ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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TORINO FILM FESTIVAL 37 – La gloria del passato, i dubbi sul futuro

2/12/2019

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​Dal 22 al 30 novembre si è svolta l’edizione numero 37 del Torino Film Festival, l’ultima affidata alla direzione di Emanuela Martini, in attesa di sapere se ci sarà una conferma con ulteriore mandato per lei e il suo staff o se la manifestazione finirà in mani nuove. Un’annata di transizione, apparsa in tono minore rispetto alla grazia a cui i giorni sotto la Mole ci avevano abituato, anche se come sempre non sono mancati titoli in grado di assicurare al pubblico torinese un ampio e diversificato ventaglio di visioni, in alcuni casi molto interessanti.
​Se da un lato va sottolineata la sempre più netta (ed eccessiva) preponderanza del cinema statunitense, a discapito in particolare del cinema francese, quest’anno quasi del tutto assente (perlomeno dalle sezioni principali), dall’altro la vastità del programma ha comunque saputo regalare momenti suggestivi un po’ per tutti i gusti.
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Il Concorso Internazionale, con giuria capitanata da Cristina Comencini, ha decretato la vittoria del finlandese A White, White Day, apprezzato dalla critica così come altri titoli di valore, su tutti il potente russo Dylda/Beanpole e il sorprendente film distopico spagnolo El Hoyo. Meritano senz’altro una citazione anche il tunisino Le rêve de Noura, vincitore del premio Fipresci, intensa storia di una donna in lotta per la propria emancipazione sentimentale, con una magnetica e magnifica protagonista (Hind Sabri) che avrebbe avuto tutte le carte in regola per ottenere il riconoscimento di miglior attrice (andato invece alle interpreti di Dylda), e il cileno Algunas Bestias, spietato e disarmante dramma familiare in stile hanekiano con una parte finale durissima, forse persino troppo, ma in grado di cogliere nel segno. È piaciuto (perlomeno al pubblico) anche l’italiano Il grande passo, nonostante faccia piuttosto sorridere il premio, palesemente patriottico, assegnato come migliori attori alla coppia Fresi/Battiston. 
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Una delle qualità che rendono il TFF un evento da anni imprescindibile nel panorama nostrano è la sua varietà, sempre in equilibrio tra attenzione al cinema d’autore e istanze più commerciali. Come accennato alcuni titoli, in particolare di provenienza statunitense, sono sembrati trascurabili, tutt’altro che necessari, così come è apparso superfluo l’inserimento di (troppe) pellicole non esaltanti di già stabilita e imminente distribuzione. Ma c’è stato comunque spazio pure per visioni di notevole pregio.
​Ci teniamo, ad esempio, a spendere qualche riga per Tommaso, di Abel Ferrara, lavoro autobiografico sospeso tra (poca) finzione e (tanta) realtà, in cui il grande autore, in una sorta di personalissima seduta psicanalitica, si mette a nudo per parlarci di sé stesso, attraverso il suo magistrale alter ego Willem Dafoe. Su e giù per le strade di Roma, tra bar di quartiere, spezzoni di umanità, giochi al parco, incontri con ex alcolisti, caffè serviti da donne completamente nude e lezioni di teatro, ed esprimendosi in tre lingue diverse, Ferrara/Dafoe racconta le sue esistenze passate e presenti, le paure inconsce, le insicurezze, le tentazioni, le nevrosi, generando un quadro filmico appassionante, con attimi di oscurità e polveri di sensualità. Una rappresentazione a tratti tenerissima e priva di pudori, al punto che il regista non si fa alcun problema a porre davanti alla macchina da presa la sua vera compagna (a cui fa simulare anche una scena di sesso abbastanza spinta con Dafoe) e la reale figlioletta di tre anni, traslando nell’oggetto cinema il centro focale del cuore e i tormenti dell’anima. Un’opera apparentemente bislacca e improvvisata, in realtà concreta e validissima. 
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Oltre al Concorso Internazionale, alla pantagruelica Festa Mobile e ad After Hours (quest’anno sottotono), gli spettatori del TFF hanno potuto dividersi tra documentari, cortometraggi, mini-retrospettive (come quella dedicata all’autrice macedone Teona Strugar Mitevska) e omaggi di varia natura, finendo poi in molti casi per confluire nelle meraviglie di Si può fare!, abbondante viaggio all'interno della storia del cinema horror dagli anni ’20 alla fine degli anni ’60, e nelle suggestioni impegnative ma brillantissime di Onde, dove sono stati mostrati tra gli altri Vitalina Varela di Pedro Costa (Pardo d’Oro a Locarno 72) e Synonymes di Nadav Lapid (Orso d’Oro a Berlino), titoli che avrebbero giovato di una collocazione più centrale. 
​Va poi sottolineata, una volta ancora, la bontà di Torino Film Lab, sezione spesso trascurata (da alcuni purtroppo perfino ignorata) ma come sempre capace di offrire incanti ben superiori rispetto ad altre zone del festival assalite con molta più veemenza. Un’ennesima conferma, con ottime produzioni come il ceco HRA/The Play, racconto poetico e vibrante in bianco e nero dove il dramma in scena corre in parallelo con il dramma della vita, e Port Authority, storia di un amore che supera confini, barriere culturali, omertà e pregiudizi.
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A fronte di una proposta contemporanea comunque nel complesso non entusiasmante, è nel cinema del passato che il TFF 37 ha trovato un decisivo sostegno, a partire dai film scelti dal guest director Carlo Verdone (che bello rivedere Divorzio all’italiana di Germi, Viale del tramonto di Wilder, Ordet di Dreyer), fino appunto ai capolavori che hanno seminato orme immortali nella leggenda del cinema del terrore, da La maschera del demonio di Bava a Il pozzo e il pendolo di Corman (entrambi presentati in sala dall’iconica Barbara Steele), dai Frankenstein di Fisher a La bambola del diavolo di Browning, da Ho camminato con uno zombie di Tourneur a Gli invasati di Wise, dal Nosferatu di Murnau a Rosemary’s Baby di Polanski, e molti altri. Peccato però che pochi di questi splendori siano stati proiettati in 35 millimetri.
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Non sapendo al momento cosa accadrà a livello istituzionale, va detto che il successo del TFF, con pubblico sempre numeroso e location affollatissime, necessiterebbe ormai di un ampliamento degli spazi e in qualche caso di strutture più consone (la sala 5 del Cinema Reposi, sede di Onde, è totalmente inadeguata per un evento di tale portata). Al contempo vige la speranza che i continui tagli al budget, e/o eventuali scelte artistiche deleterie, non finiscano per decretare l’inesorabile declino di un festival che negli ultimi 2/3 lustri ci ha donato un’infinità di memorabili ipnosi collettive (la febbre per i Masters of Horror, le strepitose retrospettive su Sion Sono e Polanski, la visione in anteprima nazionale di Holy Motors, Broken Trail, Les Bien-Aimés, La guerre est déclarée, Maniac, The Lords of Salem, L’économie du couple, solo per citare i primi luminosi ricordi che bussano alla mente). 
Nel tempo il festival ha acquisito un’identità più che consolidata; un pregio mai neanche avvicinato, tanto per fare un paragone, dalla Festa di Roma. Bisogna solo auspicare che la suddetta identità sia mantenuta ben salda e che il TFF, dalla cima del suo carattere al contempo “alto” e popolare, possa e voglia continuare anche in futuro a proporre tanto cinema di qualità. 

