba che esplode.

Emanuel Carlo Micali

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Louder Than Bombs
Anno: 2015
Regia: Joachim Trier
Sceneggiatura: Eskil Vogt
Fotografia: Jakob Ihre
Musica: Ola Fløttum
Durata: 109’
Attori principali: Gabriel Byrne, Jesse Eisenberg, Isabelle Huppert
Uscita italiana: 23 giugno 2016

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LA PAZZA GIOIA - In cerca d'amore e libertà

19/5/2016

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A Villa Biondi, comunità terapeutica immersa nel verde per donne con disturbi mentali, fa il suo ingresso Donatella. La nuova arrivata, una giovane donna fragile e silenziosa a cui anni addietro è stato tolto l’affidamento del figlio, attira subito l’attenzione di Beatrice, sedicente contessa dalla parlantina inarrestabile, particolarmente insofferente alle regole della piccola comunità. Tra le due, nonostante siano lontanissime per indole ed estrazione sociale, si sviluppa un legame che si tramuterà in amicizia nel corso di una fuga strampalata e rocambolesca, alla disperata ricerca di una gioia davvero difficile da trovare nel mondo che le circonda. 
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Inizia in modo leggero e brioso La pazza gioia, il nuovo film di Paolo Virzì presentato in questi giorni a Cannes – alla Quinzaine des Réalisateurs – dove è stato accolto da applausi a scena aperta e da una sincera commozione. Nella prima parte si ride a più riprese nell’assistere alla fuga on the road di Donatella e Beatrice, novelle Thelma e Louise in viaggio lungo le strade della Toscana alla ricerca di una felicità da tempo negata ad entrambe. 
La verve comica di Valeria Bruni Tedeschi, istrionica come non mai nei panni di Beatrice, emerge con una forza e un'irruenza davvero contagiose. Il suo personaggio, bizzarro, senza mezze misure e dotato di una loquacità esasperante, è un fiume in piena che travolge tutto e tutti. Sempre colorita nelle sue esternazioni e nei suoi sfoghi, Beatrice possiede una follia contagiosa e irrefrenabile. È lei la “matta vera”, come dice tra sé e sé Donatella, basita e sorpresa dalle mille trovate della compagna di fuga. 
Nella seconda parte la leggerezza e l’ironia si vanno attenuando e irrompe il passato, doloroso e travagliato, di Donatella, ragazza madre a cui è stato sottratto un figlio di pochi mesi dai servizi sociali, malinconica e troppo fragile per il mondo che la circonda. Sul lungomare di Viareggio, al crepuscolo, ha luogo una delle scene più belle e intense del cinema italiano degli ultimi anni. È Micaela Ramazzotti, nei panni di Donatella, a sorprenderci, incantare e commuovere fino alle lacrime – che da qui in avanti scenderanno copiose e abbondanti sino al termine della visione – col suo racconto in prima persona di anni difficili e crudeli, passati ai margini di un mondo che le ha tolto il suo unico scampolo di felicità. 
Donatella è una giovane donna come tante, non certo folle ma dall’indole triste e malinconica. Ha il cuore spezzato, è confusa, non ha speranze o progetti per il futuro, le resta un unico obiettivo e un solo desiderio: poter rivedere il suo bimbo che da qualche anno è stato affidato a una nuova famiglia. Il suo racconto, accompagnato da flashback lancinanti e dolorosissimi, spezza il cuore e toglie il fiato, costringendoci ad assistere al resto del film quasi in apnea. È qui che emerge con forza il grande umanesimo e la profonda sensibilità di un autore come Paolo Virzì, capace di regalarci l’ennesimo gioiello e di aggiungere un nuovo, importante, tassello ad una filmografia altrettanto importante e preziosa, che raramente ha conosciuto passi falsi. 
Scritto dal regista livornese con la complicità di Francesca Archibugi, La pazza gioia riesce ad alternare comicità e commozione e a emozionare con la storia di due solitudini che s’incontrano e che cercano di spronarsi e farsi forza a vicenda. Semplicemente splendide Micaela Ramazzotti e Valeria Bruni Tedeschi, ben dirette dall'autore, da sempre un maestro nel tirare fuori il meglio dai suoi interpreti. Sono le protagoniste assolute di un altro ritratto al femminile, in questo caso doppio, tratteggiato dal cineasta toscano, che dimostra di possedere una sensibilità di sguardo fuori dal comune e di essere uno dei pochi registi contemporanei di casa nostra  in grado di portare avanti, rielaborandola e aggiornandola, la lezione dei grandi autori della commedia all’italiana. Il suo cinema, sempre in bilico tra risate e lacrime, gioia e dolore, ironia e malinconia, ha saputo catturare i mutamenti della nostra società nel corso degli ultimi vent’anni. Uno sguardo sempre curioso, partecipe, empatico e rispettoso dei personaggi che porta in scena e attraverso i quali ci racconta il nostro paese. 
Si arriva ai titoli di coda appagati ma al contempo provati, felici e tristi insieme, con una sola certezza: d’ora in avanti sarà impossibile non iniziare a piangere sulle note di Senza Fine, l’indimenticabile canzone di Gino Paoli che ricorre più volte nel corso del film. 

