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THE TRIBE - Il linguaggio del cinema

1/6/2015

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Senza la scelta controversa (ma felice) di usare esclusivamente il linguaggio dei segni al posto di voci e sottotitoli, il film ucraino The Tribe, di Miroslav Slaboshpitsky, non avrebbe probabilmente ottenuto l’attenzione e il successo che invece sta segnando il suo passaggio dai festival internazionali alla distribuzione mondiale, anche negli Stati Uniti.
The Tribe ha una storia lineare e semplice, nella sua drammaticità. Un giovane entra in una scuola per sordomuti. La comunità, apparentemente organizzata e tranquilla, cela una realtà sconvolgente, fatta di ordinarie violenze, sfruttamento e atti di bullismo perpetrati ai più deboli, alle ragazze, a chi non può difendersi, ai ‘diversi’ dentro quella diversità che lì si fa norma. Una scuola-carcere, un lager in mano a giovani aguzzini. Slaboshpitsky segue letteralmente (senza mai invadere il campo e la scena) le molte, tristi storie che si intrecciano sul filo della narrazione. Sullo sfondo si consuma l’angoscia silenziosa dello spettatore nell’osservare impotente, come dalla platea di un teatro, gli insopportabili accadimenti che si verificano sempre e ovunque: nelle aule e nei dormitori, nei giardini abbandonati e decadenti, per le strade notturne abitate da creature mute, agili e feroci, proprio come un branco.

Dal punto di vista dei contenuti, The Tribe non dimostra grande originalità. Il racconto di violenze e soprusi, in un ambiente che dovrebbe essere protetto per gli adolescenti ma che è invece solo un contenitore di orrori, un luogo senza legge, alienato e alienante, non è una novità; si può dire che l’autore non si sforzi tanto di cercare soluzioni quanto invece di turbare mostrando, e mostrando tutto. La descrizione della microsocietà interna alla scuola ha una sua naturale efficacia e, in generale, Slaboshpitsky compie scelte stilistiche coerenti; tuttavia, questa inquietante costanza nell’esibizione della nudità come dell'ostentazione cruda della violenza, quasi senza climax, priva la storia stessa di pathos, rendendo anche la percezione del male come una inevitabile abitudine.

Ciò che invece affascina in The Tribe è la composizione. Il film, infatti, rinuncia a utilizzare uno degli elementi classici del cinema: le voci. Il mondo-gabbia dei sordomuti è così portato allo spettatore. Il film osserva la storia dalla nostra prospettiva e riempie la scena di “rumori necessari”, cioè di quegli stimoli acustici indispensabili per non alienarsi, ma restare invece connessi con l’ambiente circostante. Con l’ambiente del film. Il regista si divide tra la camera anecoica e la costruzione del paesaggio sonoro, concepito come un vero e proprio design. I corpi degli attori, giovani non professionisti e veramente sordomuti, riempiono con naturalezza uno spazio scenico allestito solo per loro. I corpi parlano e definiscono sempre, costantemente, la loro esistenza: un percorso segnato per lo spettatore dai suoni delle mani che sbattono e schioccano, i passi sul terreno, e poi la pelle, la carne nuda che agisce e subisce contro altra carne. La narrazione di The Tribe è costruita attraverso un impianto visivo molto semplice ed esplicito, in cui gli oggetti e il paesaggio sono immediatamente riconoscibili e identificabili, e tramite una complessa ricerca di rumori e sonorità.
La macchina da presa segue lo svolgersi della vicenda con distanza e distacco, mettendo gli spettatori nella condizione di diventare osservatori esterni del mondo dei sordomuti e, di più, di una parte di realtà isolata e disturbante, totalmente isolata dalla società esterna; una realtà intangibile che si crea e si autodistrugge, e che noi da fuori possiamo solo guardare.
I dialoghi sono affidati al linguaggio dei segni (nel codice ucraino, pertanto comprensibile solo a certa parte della popolazione mondiale, nemmeno a tutti i sordomuti): gesti e parole da intercettare, espressioni del viso e del corpo da comprendere. È un lavoro complesso, quello che deve svolgere lo spettatore di The Tribe. Attenzione, però: l’assunto (errato) di base nell’approcciarsi alla pellicola è quello di considerarla priva di linguaggio. Il linguaggio invece c’è: è il cinema. Semmai a mancare è la lingua parlata, quella delle voci e delle parole dette, riequilibrate benché non sostituite dalle immagini, dalle suggestioni, dalle percezioni, dai sensi.

Siamo lontani anni luce dalla lezione sentimentale di Figli di un dio minore, con l’improbabile insegnante William Hurt che offriva la propria voce ai pensieri della giovane sordomuta Marlee Matlin. Nessun favore viene fatto allo spettatore pigro e convinto della propria superiorità da ‘normodotato’. The Tribe mette in discussione il senso di dominanza e assolutezza in cui tutti noi viviamo. Ci insegna che tutto è relativo, ma anche che tutto è assoluto nello spazio cinematografico. E ci dà un senso di spaesamento e inadeguatezza per il fatto di non riuscire a entrare davvero nella comunicazione del film e con il film. Del film, perché dobbiamo attivarci per cercare di intuire, comprendere il linguaggio dei segni; con il film, perché il rapporto con lo spettatore è messo in discussione dal momento in cui l’autore priva la sua opera dei sottotitoli, mezzo universale per far arrivare il messaggio a chiunque.
The Tribe segna quindi un cerchio attorno alla storia, e al tempo stesso ci dice che la comprensione è un nostro problema. Esattamente come è un problema dei sordomuti essere nel mondo di chi parla e sente.

Francesca Borrione

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Miroslav Slaboshpitsky
Sceneggiatura: Miroslav Slaboshpitsky
Interpreti: Grigoriy Fesenko, Yana Novikova, Rosa Babiy
Fotografia, montaggio: Valentyn Vasyanovych
Anno: 2014
Durata: 122'
Uscita italiana: 28/05/2015

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