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Torino 34-36-37

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NOVARA INDIE FILM CONTEST – Nel nome del cinema indipendente

28/9/2019

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​Interessante appuntamento quello a cui si è potuto assistere il 26 settembre all’Araldo di Novara. Una maratona dedicata al cinema indie, con 7 ore ininterrotte di proiezioni rivolte a titoli estratti dall’edizione 2019 del Torino Underground Cine Fest, manifestazione capace di ricavarsi un ruolo al contempo ormai definito ma anche in costante crescita, utile per ammirare film di valore che ben difficilmente trovano spazio nelle pieghe contorte della distribuzione ufficiale. La giornata ha dunque assunto il ruolo di una sorta di spin off della casa madre torinese, la prima di altre costole dell’evento che avranno luogo nei prossimi mesi in città come Asti, Tortona e Savona, al fine di espandere sempre più le infinite suggestioni di un cinema poco visibile ma non per questo meno ricco di spunti e talenti.

Tanti i film proposti a Novara, tra corti e lungometraggi di provenienza in gran parte europea, con tematiche talvolta affini talaltre assai distanti, ma accomunate dal gusto per la sperimentazione e le traiettorie oblique del racconto. Una prima citazione in tal senso non può che essere rivolta a Ultra Pulpe, mediometraggio selezionato a Cannes 2018, diretto da Bertrand Mandico (conosciuto dai cinefili per Les Garçons sauvages) e interpretato da Elina Löwensohn (apprezzata ad esempio in Nadja, Un long dimanche de fiançailles, Vénus noire di Kechiche e La guerre est déclarée di Valérie Donzelli), Vimala Pons (Fidelio, l’odyssée d’Alice) e Lola Creton (Les Salauds). 
Un’opera lisergica, ambientata tra le viscere di un mondo fuori dal mondo in cui una regista (di nome Joy D’Amato!) sta completando le riprese del suo nuovo film, cercando al contempo di non far spegnere la storia d’amore che ha in corso proprio con la protagonista della pellicola. Celebrale, ipnotico, ad alto tasso erotico, deprivato di un unico senso di lettura per lasciare spazio a una molteplicità di strati e sotto-strati pregni di simbolismi, Ultra Pulpe si sviluppa tra connessioni uomo-macchina di cronenberghiana memoria, baci saffici che lasciano tracce di sangue sulle labbra e nel cuore, dialoghi surreali tra vivi e morti, rapporti carnali con la macchina da presa, approdi a pianeti in cui cercare la libertà e trovare invece paura e solitudine, tentativi di regredire allo stato primordiale per allontanare le contaminazioni del presente, trionfo dell’immagine come elemento destinato a durare in eterno in contrapposizione all’imputridimento del corpo, disperate richieste di contatto fisico con cui combattere il fallimento insito nell’illusorietà della creazione culturale. Un lavoro affascinante, dove si citano Max Ophuls, Emmanuelle e gli ultimi cannibali e Buio Omega, in una fusione tra cinema alto e (presunto) cinema di serie B, oltre la riva di una definitiva (e impossibile) verità dell’arte.

Più ancorato a strutture narrative di immediato riconoscimento invece Zauberer (Sorcerer), lungometraggio dell’austriaco Sebastian Brauneis, abile balletto corale durante il quale si dipanano storie contemporanee legate a perversioni dell’anima, storture della mente, desideri profondi e rapporti anaffettivi. Un labirinto di situazioni che iniziano per vie parallele salvo poi poco alla volta incrociarsi e ricongiungersi, permettendo ai personaggi di trovare inconsapevoli punti di contatto tra le singole mancanze.

Numerosi gli altri titoli di buon livello che meritano una sottolineatura, molti dei quali provenienti dalla Francia: Vire-Moi si tu peux, di Camille Delamarre, tenero cortometraggio in cui un capo del personale convoca un tecnico per licenziarlo ma resta rapito dalla gentilezza e dalla genuina innocenza del dipendente; Arthur Rambo, di Guillaume Levil, con un bambino che recita poesie di Rimbaud ai semafori per guadagnare qualche soldo e cerca non senza difficoltà di integrarsi con i suoi coetanei; Mon Royaume, di Guillaume Gouix, in cui tre fratelli, al grido di “on emmerde la nostalgie!”, provano ad allontanare la malinconia per chi non c’è più, salvo però sentirne ancora forte la mancanza di fronte alla bellezza di un’alba silenziosa.
Lodevoli inoltre l’olandese Dante Vs Mohamed Alì, di Marc Wagenaar, premiato nel 2019 al Torino Underground, intenso dipinto di un complesso amore omosessuale tra due ragazzi costretti a combattere uno contro l’altro, schiavi di una realtà troppo limitata e soffocante per comprendere i loro sentimenti; l’italiano Il tratto mancante, di Riccardo Roan, elegante corto sul tema della ricerca, della cecità di fronte alla parte inconoscibile di sé, di porte chiuse che forse possono finalmente aprirsi al sorriso di un sentimento; l’austriaco Up and Down, di Christopher Aaron, film d’animazione in cui un uomo si trova imprigionato in un universo in loop dove tutto si ripete ogni volta daccapo, senza alcuna plausibile via d’uscita. 

La rassegna di Novara ha proposto un panorama vario, eterogeneo, efficace nel fornire una piccola ma significativa dimostrazione di quanto il cinema indipendente sia fremente e carico di idee e coraggio; lo stesso coraggio di chi cerca di promuovere questi eventi anche in località dove la ricezione purtroppo risulta spesso a dir poco ostica.
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Appuntamento alla settima edizione del Torino Underground Cine Fest, in programma sotto la Mole a marzo 2020.

Alessio Gradogna
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Sezione di riferimento: Festival Report

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BFM 37 – Holy Boom, di Maria Lafi

