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APACHE - Una vita violenta

19/8/2013

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«La montagna in mezzo al mare...». Così definiva la Corsica Guy de Maupassant nel suo primo romanzo “Une vie” (1883). L'incipit di Apache di Thierry de Peretti rievoca indirettamente queste parole: nei primi fotogrammi ci appare una sontuosa villa, alta sulla costa di Porto Vecchio, ma dietro l'apparenza di un luogo ameno può esserci un'anima nascosta ed è questa la chiave registica e drammaturgica di Apache. 
Tratta da un fatto di cronaca avvenuto circa otto anni fa (ma non dichiarato all'inizio del film), la pellicola si rifà alla cruda realtà, ai generi cinematografici del gangster movie e dei polizieschi francesi, e soprattutto riesce a farsi atto di accusa di specifiche dinamiche tra uomini senza ergersi sul piedistallo. 
Dall'alto della villa si passa al basso, lì dove risiedono gli abitanti di Porto Vecchio – i figli di coloro che sono stati saccheggiati, conquistati e colonizzati. In Apache “alto” e “basso” s'incontrano simbolicamente quando i nostri quattro protagonisti - Aziz (Aziz El Addachi), François-Jo (François Joseph Cullioli), Jo (Joseph Ebrard) e Hamza (Hamza Mezziani) - entrano nella villa di cui è custode il padre di Aziz. Il branco si divide, i più fragili come François-Jo si isolano tra bevute e bravate, ci si contende l'unica ragazza presente, Maryne (Maryne Cayon), e si sfrutta il lusso di altri fino alla deriva dell'eccesso di alcol e del furto – portano via un vecchio stereo e due fucili da collezione. 
In una società “normale” il (mis)fatto sarebbe stato denunciato alla polizia; in quella degli “apaches”, invece, i ricchi proprietari parigini scelgono di rivolgersi a un boss locale ed è questa caccia al ladro ad innescare le evoluzioni all'interno del branco umano. Con la giusta distanza, de Peretti ci mostra un gruppo di giovani aggregatosi per circostanza, accomunati dall'ennui e dalla frustrazione della loro condizione di vita. Aziz, François-Jo, Jo e Hamza non conoscono la lealtà in amicizia, ma solo la legge della sopravvivenza, per cui anche tra di loro scatta una caccia, quella al capro espiatorio. 
Con un occhio sempre rivolto ai generi di riferimento, de Peretti mette in scena l'opposizione esistente sul piano sociale ed economico tra chi abita temporaneamente la città e chi la vive. La costruzione drammaturgica (realizzata a quattro mani con Benjamin Baroche) crea un climax che arriva come un fulmine a ciel sereno nonostante il ritmo perda un po' di terreno nella parte centrale e ci siano elementi premonitori che qualcosa accadrà, perché basta tener conto della natura (dis)umana dei ragazzi. In Apache non ci sono tanti dialoghi, le parole sono spesso frecciate sullo status e sulla nazionalità («Resta nel tuo quartiere! Hai il kebab, la moschea e tutto il resto»), si lascia tempo e spazio allo spettatore per ambientarsi e immergersi in quell'atmosfera. Lo stesso titolo oltre a farci pensare istintivamente alle tribù indiane (e al western), fa riferimento al modo in cui il capo della polizia chiamava i fuorilegge a Belville e al contempo rievoca il concetto di territorio. 
Partendo in primis dal paesaggio, de Peretti prova a scardinare tutti i luoghi comuni utilizzando il formato quadrato (4/3) - così da cancellare dai nostri occhi le panoramiche da cartolina – e linee guida quali il piano-sequenza e il fuori campo, lì dove quest'ultimo assume una funzione determinante per l'urto emotivo e di pancia che può avere sullo spettatore.
Dietro l'acqua color smeraldo si cela una fauna umana, dietro le spiagge paradisiache possono esserci le paludi e questo de Peretti lo sa, ne ha consapevolezza e ce la restituisce. Quello che colpisce è il modo in cui il film fa memoria di ciò che è accaduto realmente anni fa in quei luoghi senza riprodurlo, senza scadere nella docu-fiction. È come se il cinema diventasse la terapia per superare il dramma che fu e gli interpreti dei protagonisti, scelti non tra attori professionisti, sono bravissimi nell'incarnare le ombre dei giovani, quel mix di impulsi primordiali e premeditazione da cui nasce l'inquietudine profonda che si legge sui volti e nelle loro azioni.
Dopo aver raggiunto il climax, quel filo elettrico che attraversa il lungometraggio scarica la tensione nel finale; nel corso di Apache percepiamo questa carica sotterranea costante (pronta a scoppiare) nonostante, qualche volta, il paesaggio prevalga sull'uomo e alcune soluzioni conclusive arrivino senza un'esplicita riflessione dell'individuo, serviteci come dato di fatto. 
Messe da parte alcune imperfezioni di scrittura, in forma ciclica de Peretti ci riporta dove tutto era cominciato, chiamandoci direttamente in causa e non trattandoci come meri spettatori; la sequenza conclusiva di sguardi in macchina ci inchioda completamente, rifuggendo il moralismo. 
Concludiamo sottolineando la scelta della Kitchenfilm, che ha voluto far uscire il film in lingua originale – sottotitolato – proprio il 14 agosto, in contemporanea con gli altri Paesi. Una data non casuale, visto che la «notte del destino» (chi vedrà il film lo scoprirà) coincide proprio con la notte di Ferragosto.

Maria Lucia Tangorra

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Les Apaches
Regia: Thierry de Peretti
Attori: Aziz El Hadachi, François-Joseph Cullioli, Hamza Mezziani, Maryne Cayon, Joseph-Marie Ebrard
Fotografia: Hélène Louvart
Musiche: Cheveu
Costumi: Mati Diop
Sceneggiatura: Benjamin Baroche, Thierry de Peretti
Anno: 2013
Durata: 82'

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