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VIZIO DI FORMA - La corruzione dell'anima

2/3/2015

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When the winter rains come pourin' down
On that new home of mine
Will you think of me and wonder if I'm fine?

Will your restless heart come back to mine
On a journey through the past?
Will I still be in your eyes and on your mind? 
(Neil Young – Journey Through The Past)


Telefonami, magari
Tu non mi hai mai lasciata sola, Doc.
Non c’è problema, dai. Io…
No, davvero: mai.
Oh…ma sì che è successo.
Mi sei sempre stato vicino.


Paul Thomas Anderson mette in scena la trasposizione cinematografica di Inherent Vice, di Thomas Pynchon, un testo denso e stratificato, non facile da portare sul grande schermo in quanto visione allucinata di un’America anni settanta che si trascina tra acidi, surfisti, hyppies sballati e poliziotti corrotti. Eppure il regista di The Master e Boogie Nights è abituato a stupire lo spettatore con la sua narrazione cinematografica che avvolge lo sguardo e lo ipnotizza. 
In questo caso, poi, l’ipnosi è certamente favorita dalle smodate quantità di droghe assunte dai protagonisti del film e dal loro contagioso e pressoché perenne stato di alterazione sensoriale; lo stesso stato semicatatonico di una nazione che non riusciva a focalizzare il suo sguardo obnubilato sulle mille nefandezze che infestavano il sogno americano. Siamo nel bel mezzo della Age of aquarius, gli anni in cui Nettuno era il pianeta dei fattoni e Urano quello delle sorprese scurrili (Neptune, the doper's planet, and Uranus, the planet of rude surprises), delle coroncine di fiori tra i capelli, delle collanine di conchiglie e dei succulenti extra al Chick Planet Massage a cui avevi diritto se eri uno sbirro.
Vizio di Forma si apre su un mare hopperiano, costretto tra la rigidità di due edifici bianchi e squadrati; una superficie appena increspata, apparentemente calma, ma percorsa in profondità da mille correnti, forti e contrastanti, che, proprio come nei quadri di Edward Hopper, trasmette inquietudine e getta una luce sinistra sulla storia che sta per dipanarsi. 
Il pynchoniano Doc Sportello, con le fattezze stropicciate di Joaquin Phoenix, racchiude in parte i tratti del chandleriano Marlowe, meno gigione e più sornione, più orientato alla marijuana che ai superalcolici. Ossessionato, spaventato e circondato dalla paranoia (“paranoia alert”, scrive sul suo taccuino, durante un incontro con uno dei suoi clienti). Un investigatore privato dall’andatura incerta e con i piedi sporchi, in perenne conflitto con gli sbirri di Los Angeles, specialmente con “Bigfoot” Bjornsen (Josh Brolin), poliziotto burbero, il cui osceno amore per i gelati alla banana ben si sposa con una struttura fisica che riporta alla mente il nintendiano Donkey Kong. 
Doc Sportello è sovente risucchiato dal suo divano, come il drugo del Grande Lebowski di Joel e Ethan Coen, o Robert De Niro in Jackie Brown di Quentin Tarantino, e su quel divano i pensieri si aggrovigliano intorno a uno scopo unico, il suo eterno amore, la sua ex fidanzata, Shasta Fay Hepworth; come in un classico noir l’obiettivo è salvare la donna, persa in un intricato affare di amanti, complotti e zanne dorate. 
Anderson non lesina mai sprazzi di dolcezza; una poetica malinconica caratterizza tutto lo scorrere del film, come nella scena in cui, sotto la pioggia, mano nella mano, i due amanti riescono a dimenticare la crisi d’astinenza con un’infusione di dolcezza mentre, in sottofondo, scorrono le note di Neil Young e la sua Journey Through The Past accompagna il fluire dei ricordi. Annegando, insieme, in un faithnomoriano “underwater love”, folle, impossibile, ma totalizzante. 