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda Tecnica
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Titolo originale: La pazza gioia
Regia: Paolo Virzì
Sceneggiatura: Paolo Virzì e Francesca Archibugi
Fotografia: Vladan Radovic
Anno: 2016
Durata: 118’
Interpreti principali: Micaela Ramazzotti, Valeria Bruni Tedeschi, Valentina Carnelutti

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AL DI LÀ DELLE MONTAGNE - Passaggi di tempo

5/5/2016

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A scandire il placido ma turbolento scorrere transitorio del tempo – per Jia Zhang-Ke quanto mai impermutabile e circolare – Al di là delle montagne, ultima opera composita del cineasta cinese, è percorsa, da lembo a lembo, come fossero eccedenze di un tremore silente, dal leitmotiv dell’energia, e delle sue geologiche e/o artificiali manifestazioni: scoppi e zampilli che dal terreno si fanno fuochi d’artificio, bombe esplose tra le lastre ghiacciate, aerei a bassa quota la cui unica traversata è sullo schermo un moto calante, che li vede incendiarsi. Segni di un procedere esistenziale non estraneo a mutamenti.
Si schiuma ben evidente la dedizione amorosa per una patria scossa da inarrestabili passaggi epocali, in una visione storicista che la politica apparentemente non sfiora, ma che preferisce farsi antropologica e il più possibile appiccicata al reale.
​Strutturato in tre diapositive temporali che spaziano dalla più recente prospettiva di fine millennio a un futuro globalizzato e intercedendo per il presente, Jia suggella le molteplici voci nel verbo della cultura popolare, surrogata così in tre giovani della città di Fenyang, esemplari nella loro estrazione quasi casuale nonché concreti protagonisti della nazione: Tao, Liangzi e Zhang, uniti prima da vicende sentimentali e poi familiari. Ognuno di loro è sovrastato da entità socio-economiche che annullano da una parte prospettive lavorative e individualità, mentre falliranno nello strapparli drasticamente a loro stessi e alla loro identità etnica e geografica. 
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L’impostazione melodrammatica e minimalista che permea le storie intercettate e solo a tratti incrociate di questi individui fa dei raccordi relazionali sommessi quadri, diluendo l’impatto sentimentale degli snodi narrativi, mentre si rinforza l’idea che siano i paesaggi sterminati, talvolta aridi, nevosi, e le costruzioni secolari a rappresentare lo scheletro imprescindibile in una ipotetica riduzione all’osso dell’opera. Questo perché ultimi baluardi di chi c’è stato e di chi, sfogliando i mutamenti personali come specchio dei destini generali, patisce le intemperie del mondo. 
A resistere alla corrosione globalizzante di un capitalismo vincolante, non scelta obbligata ma seducente, c’è Tao, vera madrina e musa della narrazione, che in sé incarna e metaforizza lo spirito di un paese che dopo il crollo delle ideologie cede il passo alle correnti atlantiche non perdendo se stessa. Tao scolpisce il modello di narrazione tripartito anche quando non c’è, miniaturizzandosi e tirando le fila delle vicende, anche attraverso l’abnegazione consanguinea e il prestito all’amico (e antico contendente) Liangzi, ammalatosi a causa delle aspirazioni nocive delle cave di carbone. 