15/3/2019

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​Non è semplice la vita per Ige, adolescente filippino immigrato in un paese della Grecia dove i suoi genitori gestiscono un ristorante. Integrarsi in una realtà molto diversa rispetto a quella delle sue origini è operazione complessa, la ragazza di cui è invaghito lo snobba e lo deride, molti dei compagni di scuola lo escludono perché in fondo, anche all’alba del 2018/2019, uno come lui è ancora soltanto un “muso giallo” da cui stare alla larga.
​Così, per sfogare un po’ di rabbia repressa, Ige, con la complicità degli unici due amici che ha, ogni tanto si diverte a far esplodere le cassette della posta di gente estranea. Un gesto condannabile, senz'altro, anche se il ragazzo nemmeno si immagina che quell'atto vandalico, compiuto nuovamente durante una notte di bagordi, possa essere sufficiente per cambiare radicalmente i destini di alcune persone. Ad esempio quello di Lena e Manou, che in quella cassetta avevano un pacchetto a loro indirizzato con dentro dei francobolli di LSD indispensabili per pagare il debito verso uno spacciatore; oppure quello di Adia, immigrata clandestina albanese che avrebbe dovuto ricevere il certificato di nascita del figlio; oppure ancora quello di Thalia, signora di mezza età in attesa di una lettera molto importante. Documenti e fogli bruciati, polverizzati dallo scoppio. Con conseguenze nefaste.
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Holy Boom, inserito in concorso al 37° Bergamo Film Meeting, è il lungometraggio d’esordio di Maria Lafi, nata ad Atene, già autrice di corti, spettacoli teatrali, video musicali e serie televisive. Un’opera corale che segue con il classico escamotage del montaggio parallelo i destini di personaggi assai diversi tra loro, per etnie, abitudini e sogni, ma accomunati da solitudine, esclusione e disperato bisogno di trovare un’esistenza migliore. 
Il punto focale del racconto non è tanto Ige, il giovane filippino autore del gesto che tutto smuove, quanto piuttosto Thalia, signora anziana acida e razzista che spia tutte le persone che estrano ed escono dalla palazzina in cui abita, si allontana sdegnata quanto nota un nuovo inquilino con un colore della pelle diverso dal suo, inveisce contro gli extracomunitari che le invadono il territorio invece di starsene a casa propria. In apparenza la figura della donna assume dunque stilemi piuttosto evidenti e schematici, salvo però mutare in corso d’opera la propria fisionomia comportamentale: sarà infatti proprio lei ad aiutare prima Lena e Manou e poi Adia, in parte per spirito di umanità, in parte per espiare il dolore dovuto a un trauma di tanti anni prima, mai superato.
Dalla figura a doppia valenza di Thalia si muovono le pedine dello scacchiere intessuto da Maria Lafi: una musicista greca ribelle che per amore si allontana dai genitori, una donna albanese sola che non avendo i documenti in regola non può nemmeno andare in obitorio a riconoscere il corpo del marito morto in un incidente, un ragazzo asiatico che cerca una personale e pericolosa vendetta contro le ingiustizie subite. Intorno a loro delinquenti e aguzzini, approfittatori e corruzione, violenza ed egoismi assortiti. A fare da contrappunto la sacralità solenne, le celebrazioni in chiesa a cui Thalia partecipa con fervore, la festa della Domenica delle Palme. Liturgia del rispetto e dell’amore reciproco, mentre dietro alle odi si consumano i drammi dei personaggi.

Holy Boom è un film sull’immigrazione, le difficoltà di radicamento, la povertà, sul sentirsi stranieri in terra straniera. Ma è anche, per usare la definizione della stessa regista, “un film sulla fede, non in senso religioso, ma nel senso di una profonda fiducia umana nella sopravvivenza”. Un lavoro multiforme, tanto da apparire talvolta indeciso sulla strada da seguire, tra humour nero, thriller, denuncia sociale, improvvisi squarci di lirismo, canti sacri e trascinanti sonorità vicine al metal. Eppure, anche nelle sue variazioni di forma e in un equilibrio estetico non facile da assemblare, l’opera della Lafi sa unire con brillantezza le tessere del mosaico, regalando allo spettatore un detonatore il cui sinistro ticchettio accompagna ogni minuto della visione, sino a saltare inevitabilmente in aria, come alcuni dei protagonisti.

​Non tutti, per fortuna. Perché il cielo non è soltanto nero, e almeno per qualcuno di loro si aprirà forse un piccolo orizzonte di speranza.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival

Scheda tecnica

Titolo originale: Holy Boom
Regia: Maria Lafi
Sceneggiatura: Elena Dimitrakopoulou, Maria Lafi 
Attori: Nena Menti, Luli Bitri, Anastasia Rafaella Konidi, Samuel Akinola, Spiros Ballesteros 
Fotografia: Ilias Adamis
Montaggio: Kenan Akkawi, Yorgos Paterakis
Anno: 2018
Durata: 99’

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BFM 37 – Røverdatter (My Heart Belongs To Daddy), di Sofia Haugan

14/3/2019

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​Sofia Haugan non vede suo padre da diversi anni. Lui trascorre la maggior parte del tempo in prigione. Il suo cruccio maggiore è aver perso la figlia, a causa di tanti errori peraltro mai interrotti. Un giorno i due si rincontrano: è da poco passato il compleanno di Sofia, così il padre si presenta con un regalo: un’autoradio, probabilmente rubata poche ore o pochi minuti prima.
​Sofia, giovane laureanda in regia documentaria, decide di iniziare a riprendere il padre, criminale e tossicodipendente, nel tentativo di raccontare con parole e immagini la complicata vita di lui e insieme con l’intento di scoprire se il cinema può aiutarla a trovare un riavvicinamento, a conoscere un uomo diventato in pratica un estraneo. Il primo risultato di questo esperimento è un cortometraggio intitolato A Little About My Dad. Ma Sofia capisce che la strada è solo all’inizio: c’è molto altro da mostrare, da analizzare, da capire. Così l’esperimento continua e si intensifica: la ragazza filma il padre per 6 anni consecutivi, dal 2012 al 2018, seguendone passo per passo le vicissitudini, senza rinunciare a proporre davanti alla macchina da presa anche momenti dolorosi e crudi; allo stesso tempo insegna al genitore come filmarsi da solo, in modo che lui possa riprendersi in autonomia anche quando la figlia non gli è accanto.
​Da questo doppio registro narrativo si accumulano ore di materiale, che la Haugan poi taglia e cuce per completare Røverdatter (My Heart Belongs To Daddy nella versione internazionale, anche se il titolo originale norvegese è in realtà traducibile come “figlia monella”), selezionato per la sezione Visti da vicino del 37° Bergamo Film Meeting.
​
Chi è Kjell Magne Haugan? Se lo chiede la figlia Sofia, senza poter fornire una risposta esauriente. Un uomo malato, senza dubbio. Dipendente dalle anfetamine, dalla delinquenza, dalla voglia mai doma di autodistruggersi. Un antieroe che tanti anni prima si è perso, per non ritrovarsi più. Ma anche un bambino capriccioso, un adolescente fuori tempo desideroso di remare sempre controcorrente per sfidare la società, un vecchio tenero e stanco che alterna sprazzi di energia a momenti di abbandono. Kjell Magne Haugan è tutte queste persone in una. Un cleptomane che va negli hotel a rubare asciugamani, souvenir e perfino il menù del ristorante (!). Un reietto che rifiuta un'occupazione normale e allaga o brucia gli appartamenti in cui vive. Un pazzo che balla in mutande davanti alla macchina da presa, gioca con le armi e non si fa problemi a filmarsi anche mentre si infila la siringa in vena. Un fuggitivo che scompare proprio la mattina in cui deve essere ricoverato per cominciare un percorso di riabilitazione. Un debole che fa della droga e dell’alcool amici fedeli e indispensabili. Alla stregua della compagna Trude, anche lei tossicomane. 
Eppure Kjell Magne e Trude si vogliono bene. E questo padre snaturato vuole bene anche a Sofia, a modo suo. Sofia che cerca di aiutarlo, di seguirlo, di dargli nuove possibilità, puntualmente disattese. Sofia che durante questi 6 anni spesso accantona la sua vita per dedicare gran parte delle energie al genitore, ricevendone in cambio quasi sempre delusioni. Ma c’è qualcosa, tra loro. Un fil rouge poco visibile che però si sente nell’aria, nelle occhiate complici che si scambiano, negli sprazzi di humour nero che condividono, nella perseveranza con cui inseguono con determinazione i propri obiettivi, chiari o incomprensibili che siano. 
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Il lavoro della Haugan in molti passaggi non è gradevole. Tutto il contrario. Eppure attrae, conquista, appassiona. Esiste anche un po’ di finzione scenica in qualche punto, come ammesso dalla stessa regista nell’incontro con il pubblico post-proiezione, ma c’è soprattutto tanta verità, tanto cuore, tanta rabbia. E qualche sorriso, in grado di riscaldare gli occhi e farci entrare ancora più a fondo in questa storia che magari non è nemmeno così lontana da altre storie che forse noi stessi abbiamo vissuto o stiamo vivendo. 
Sofia si copre inorridita lo sguardo mentre il padre si buca proprio davanti a lei. Sofia lo guarda ciondolare ubriaco provando un mix di angoscia e impotenza. Sofia telefona di qua e di là cercando soluzioni. Sofia gira per Oslo carica di livore, cercando il padre disgraziato che puntualmente scompare nei momenti meno opportuni perché “ha delle cose da fare” e non vuole essere di nuovo rinchiuso in gabbia. Sofia cerca spiegazioni e non ne trova, perché ogni volta che tira in ballo in passato o cerca di capire come mai si sia ridotto così, lui svia il discorso. Sofia corre e inciampa, si fa in quattro e combatte, crolla e piange, si asciuga le lacrime e riparte. Poi basta uno sguardo d’intesa, una battuta scema, un momento di pseudo intimità domestica e Sofia ride, assaporando attimi di felicità in cui recuperare, almeno in parte, gli anni di rapporto perduti. 