Vizio di forma è percorso da una sottile ma tangibile vena erotica, come tutti i film di PTA. Il regista riesce, in un perfetto gioco di equilibrio, tra ironia e sfumature noir, a impregnare la pellicola di un tossico brulichio sensuale e pruriginoso. Il primo sussulto ormonale lo si avverte fin dalla prima fugace apparizione di Shasta, stretta nel suo abitino arancione, corto quanto basta per donare allo spettatore un energico schiocco di frusta al cuore, e non solo. 
Nella città degli angeli si intrecciano personaggi e storie che si sovrappongono e scorrono parallelamente su piani diversi, destinati a incontrarsi occasionalmente all’interno di una narrazione frammentaria, come il linguaggio filmico scelto da Anderson, che cerca di restare fedele e aderente alla linea dettata dalla scrittura di Pynchon. Imprenditori immobiliari miliardari, surfisti sassofonisti, dentisti pedofili ed eroinomani, ebrei nazisti, sbirri corrotti, pupe in calore, la Black guerrilla family e la Fratellanza ariana: questa è la poliedrica umanità di Vizio di Forma. 
Il tramonto degli anni ‘60 e i primi vagiti dei ’70, l’infrangersi del sogno americano, sono raccontati con verve e ironia dal testo pynchoniano; la stessa ironia è portata sullo schermo da Anderson, che dipinge e caratterizza fortemente non solo i personaggi del film ma tutto lo spaccato storico e sociale a cavallo tra un decennio e l’altro, pieno di luci, colori e suggestioni, in un’atmosfera che nascondeva proprio tra quei colori, così saturi e sgargianti, il lato oscuro e marcio di una nazione e dei suoi vizi. Come prima di lui aveva fatto Terry Gilliam, sulla base del testo di Hunter S. Thompson, in Paura e Delirio a Las Vegas, così il regista di The Master si confronta con lo sgretolarsi dell’utopia dei sixties, senza peraltro attingere all’universo grottesco e allucinato di Gilliam; si affida invece a un piglio beffardo e pungente, traendo ispirazione dai crime movies e dalle pellicole in bianco e nero del noir classico, con rimandi allo stile di film come The Big Sleep di Howard Hawks, Kiss Me Deadly di Robert Aldrich e The Long Goodbye di Robert Altman.
Anderson dirige un’opera corale in cui ogni interprete risulta credibile e ben amalgamato con il resto del corpo attoriale; personaggi ben strutturati e in perfetta armonia tra loro. La mdp si sofferma sovente a scrutare volti e sguardi, in primi piani stretti o piani americani, donando la parola ora agli occhi, ora alle espressioni fortemente caratterizzanti di Joaquin Phoenix, Owen Wilson, Josh Brolin e Benicio Del Toro.
L'autore non cede alle lusinghe di un’estetica patinata, ma mette in scena una fotografia a tratti rarefatta e sgranata con i colori e le sfumature degli anni 70, i vestitini sgargianti, le minigonne inguinali alla Twiggy; gli sguardi incorniciati da battiti di lunghe ciglia finta, palpitanti a ogni sguardo, come ali di farfalla, impreziosiscono tutto. Anderson riesce nell’impresa titanica di condensare in un film non solo il romanzo ma forse l’intera anima della scrittura di un grande autore e lo fa con amore, in modo quasi chirurgico, rimanendo fedele alla narrazione testuale di Thomas Pynchon. 
Il cinema di Anderson, in questa sua ultima opera, attraverso l’uso di un linguaggio filmico disincantato e tagliente, tra narrazioni, immagini, suoni, personaggi che si sovrappongono, convivono e si confondono, assume la forma dilatata e confusa della libertà, la libertà di seguire un tessuto fluido in continuo movimento; è questa mutazione continua che esercita una forte fascinazione sullo sguardo dello spettatore meno sprovveduto, e su chi si lascia risucchiare dal vortice magmatico di Anderson e di Pynchon, in balia di una meravigliosa allucinazione.

Mariangela Sansone

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda Tecnica

Titolo originale: Inherent Vice
Anno: 2014
Regia: Paul Thomas Anderson
Sceneggiatura: Paul Thomas Anderson
Fotografia: Robert Elswit 
Musiche: Jonny Greenwood
Durata: 148'
Uscita in Italia: 26 febbraio 2015 
Interpreti: Joaquin Phoenix, Josh Brolin, Katherine Waterston, Owen Wilson, Benicio Del Toro, Reese Whiterspoon

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