Liangzi non è altro che il fratello povero che la Cina ha prodotto e che in patria rimarrà a subirne le spese. Il figlio di Tao, invece, crescerà nella metropoli e si vedrà traghettato dal padre Zhang (corpo plasmante del capitalismo globale, che ribattezzerà l’erede in “Dollar” e sé stesso con un nome anglofono) verso la terra australiana, dimentico della propria lingua natale e persino del nome della madre. 
Non sarebbe sbagliato intravederne un discorso critico che dall’estetica cinematografica muove verso le incidenze di un libero mercato avido e arido (in un affastellamento di questioni da sempre care al regista e più volte soggette alla scure censoria), ma ciò che s’affaccia tra le pieghe dei fotogrammi sfuocati e distorti, allucinazioni visive che deformano la limpidità delle immagini e fanno da contraltare lirico, è una profondità di veduta che contrasta l’omologazione degli usi e delle genti e auspica la “glocalizzazione”, mentre celebra e ricorda i residui di una cultura atavica non del tutto destinata a perire. 
Non a caso sarà un brano melodico cantonese di successo e la fattura casalinga dei ravioli a ricorrere strenuamente per la sua intera durata, mentre Jia rinsalda la compattezza di una riflessività di concezione acuta e in grado di farsi urlante e sorda insieme, anche attraverso soluzioni formali a rischio di castrazione, riuscendo però a farne fluido per nulla posticcio. Così l’incastellatura nei 4:3 del 1999 e il suo ricalcare le tonalità cromatiche della pellicola passa all’ampliamento del formato 1:85, che apre un presente scosso dalle migrazioni e dalle modernizzazioni (di cui certo Zhang, compagno e poi ex-marito di Tao, rappresenta la speculazione più intransigente), fino al cinemascope di un futuro che può darsi mediante null’altro che il Cinema  - e nel suo formato da sempre più ambizioso. 
Ma Al di là delle montagne, in tutta la sua qualità terrestre e astratta al contempo, nel suo saper ridurre e amplificare nell’uomo sorti e microevoluzioni universali, è segnato, fin dalle battute d’inizio, dal sentore greve di un occhio che non sa darsi se non nostalgico, che non rinuncia alle proprie tracce di decadenza. Scie, però, fautrici di alterazioni perenni delle quali fare un motivo di speranza ulteriore anche per chi rimarrà tra le lande isolate e lontane, più o meno toccato dalla ricchezza, solo ma resiliente. 
Qui sta tutta la duplicità combaciante degli opposti, nella coscienza artistica che il cinema possa essere fotografia di una condizione assoluta di cui prendere atto, come Tao, fiduciosamente. E se a Ovest bisogna andare, ad aprire e a chiudere l’inno dei Pet Shop Boys, sarà il caso di farlo danzando. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica
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Titolo originale: Shan he gu ren 
Anno: 2015
Regia: Jia Zhang-Ke
Sceneggiatura: Jia Zhang-Ke
Attori:  Tao Zhao, Yi Zhang, Jing Dong Liang
Fotografia: Nelson Lik-wai Yu
Musiche: Yoshihiro Hanno
Durata: 131’
Uscita italiana: 5 maggio 2016