Lei ride. Noi con lei. Sempre più catapultati nelle pagine di un documentario davvero bello, emozionante e ricco di profondi significati. 
​
A Bergamo, dopo i titoli di coda, alla domanda di uno spettatore sulle attuali condizioni del padre, la Haugan ha raccontato di come lui e Trude da alcuni mesi siano andati a vivere in una piccola isola. Passano il loro tempo creando decorazioni. Stanno meglio, si disintossicano, non vogliono tornare nelle squallide condizioni di prima. Cercano di tenersi fuori dai guai e sono “quasi” sobri e puliti. 
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Un lieto fine? Forse. Per merito del cinema? Anche. Quindi il cinema può salvare la vita? Magari no. Ma può essere di grande aiuto. Questo è certo.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival

Scheda tecnica
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Titolo originale: Røverdatter
Anno: 2018
Regia: Sofia Aronsen Haugan
Musiche: Hanne Hukkelberg
Sceneggiatura: Sofia Aronsen Haugan
Fotografia: Magnus Tombre Bøhn
Cast: Sofia Aronsen Haugan, Kjell Magne Haugan
Durata: 86’

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IL CINEMA RITROVATO 31 - Nel tempo e nello spazio

3/7/2017

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Il Cinema Ritrovato, al 31° atto, offre ormai un programma persino troppo pieno, al punto da generare un po' di frustrazione anche nel riepilogarlo.
Come sempre ci si muove nel tempo e nello spazio. Nel tempo perché si sono visti film del 1897, di Alexandre Promio, addestratore di operatori Lumière che firma centinaia di vedute, anche dall'Africa. E cinema del 1917, anno di guerra e delle rivoluzioni in Russia: da lì, alcuni film di Evgenij Bauer.
​Poi, pescando: Fear fa incontrare il regista Robert Wiene e l'attore Conrad Veidt prima de Il gabinetto del dottor Caligari. Protagonista un uomo che ha paura, perché per avidità ha sottratto un idolo sacro da un tempio. Un sacerdote si manifesta annunciandogli la morte di lì a sette anni: che saranno di bella vita, prima della tragedia. Soggetto impegnativo, che Veidt rende con una recitazione marcata. Un film di Victor Sjöström, La ragazza della torbiera, che ha deluso un po' ma vanta almeno qualche riuscito passaggio (come quello di imbarazzo familiare alla presenza della cameriera co-protagonista, considerata una ragazza immorale) ed è curioso, nella seconda parte, il suo basarsi su un particolare di cui il protagonista si è dimenticato al pari, probabilmente, dello spettatore. Brevi film animati, più i 41' de La guerra e il sogno di Momi di Segundo de Chomón, gioiello a passo uno che sotto le spoglie di un film per ragazzi mostra la crudeltà del conflitto mondiale.
Il regista italiano omaggiato è Augusto Genina, con muti quali il dramma L'innocenza del peccato con Maria Jacobini, film con un ritmo e una capacità di agganciare alla storia narrata superiore ad altri muti italiani. E sonori come l'interessante Les amours de minuit (1931) nella versione francese co-diretta con Yves Allégret – all'inizio sembra un talkie lentissimo ma poi si rivela praticamente un noir, attentamente padroneggiato – e Maddalena nella versione francese, a colori. Il che ci porta alla sezione sul colore nel cinema, e relativi lungometraggi in Technicolor e 35mm: Rancho Notorious di Fritz Lang e tre film di Douglas Sirk tra cui Magnifica ossessione sono solo alcuni esempi.
In “Colette e il cinema”, film sceneggiati o recensiti dalla scrittrice, oppure tratti da suoi romanzi. Come Divine di Max Ophüls e la prima versione di Gigi (che lui avrebbe dovuto girare). Il film sfoggia qualche motto di spirito colettiano, ma ci sarebbe voluto forse più umorismo e personaggi, come quello dello spasimante della protagonista, più a fuoco.
Tra le cose viste in Piazza Maggiore spicca il prologo de La roue di Abel Gance: 25 minuti che catturano, tra un drammatico incidente ferroviario e più leggere immagini di felicità familiare, in un montaggio rapido con molteplici effetti di colorazione. È l'assaggio del restauro di un'opera monstre, che si vedrà tra un paio d'anni. Seguiva La corazzata Potemkin con partitura originale eseguita dal vivo: chi scrive l'ha persa, ma chi c'era dice di una proiezione semplicemente esaltante. Poi The Patsy, con una vivace Marion Davies diretta da King Vidor. Tre serate di proiezioni con lanterna a carbone nella piazzetta Pasolini: Innocence-Little Veronika di Robert Land valorizza con la regia una storia parzialmente banale, quella di una fanciulla ingenua che va ad abitare con la zia maîtresse e cade tra le braccia di un seduttore.
Continua il progetto Buster Keaton, che oltre a corti e lunghi – come Io e il ciclone – ha proposto un programma di apparizioni tv, difficilissimo da organizzare per l'ottenimento dei materiali e frutto di un ridimensionamento. Spicca The Awakening (1954), episodio di una serie antologica. Storia distopica e rivoluzionaria ispirata a Il cappotto di Gogol', è un breve lavoro compiuto in cui Keaton interpreta un ruolo serio.
Nei documentari: l'ultimissimo lavoro di Rossellini, Beaubourg – del 1977, sull'inaugurazione del Centre Pompidou – , Becoming Cary Grant e (ancora in progress) Nice Girls Don't Stay for Breakfast su Robert Mitchum. Dell'attore omaggiato dall'immagine ufficiale di questa edizione si sono visti tra gli altri l'imprescindibile Le catene della colpa e il piccolo cult noir Gli amici di Eddie Coyle.
Viaggio nel tempo, si diceva, e nello spazio: torniamo alle cinematografie lontane. Per il cinema messicano dell'epoca “d'oro” (ma si spazia tra 1933 e 1960), film sulla rivoluzione nel paese come La sombra del caudillo di Julio Bracho, a lungo censurato. Dall'Iran, Samuel Khachikan, regista rimosso di cinema di genere negli anni '50 e '60, il thriller Strike tra i suoi titoli più apprezzati. E, ovviamente, una sezione giapponese. In una selezione di jidai-geki e drammi della seconda metà degli anni '30 spicca Umanità e palloni di carta, noto per essere uno dei pochissimi sopravvissuti di Sadao Yamanaka.
Usa: cinema degli anni '30 sia nella seconda parte dell'omaggio alla Paramount guidata da Carl Laemmle jr. sia nel focus su William K. Howard. Nella prima sezione si è visto E adesso, pover'uomo? di Frank Borzage: sfortune e ripartenze di una coppia positiva, nella poetica del regista. Di Borzage, in altra sezione, pure Secrets, muto con Norma Talmadge un poco deludente, curioso per il succedersi di toni ma anche di generi (c'è una parte western, con violento assedio), però lento e serioso. Howard è un regista relativamente sfortunato, noto soprattutto per Il potere e la gloria con Spencer Tracy che anticipa Quarto potere. L'uso di set interconnessi e uno stile fotografico con “geometrie di ombre e audaci effetti in controluce” sono citati dal catalogo tra i suoi segni stilistici, e li si ritrova anche in un film che intrattiene come Transatlantico, tra commedia corale e thrilling, aperto da movimenti di macchina che si fanno notare.
“Cauto sognatore: la malinconia sovversiva di Helmut Käutner” ha presentato otto film di un regista tedesco che definire eclettico pare banale (ma pertinente), tra Under the Bridges, girato tra le distruzioni del dopoguerra e Mad Emperor: Ludwig II; mentre A Glass of Water (1960), commedia a colori bagnata di musical, è molto interessante per l'antinaturalismo del set – gli ambienti di una corte – ma completamente autoreferenziale.
Nella macro-sezione “Ritrovati e restaurati” di tutto, da Giungla d'asfalto a Blow-Up, ma da citare due chicche italiane: “il primo grande film sul motociclismo” (almeno nostrano e secondo la stampa d'epoca), I fidanzati della morte di Romolo Marcellini (1956), e Romano Scavolini che ha presentato la versione pre-censura del suo sperimentale A mosca cieca – che Zomia Cinema ha intenzione di far circolare prossimamente – .
Infine il lavoro sulla scarna filmografia di Jean Vigo, con L'Atalante restaurato dalla copia originale, con altro materiale proiettato a parte, e Zero in condotta dalla copia della Cineteca Italiana, leggermente più lunga e “integrale” della versione vista in seguito.