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SOLE ALTO - Il senso della Storia

2/5/2016

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“Io credo che Sole alto non sia un semplice prodotto d'intrattenimento, come qualcuno vorrebbe, ma uno strumento per mettere in discussione il presente”.

​Che l'intento di Dalibor Matanić fosse quello di realizzare un'opera coraggiosa e provocatoria, rifiutando a monte ogni possibile forma di racconto enfatica, lo si intuisce poco dopo l'inizio del film. E sebbene il regista croato – testimone diretto dell'intolleranza – catturi tutta l'inquietudine dietro quell'unico sparo che dà inizio alla guerra nell'ex Jugoslavia, è piuttosto la riflessione sui suoi effetti devastanti che fa muovere le immagini. 
Presentato a Cannes 2015 nella sezione Un Certain Regard, dove ha vinto il Premio della Giuria, Sole alto indaga l'amore fra un ragazzo croato e una ragazza serba, attraverso tre differenti storie che si sviluppano nell'arco di tre decenni consecutivi: il 1991, il 2001, il 2011. Cambiano le coppie, sempre giovani e affamate di futuro, ma non gli interpreti. Restano soprattutto i luoghi, gli stessi villaggi, gli stessi orizzonti emotivi fuori dal tempo, le cui sponde s'incontrano lì dove a far da barriera vi sono le apparenze contenute in quella parola – tanto condivisa quanto avvelenata – chiamata “identità”. 
​
Ivan e Jelena si amano, stanno per lasciare i paesi in cui vivono per trasferirsi a Zagabria, ma ben presto l'esplodere dell'odio interetnico si frappone fra loro distruggendo ogni progetto. Il primo episodio di Sole alto è forse quello più significativo: il sole, appunto, splende ancora altissimo illuminando il pacifico microcosmo dei due ragazzi, portato fatalmente a collidere con la società accecata dal nascente conflitto. La speranza da un lato, la sofferenza dall'altro, due forze vibranti e costantemente in lotta; uno scontro quasi archetipico che perdura per tutto il film. 
È indubbio che il lavoro di Matanić debba molto alle impeccabili e struggenti interpretazioni di Goran Marković e Tihana Lazović, quest'ultima selezionata come Shooting Star dalla Berlinale 2016. I due attori, così come l'autore, hanno (ri)vissuto sulla pelle la decadente realtà che scorre sullo schermo, la triste e cupa verità di come nessun cessate il fuoco riesca a mettere davvero fine alle ostilità. 
Si giunge, inevitabilmente, a fare i conti con l'odierno momento storico, profondamente ferito e dominato dall'incertezza in cui, seppur affannosamente, grazie ai più alti valori umani arriva a palesarsi una concreta ipotesi d'amore. Va detto, però, che nonostante la struttura cronologica e lineare l'opera svela la sua natura ciclica, in un continuo andirivieni tra passato e presente, tra ciò che è stato e ciò che avrebbe potuto essere. In tal senso Sole alto è una pellicola stratificata e pensata nei minimi dettagli, in particolare quelli visivi che sottolineano a più riprese la bellezza e le storture del paesaggio/personaggio, in cui si riverberano i moti dell'anima dei protagonisti. 
Matanić vorrebbe, e noi tutti spettatori con lui, una civiltà capace di mettere da parte il razzismo, l'islamofobia e in generale le derive politico-sociali che tendono a dividere l'umanità in due; vale a dire “noi”, di cui dobbiamo occuparci, e gli “altri”, del cui destino poco importa. Sole alto ci ricorda che è necessario che la luce ritorni allo zenit (citando il titolo originale, Zvizdan), nel punto più alto, da cui irradiare un mondo che, come il film, si alimenta di contrasti e simmetrie.

Vincenzo Verderame

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica
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Titolo originale: Zvizdan
Anno: 2015
Regia: Dalibor Matanić 
Sceneggiatura: Dalibor Matanić 
Fotografia: Marko Brdar
Musica: Alen Sinkauz, Nenad Sinkauz
Durata: 123'
Attori: Tihana Lazović, Goran Marković Nives Ivanković, Trpimir Jurkić, Stipe Radoja, Slavko Sobin

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THE DRESSMAKER - Il diavolo è tornato