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Festival Reportage

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BIOGRAFILM 13 - Fame, di Angelo Milano e Giacomo Abbruzzese

20/6/2017

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​Ogni cosa deve avere una fine, anche quando si leva un mormorio circostante. Lieve disapprovazione, speranza di ricominciare, attesa.
Fame racconta di un progetto nato quasi per caso, quello dei primi passi per un Festival irriverente e rivoluzionario. È lo stesso Abbruzzese a parlarne nella sala del cinema Europa, con la rassegnata consapevolezza di chi ha vissuto Fame senza sottrarsi alla tempesta: quel momento elettrico di vernice, proteste e libertà di espressione è finito e non è destinato a tornare.
Ogni cosa deve avere una fine ma, se al suo posto rimane un segno indelebile, la missione può dirsi compiuta.

Muri bianchi, vicoli, un bar che sembra incastonato in un tempo immobile, la piazzetta polverosa del quartiere, qualche trattore che sfreccia per strada e le cassette di uva in vendita sotto gli occhi dei passanti. Un’aria d’oro, di luce calda, un quartiere polveroso che sembra sonnecchiare da secoli fra tetti e campanili, poi occhi scuri capaci di silenzi lunghissimi: il barbiere, il sindaco, l’artigiano, istantanee di umanità che ogni giorno respira quest’aria occupando un piccolo, solido spazio nel mondo. Sempre lo stesso.
È il quartiere della Ceramica di Grottaglie (Ta), cittadina dove Angelo Milano è cresciuto facendo i conti con la noia. Quella noia che un po’ uccide e un po’ condanna, talvolta protegge. La noia che gli ha lasciato poca, pochissima scelta: avrebbe potuto cullarsi in quei pomeriggi pigri e rassicuranti e invece ha deciso di metterli a ferro e fuoco, distruggerli, azzannarli, farli scintillare.
Boati, caos, scherzi estremi, imprese epiche: non c’è limite alla vibrante genialità di questo ragazzo, tenero e terribile domatore di leoni in un frammento di mondo che tutto avrebbe previsto tranne una rivoluzione. Angelo ha fame. E così i pianoforti volano giù dalle finestre per lanciare in aria il tonfo severo di una musica che musica non è, ma silenzio spezzato.
Sembra l’incipit di un romanzo punk rurale dove “le persone hanno tempi di reazione lunghissimi” e una sola cellula impazzita riesce a invertire le regole. A separare e unire. A indignare e rendere orgogliosi. A dispensare calci e carezze.
Lo fa con Fame, nell’arco di cinque splendidi e faticosi anni (dal 2008 al 2012) che Grottaglie non dimenticherà facilmente.
Dal porto sicuro del suo studio di serigrafia “alla cazzo” Angelo sogna muri parlanti per la città che dorme, avvia una collaborazione e un’amicizia con Ericailcane, crea una prima edizione del festival rigorosamente senza permessi. Invita artisti in numero via via crescente, writers nazionali e internazionali che amano quell’assenza di rigida organizzazione, quella voglia di montare ponteggi all’ultimo per cambiare faccia ai palazzi senza aver chiesto l’autorizzazione. Quando un gallo – simbolo del quartiere delle ceramiche – compare sulla facciata di un palazzo, il Comune interviene per farlo coprire.
Il pretesto giusto per dipingere un corteo di galline che piangono, sospirano, parlottano lungo il muro: è il funerale del gallo.
Fra i campi di grano dove si spalanca l’occhio di corvi dipinti e un vecchio monastero bisognoso di un cambio d’abito, ha inizio la vera avventura. Sono rincorse psichedeliche di disegni sui muri, evoluzioni, racconti visivi perfetti, accuse e desideri. Ed è tutto alla luce del sole, sotto gli occhi di una cittadina che non impiega molto a riconoscere il valore di quella operazione. Perché Grottaglie, poco alla volta, respira di nuovo e si innamora della ventata a colori. Perché ognuno merita un disegno sul proprio palazzo e lo chiede a gran voce. Perché quello non è vandalismo, è un dono bizzarro, è la novità.
Così il piccolo popolo dei personaggi di vernice fa amicizia con il piccolo popolo che fino a un attimo prima aspettava le sagre stagionali con moderato entusiasmo.
Sullo sfondo c’è un’amministrazione comunale – e un settore cultura – più interessato a quelle sagre, ai presepi, agli spettacoli di personaggi televisivi minori. Nessuno può aiutare Angelo a muovere montagne di creatività.
A parte Gilda, la mamma.
Con il grembiule, sorridente ed emozionata, ai fornelli per accogliere gli artisti che suo figlio convoca da ogni parte del mondo. E così felice nell’avere finalmente una possibilità: imparare l’inglese parlando con quei ragazzi, respirare la loro stessa fame, collaborare. Anche quando questo significa guidare un’auto che trasporta una curiosa statua sul tettuccio.
Così Fame vive le sue stagioni. Rivolta primitiva, arte estetica grezza e sensuale, arte pubblica scomoda. Diventa persino insulto obbrobrioso, rituale del disturbo. Ma anche quando il panico è tracciato dallo spray nero nella speranza di indignare, i grottagliesi non si indignano. Ormai hanno fame, vedono arte attorno, tengono stretto il loro strano fiore all’occhiello. Quando il Festival è pronto per spiccare il volo, la grande macchina della creatività si arresta.
Per Angelo, Fame muore prima di diventare un lavoro. In linea con il suo pensiero nobile, umile, squisitamente visionario, donchisciottesco.
Cala il sipario sull’avventura più multiforme e variopinta che un gruppo di ragazzi abbia mai saputo immaginare e restano interrogativi, inclusi quelli del pubblico in sala.
Tornerà in futuro?
Ci sarà una seconda volta?
È davvero finita così?
Chi lascia la sala, dopo la visione di questo breve film, avverte uno strano senso di speranza nel futuro.
E a chi conosce quei luoghi e li vive, resta il meraviglioso regalo di un ricordo a colori che le intemperie scalfiscono e il cuore trattiene.
Con rabbia.
Con fame.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Festival Reportage


Scheda tecnica 

Regia: Giacomo Abbruzzese, Angelo Milano
Anno: 2017
Durata: 57'

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BIOGRAFILM 13 - Io danzerò (La Danseuse), di Stéphanie Di Giusto

14/6/2017

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​La folla che domenica sera si è riversata davanti al cinema Europa era animata da un unico desiderio: vedere Lei, Soko, la danseuse che Stéphanie Di Giusto ha portato sullo schermo, e poter carpire i contorni dell’immagine vaporosa e leggiadra che campeggia sui manifesti di questa tredicesima edizione del Biografilm Festival. Pur essendo la quarta proiezione del film, premiato per i costumi agli ultimi César e in uscita nelle sale italiane con il titolo Io Danzerò, la coda all’ingresso ha riconfermato un interesse sfrenato verso questo lavoro.
​Tutti vogliono vedere la danzatrice, è la presenza evanescente che strizza l’occhio dal trailer del festival e dalle locandine: una protagonista silenziosa e tutta piena di mistero.

Mary - Louise Fuller, un nome che a molti non dirà nulla. Gli amanti della danza forse la conoscono, qualcuno ha digitato il suo nome su YouTube trovando qualche spezzone di filmato, ma è la regista, presente in sala, a fare chiarezza su questo punto: le ballerine filmate che sono arrivate a noi oggi, sono imitatrici. La verità è che la Fuller ha saputo dare una scossa al periodo storico in cui è vissuta, ma è scomparsa senza lasciare traccia. Quindi la Di Giusto ci prepara a una visione che assume i contorni di performance a tutto tondo: Soko, l’attrice che veste i panni della Fuller sullo schermo, è risalita alla sua particolare danza studiando il materiale reperibile. Come tale tutto ciò che stiamo per vedere è una finzione pericolosamente vicina alla realtà, una biografia postuma fatta di fiato, sudore e sforzo fisico.
Sin dalle prime scene veniamo aggrediti da un film che si annuncia intenso, feroce, polveroso e bestiale. La Fuller trascorre l’infanzia nel cuore di un bosco con il padre, ubriacone sempre pronto a capitare al centro di qualche rissa, unico vero amico per questa ragazza silenziosa e ruvida nei modi. Ha una cascata di capelli arruffati e un viso dalle espressioni schive, appare come un animale selvaggio e perennemente sulla difensiva. Si ha l’impressione di respirare la foschia del bosco, si annega nella miseria degli interni, ci si affeziona presto a questa ragazzina che legge versi a voce alta mentre là fuori suo padre viene crivellato dalle pallottole per un pareggiamento di conti. 
Una vita che parte in salita e porta Mary - Louise a rifugiarsi nella Brooklyn del 1892, armata solo di un borsone e del cappello consunto di papà: approda così controvoglia alla residenza della madre che non vede da anni, sede del Movimento della Temperanza. In quell’ambiente claustrofobico e bigotto, la ragazza privata della fluente chioma a colpi di forbice inizia a guardarsi attorno, sperando di ottenere una piccola parte in uno spettacolo. 
Pare che il suo destino sia segnato, ogni volta viene ingaggiata come comparsa ed è forse durante uno di quei mediocri spettacoli di vaudeville che ha inizio la vera favola della farfalla: viene costretta a indossare una gonna troppo ampia e, una volta sul palco, l’abito si affloscia scivolando ai suoi piedi e scatenando risa di scherno. Mary - Louise, con un guizzo imprevedibile di genialità, decide allora di sollevare quella lunga sottana e girare su se stessa. L’esperimento piace. I movimenti del tessuto distraggono il pubblico, un bambino seduto in sala esclama “è una farfalla!”.
È l’inizio di un mito che non troverà in America lo spazio che merita, ma darà uno scossone violento alla Parigi del primo Novecento. E occorre un nuove nome, Loïe.