28/4/2016

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Un doppio ritorno, in effetti, la dichiarazione di The Dressmaker, già presentato al Toronto Film Festival, giunto un mese dopo in anteprima italiana a Torino e ora nelle sale:  un distacco di più di dieci anni dalla cabina di regia per Jocelyn Moorhouse, australiana come questo film e i suoi stilizzati luoghi; una riapparizione, un vero e proprio rimpatrio per Myrtle “Tilly” Dunnage, cowgirl con ago e tessuti a sostituire l’obsoleta pistola del far west cinematografico, ripiombata in città dopo decenni di esilio, e già dai primi sguardi torvi e notturni macchiata (e maledetta) eroina incatenata a un mistero dolente. 
La vecchia e puzzolente madre, Molly “La pazza”,  le sarà prima ingannevole maschera e poi rinnovata spalla per un passato da scoperchiare riesumando le sue vetuste rimozioni. Un fantomatico omicidio a farle da capo accusatorio (di cui ella non conserva alcuna lucida consapevolezza) e una nemesi allargata, prepotente, lo spirito di un villaggio conservatore che l’ha espulsa demonizzandola e che lei stessa ha saputo demistificare in un peregrinare cosmopolita, costruendosi l’immagine in un divario tutto moderno, che allo stile sartoriale d’haute couture guarda e che da esso prende le proprie mosse (di rivincita su una comunità medievale che l’ha resa strega per autoindotta necessità d’esorcismo). 
Ma l’input alla vendetta è a-tendenziale, in Tilly: più che regolare i conti barbaramente (ed è ciò che separa notevolmente l’opera da un revenge movie a tutto tondo) anela a un sentirsi accettata, a una restaurazione del suo ruolo e della sua affettività, della sua identità da detergere tramite l’imporsi della giustizia (non a caso unica arma impugnabile da una donna del Nuovo Mondo, almeno per le prime battute).  
​
Il lavoro della Moorhouse non è certamente spurio da tematiche in precedenza affrontate (la propensione al sentimentalismo e alle dinamiche familiari, oltre che un deciso gusto per la tragedia), eppure quest’altro capitolo s’apre (e audacemente diremmo “così avrebbe dovuto mantenersi”) come un’efficace variazione sulla commedia cinica e disincantata, così sopra le righe per personaggi eccentrici e mai eccessivamente parodistici, per carica magnetica intelligentemente calibrata su una Kate Winslet, a metà tra femme fatale, germe estraneo dell’indipendenza femminile, impenetrabile outsider e donna rinchiusa nel dolore. 
Non poco concorre lo stile visivo alla perpetua ricerca di angolazioni significanti, virgolettature a rinsaldare l’idea di un’esperienza spettatoriale che scongiuri la docile linearità e la standardizzazione linguistica, pur non cedendo a orpelli virtuosistici. L’efficace brio caustico e dirompente che caratterizza un lasso che eccede dal mero preambolo finisce, però, per sgualcirsi, venendo letteralmente infettato da una mano di pece melodrammatica in acuta escalation (con il merito, certo, di non perdere mai l’assetto comico e di farne, anzi, sostrato basilare e integrante), mentre decessi francamente immeritati (e non meritati dalla protagonista) avvicinano l’oggetto a una scia di memoria hollywoodiana, a scomodare il caro fato che da sempre s’è accanito lacrimevole contro le eroine di tutti i tempi. 
Non è di happy ending o meno che si parla: la conclusione, poi, fa dell’impatto dell’esecuzione vendicatrice (e purificante) la sua più riuscita colonna; eppure, le sottolineature strettamente tragiche, l’idea di dramedy a cui sembra occhieggiare fatica ad amalgamarsi, compiuta, in una fattura che sia ordinata e coesa (anzi, nel tentativo di eccedere l’ordine scade quando la pur fresca e ammiccante sceneggiatura inciampa in un orizzonte di eventi prevedibili o stonati). 
In sostanza, è proprio quando The Dressmaker cerca di mescolare le carte e riassettare il mazzo che produce un effetto di confusione discorsiva, lasciando il fruitore al suo stesso limbo periferico, indeciso tra la godibilità orchestrata dell’opera e il suo accavallarsi di elementi talvolta aleatori e scartabili (al di là di una chiara intenzionalità che invece ben si esaurisce sul finale, ma che tende a perdersi nel percorso). Presto si dipana l’ossatura più strutturale di un melodramma che ossequia ognuno dei suoi principi storici, tra hybris originale, collettività ostile, morte che sopraggiunge implacabile a rinsaldare l’idea deterministica di una maledizione imbattibile, così com’è dalla protagonista esperita, specialmente quando essa stessa sembrava finalmente eclissarsi. 
Il destino di solitudine e di isolamento così si compie, a riportare l’adulta Tilly allo stato di esclusione e condanna della sua infanzia e senza possibilità di riscatto esistenziale, laddove i molteplici tentativi si asserviscono a una più generica imposizione divina (e a diversi deus ex machina drammaturgici). Il risultante è dunque una parabola circolare, ove il perno della narrazione subisce una sadica riduzione/nobilitazione nella figura di una donna-Messia che, pur nel sacrificio della propria essenza sociale, consegna al villaggio gli strumenti per la configurazione di un microcosmo possibile esulando da puritanesimo e parziale civilizzazione; certo, una metamorfosi soltanto potenziale, ai fatti impossibile perché parto di un onnipresente cinismo, e da attuarsi attraverso l’immagine nuova e moderna, la percezione di se stessi e la moda come scettro di potere e seduzione. 
Non sarebbe difficile, allora, ritenerla un’occasione mancata (forse nemmeno pensata). Il pragmatismo suggerisce che è nella volontà di dipingere la storia di una donna e della sua forza che giace il pensiero produttivo, pena una stratificazione non per forza sottotestuale ma più verosimilmente da lasciar affiorare. Un secondo suggerimento, quello per cui sono i caratteri ben congeniati e i quadri (parzialmente) stravaganti a centrare l’obiettivo, restituisce l’ipotesi che sia Kate Winslet, catalizzando, a fare ben oltre la sua parte. Un film riuscito, ma a metà.   