Abbiamo dunque la possibilità di addentrarci fra i pensieri di una ballerina che non ha mai studiato danza, ma ha talento visionario e uno spiccato senso della pianificazione: Loïe traccia i suoi schizzi su un album da disegno e punta sicura all’Opéra di Parigi, soppesa i suoi veli di tessuto vibrante, crea una vera e propria macchina spettacolare sul proprio corpo. 
Aiutata da bacchette di bambù si assicura le suggestioni di un’autentica apertura alare, chiede ai teatri di provvederla di proiettori per essere attraversata da luce colorata mentre intrattiene le platee piroettando fra le spirali di stoffa bianca. Smette così di essere donna e si consacra a farfalla, dea dei fiori e della luce, uccello selvaggio. Le sue braccia diventano grosse e muscolose, il suo corpo esile, da bambina, viene plasmato da un sacrificio estremo e appassionato. I giornali iniziano a parlare di “poema animato di fiori” mentre Loïe stringe amicizia con Louis (Gaspard Ulliel), nobile decaduto avvezzo a fare uso di etere: resterà al suo fianco, sfiorerà con timore le sue ali di farfalla, nutrirà un sentimento non corrisposto e la seguirà in un’avventura deliziosa, tragica, folle.
In breve Loïe mette in piedi la sua scuola di danza. Magnifiche le sequenze girate nel parco della villa di Louis, dove un gruppo di danzatrici vestite di veli bianchi allenano il corpo a ritrovare contatto con la leggerezza e la natura, rompendo gli schemi ferrei della danza classica. A guidarle è proprio lei, la ballerina venuta dal nulla, il fenomeno iridescente che tutta la Francia acclama a gran voce, la musa di artisti come Tolouse – Lautrec, l’icona dell’Art Nouveau.
Ma se il successo bussa alla porta, con l’ambito interessamento da parte dell’Opéra di Parigi, la tragedia si avvicina a grandi passi. Ben presto questa divina incarnazione di leggerezza incassa i colpi della sua arte pericolosa: il fisico debilitato la costringe a immergere spesso le braccia nel ghiaccio e le retine vengono bruciate dalle forti luci dei proiettori. Sappiamo, da ricerche successive, che il radium utilizzato per luci colorate stava intossicando la ballerina che sarebbe morta a causa di un cancro, anni dopo.
Soko è trasfigurata, la vediamo sempre più pallida, costretta a indossare occhiali scuri, incurvata dal dolore. Frattanto, alla scuola di danza, arriva Isadora Duncan (Lily-Rose Depp, figlia di Johnny Depp e Vanessa Paradis), la cui fama ottenebrerà quella di Loïe sullo schermo come nella realtà storica dei fatti. Per Loïe, dichiaratamente lesbica, Isadora è il colpo di grazia: un amore non ricambiato appieno, un flirt mosso solo dalla sete di successo della giovane allieva. 
La Duncan viene dipinta come un’arrivista della peggior sorta: da sua affezionata studiosa non mi sono trovata pienamente d’accordo con questo affresco di lei, ma passa ugualmente in secondo piano davanti alla vicenda umana della Fuller. Perché per quanto sarà la Duncan a spiccare realmente il volo nel mondo della danza, alla donna – farfalla rimane il compito di raccontare un percorso umano ricco, doloroso, disperato. 
Tutta l’attenzione è per Loïe. Questo film invita quasi a fermarsi un istante nella stanza con lei, a guardarla, a comprendere il suo dramma. Si scende in una voragine fatta di velo impalpabile e colorato, di bacchette, pesi, corde, di sentimenti repressi e cuori spezzati, di talenti in declino.
“Senza il mio abito non sono niente” confessa Loïe a Louis addormentandosi sul suo petto. La danseuse è il film che ora può finalmente contraddirla.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Festival Reportage


Scheda tecnica

Regia: Stéphanie Di Giusto
Sceneggiatura: Stéphanie Di Giusto, Thomas Bidegain, Sarah Thiebaud
Attori: Soko, Gaspard Ulliel, Mélanie Thierry, Lily-Rose Depp, François Damiens
Fotografia: Benoît Debie
Montaggio: Géraldine Mangenot
Anno: 2016
Durata: 108'
Uscita italiana: 15 giugno 2017

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BIOGRAFILM 13 - Tokyo Idols, di Kyoko Miyake

13/6/2017

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Il Biografilm ha ospitato il 10 giugno l’anteprima italiana di Tokyo Idols di Kyoko Miyake per Rivoluzione Digitale - The Millennials, sezione che questa tredicesima edizione del Festival vuole dedicare ai fenomeni di larga diffusione fra i giovanissimi in rapporto alla rete.
Si ripete l’incantesimo delle precedenti edizioni, quando film quali Love Hotel o Inside the Chinese Closet hanno risvegliato in platea uno stupore di taglio tutto occidentale. Quella “pericolosa meraviglia” con l’amaro sul fondo: l’inevitabile distanza fra culture, un diverso approccio morale e l’immancabile quesito. “Un fenomeno di questa portata potrebbe mai verificarsi qui da noi?”.