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: The Dressmaker
Anno: 2015
Regia: Jocelyn Moorhouse
Sceneggiatura: Jocelyn Moorhouse, P.J Hogan 
Attori: Kate Winslet,Judy Davis, Liam Hemsworth, Hugo Weaving
Musica: David Hirschfelder
Fotografia: Donald McAlpine
Durata:  118’
Uscita italiana: 28 aprile 2016

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ASCENSORE PER IL PATIBOLO - Amour fou e destino

5/4/2016

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Rivista oggi, l’opera prima di Louis Malle si configura ancora come un incredibile crocevia di suggestioni e contenuti che sembra costantemente sfuggire allo sguardo: perché è impossibile contenerla tutta e riassumerla in un giudizio, in un’idea; come se cercasse di scappare via rifiutandosi qualsiasi catalogazione o incasellamento. 
Lo stesso contesto storico, del resto, da solo spiega tantissimo: Ascensore per il patibolo esce nelle sale nel 1957, anticipando di pochissimo la rivoluzione della Nouvelle Vague e, allo stesso tempo, facendosi carico dell’eredità del polar metropolitano che aveva visto in Jean Pierre Melville il suo pioniere più  rappresentativo. Non è un caso, allora, che il film si ponga esattamente a metà strada tra il noir e il melò, attingendo da entrambi i generi senza però appartenere compiutamente all’uno né all’altro. Un oggetto vivo e magmatico, in costante divenire, dalla progressione narrativa sperimentale e quasi improvvisata, come se si trattasse di una partitura jazz cadenzata dalla tromba di Miles Davis in colonna sonora.  
La sequenza di apertura, poi, è già storia: il dialogo tra due amanti al telefono, la macchina da presa incollata in un primissimo piano sugli occhi di lei (Jeanne Moreau), per poi allargarsi quasi timidamente, nel timore di lasciarla scappare via; il tutto mostrato attraverso un montaggio libero e (apparentemente) senza regole, quasi a voler anticipare il capovolgimento delle convenzioni stilistiche, il loro superamento, che sarebbe arrivato di lì a pochissimo (Fino all’ultimo respiro di Godard è del 1960). 
​
Tratto da un romanzo di Noèl Calef, Ascensore per il patibolo racconta la vicenda dei due amanti Florence e Julien, in procinto di uccidere il marito di lei simulandone il suicidio. Il piano riesce, ma il destino ci mette lo zampino e Julien rimane bloccato tutta la notte dentro un ascensore, mentre Florence vaga ossessivamente per la città alla sua ricerca. Nel frattempo, l’auto di lui viene rubata da un giovane sbandato insieme alla sua ragazza, e i due la utilizzeranno per compiere un omicidio del quale verrà incolpato Julien. 
Nelle mani di Malle, un intreccio fin troppo denso di colpi di scena si trasforma immediatamente in altro: capovolgendo le regole del noir (contrariamente ai luoghi comuni del genere, l’omicidio passionale avviene all’inizio e fin troppo facilmente,  senza incontrare alcuna difficoltà) e innescando continuamente nuovi motori narrativi, l’esordiente regista compie una personalissima riflessione sul rapporto indissolubile tra amour fou e destino, impedendo di fatto allo spettatore di identificarsi in alcun personaggio, poiché nessuno è esente dal peccato. 
Un viaggio al termine della notte lucido e spietato, come nella migliore tradizione noir, nel quale la felicità è un miraggio costantemente inseguito ma impossibile da raggiungere, esattamente come il peregrinare notturno di Jeanne Moreau sulle note di Miles Davis, vera e propria digressione stilistica che manda in frantumi le rigide geometrie del genere, catapultando violentemente all’interno del film una sensibilità romantica e morbosa, malinconica e disperata. Non è un caso che i due amanti non compaiano mai nella stessa inquadratura e nella stessa scena (fatta eccezione per alcune fotografie mostrate nel finale), condannati da un fato implacabile che impedisce il coronamento del loro amore – la splendida scena della telefonata nella già citata sequenza di apertura sembra allora già presagire le distanze incolmabili tra i due destini.  
Un film fatto di contraddizioni e di elementi in aperto contrasto tra di loro, come il rapporto tra spazi antitetici (l’ascensore claustrofobico e soffocante in contrapposizione alle strade immense di una Parigi meravigliosamente notturna), ennesima rimarcazione di due mondi e universi che non potranno mai incontrarsi.

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Ascenseur pour l'échafaud
Regia: Louis Malle
Sceneggiatura: Roger Nimier, Louis Malle
Attori: Jeanne Moreau, Maurice Ronet, Georges Poujouly, Yori Bertin, Lino Ventura, Ivan Petrovich, Elga Andersen
Anno: 1957
Durata: 88’
Fotografia: Henri Decaë
Musica: Miles Davis
Uscita italiana: 4 aprile 2016 (riedizione)

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