In Giappone ci sono ormai diecimila adolescenti – tutte corrispondenti al canone di giovane bellezza orientale – concentrate sul lavoro nonostante la tenera età. Un lavoro che si fa su scarpette dal tacco vertiginoso, strizzate in abitini scenografici, truccate come dive in miniatura e scatenate come cartoni animati in carne e ossa. Sono le idols e non è possibile definirle cosplayer perché il loro obiettivo è differente: sono piccoli monumenti alla purezza, alla verginità, alla freschezza acerba. Fatine con gli occhi a mandorla, cantanti pop in erba, voce acuta e sorriso plastico, gridolini, saltelli, coreografie studiate nelle proprie camerette e poi regalate al grande pubblico. Canzoni che diventano consolatorie diffondendo messaggi di libertà, amicizia, allegria, in un clima di magia e leggerezza più adatto a un videogioco che alla vita vera.
Se questo fenomeno prendesse piede in Italia – e l’associazione mentale sorge spontanea – probabilmente il pubblico si comporrebbe di adolescenti come le stesse idols. Non troveremmo niente di sbagliato nell’accompagnare nostro figlio di undici o dodici anni al concerto di una di queste nipponiche star che mandano baci dal palco atteggiandosi come anime. Complice questo ragionamento, la rivelazione di quello che è il pubblico giapponese delle girl band in questione suscita un certo scalpore.
Sono uomini adulti, in alcuni casi addirittura anziani. Persone che hanno perso tutto e vivono ormai ai margini della società: dopo amori falliti e delusioni quotidiane, hanno rinunciato a lavori stipendiati per seguire queste bamboline perfette concerto dopo concerto. Per sostenerle nelle loro acerbe carriere, hanno deciso di fare donazioni in denaro che in molti casi li hanno portati pressoché sul lastrico. Progressivamente sono stati allontanati dalle famiglie e per i più ossessivi fra loro è stato coniato il termine Otaku. 
Un Otaku è un uomo che vive in solitudine nel santuario dei memorabilia delle idols, spendendo tutto il suo tempo nella ricerca di nuove informazioni o fotografie della sua preferita e seguendola senza tregua durante la tournée: noi lo definiremmo stalker, ma in Giappone è solo un fan scatenato e anche quando qualcuno storce il naso di fronte a tale dinamica, subito le idols provvedono a confortare i loro Otaku con le canzoni. Inni all’amicizia sfrenata, cori incitanti da tifoseria e il messaggio “Viva gli Otaku perché non sono persone noiose”, una sorta di ricompensa morale per i discussi fans. Ai nostri occhi, purtroppo, il confine fra ossessione e pedofilia appare labile.
È così che un movimento musicale giovanile diventa a tutti gli effetti una studiata manovra di marketing e una fabbrica dell’autostima maschile: se compri un cd, potrai scattarti una foto con la tua preferita. Se scrivi alla tua idol, lei ti manderà un biglietto con parole gentili. Lei è tua amica e tu la stai aiutando a realizzare il suo sogno musicale, proprio tu che non hai realizzato alcun sogno finora. E poi ci sono i momenti dedicati alla stretta di mano, forse i più eccitanti dell’intera avventura Tokyo Idols.
Come spiega una sociologa, la stretta di mano è una conquista storica recente nella cultura giapponese ed è percepito come un gesto dai profondi significati sessuali. Le idols permettono ai loro fan di toccarle solo in base a determinate regole. Vengono organizzati eventi per la stretta di mano dove il codazzo di ammiratori è convogliato al cospetto delle piccole divinità ed è possibile stringere le mani delle baby cantanti per pochi (cronometrati) secondi. Una piccolezza, ai nostri occhi, che ha un impatto devastante sulla psicologia di un popolo cresciuto nella repressione delle effusioni pubbliche: sullo schermo infatti compaiono uomini più o meno giovani incapaci di staccarsi dalla manina del loro idolo, allontanati con la forza, in stato di evidente turbamento sessuale. E le idols?
Sorridono generose davanti alla schiera di benefattori, dicono di non essere infastidite dalle attenzioni di uomini adulti - definiti “carini e gentili” - e lavorano con ritmi serrati fra concerti, concorsi e video su YouTube prima di giungere alla fine della carriera. Fissata, solitamente, fra i 17 e i 22 anni.
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“Le idols hanno una data di scadenza”, è questa la terribile frase che fa da sfondo a un lavoro documentario sgargiante, rumoroso, esagerato eppure pieno di ombre, pause e silenzi. E così affiorano le piccole vite di Amu, Rio, Ryoko, Yuka e le altre. Hanno dai 14 ai 22 anni, le loro famiglie si sono abituate all’idea di avere una idol in casa. Queste ragazzine sorridono, incassano, pianificano un futuro diverso, più serio e professionale, vorrebbero doppiare film e diventare cantanti famose. Nel frattempo inforcano la bici per raggiungere i paesi limitrofi e farsi conoscere, da piccole manager di se stesse, firmando autografi e concedendo scatti.
“Con il tasso di natalità che abbiamo le idols andrebbero proibite” ironizza un antropologo, mentre la fabbrica delle bamboline continua a crescere e – secondo alcuni – emerge la figura di una donna umiliata. “I giapponesi non hanno autostima” viene spiegato. Dopo il boom economico degli anni novanta e il successivo crollo, hanno dovuto ricostruirsi. Il mondo del lavoro li ha fagocitati, i rigidi formalismi sono diventati sempre più soffocanti e ben presto alcuni uomini hanno imparato a vivere una quotidiana depressione. Chi è rimasto indietro – chi non ha formato una famiglia o trovato un buon posto di lavoro – è diventato sgradito agli occhi della società. 
Come tale, le idols offrono a uomini adulti la possibilità di coltivare un amore casto e platonico con una donna che donna non è. Questi uomini non potrebbero mai pensare di avere a che fare con una donna vera, loro coetanea, nel mondo che li circonda: specie in una realtà popolata da donne determinate, il cui ruolo anche negli ambienti di lavoro è diventato sempre più fondamentale. Ecco allora che le idols rispolverano l’ideale perfetto di donna giapponese: casta, pura, innocente e quindi percepita come arrendevole, dolce e innocua. Una donna che ti consola e sorride, che si approccia a te con parole semplici e cerimoniose, che mai cercherà di dominarti ma si metterà al servizio della tua serenità.
Una donna che non a caso “donna” non è affatto.
Ma bambina, vestita in modo provocante, mentre le banconote fioccano nella cassetta delle donazioni.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Festival Reportage


Scheda tecnica

Anno: 2017
Regia: Kyoko Miyake
Durata: 88'
Sceneggiatura:    Kyoko Miyake
Fotografia: Van Royko
Montaggio: Anna Price
Musiche: David Drury

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BIOGRAFILM 13 - Bagnini e bagnanti, di Fabio Paleari

11/6/2017

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​Questo primo film in concorso per Biografilm Italia nasce sotto una buona stella: quella spiritosa e fuori dalle righe del suo regista Fabio Paleari, pronto a raccontare al pubblico l’avventura vissuta assieme al produttore Luca Legnani. In un momento di depressione lavorativa – “e tutti e due senza la fidanzata in previsione dell’estate” - la coppia di amici decide di girare l’Italia su una Punto nera a gas, armati di una sola macchina da presa. 
L’obiettivo è partire dalla Liguria per visitare le spiagge di Romagna, Toscana e Lazio facendo una precisa richiesta al popolo della spiaggia: “Vogliamo parlare con i bagnini, quelli veri, quelli di una volta, quelli che hanno avuto più donne in assoluto”. È esattamente ciò che fanno, sicuri di aver immortalato una carrellata di fenomeni da riscoprire. In realtà ciò che restituiscono è uno spaccato antropologico accurato, decisamente forte, molto lontano dalle loro previsioni iniziali.

Spesso sono orgogliosi spettri di una bellezza appassita, ancora gonfi di una virilità che a stento resiste ai morsi del tempo. Fanno pensare ai Vitelloni, alle cartoline sbiadite, al cocco fresco e ai tormentoni estivi che facevano vibrare la pancia delle radioline. Sono i bagnini italiani.
Come afferma Ugo Amato, psichiatra e voce narrante del film, “bagnino” ha quasi un suono dispregiativo rispetto a “bagno”. La stessa figura del bagnino nostrano è lontana anni luce dalle mitizzazioni americane alla Baywatch; quel Salvataggio scritto sulle canottiere fa pensare soltanto a qualche tuffo d’emergenza. Perché il bagnino, in Italia, è l’uomo con i muscoli ben in vista e la pelle color carbone che strizza l’occhio alle turiste: così risponde l’immaginario collettivo quando di “bagnino” si parla.
È una conferma per molti, specie per i turisti fissi che ogni anno tornano all’arenile e trovano un vecchio amico, un padrone di casa che ricorda di averti già visto e si accerta che tu possa passare le vacanze in tutta comodità. Ma per tanti – o forse è il caso di dire tante – il bagnino incarna  quell’ideale di “uomo da spiaggia” energico e cerimonioso, capace di grandi passioni consumate fra cabine e notti stellate, generoso di lusinghe. Per una settimana, almeno.
Sono proprio loro a raccontarsi, giovani e meno giovani, dalla Liguria al Lazio, custodi della spiaggia e di tanti segreti pruriginosi: l’uomo che emerge da questo ironico e dissacrante affresco di umanità è un “super maschio” sicuro della propria avvenenza (anche quando il tempo non è stato affatto clemente) eppure eternamente irrisolto in quello stile di vita così distante dalla banale routine. 
Fra tedesche, svedesi, norvegesi e austriache – tutte doverosamente collocate nella scala di valutazione da questi irriducibili cacciatori stagionali – le italiane si rivelano le conquiste più difficili. “Si portano dietro mamma e papà, hanno il coprifuoco e sono meno indipendenti. E poi vogliono le relazioni serie”. Sono definizioni semplici (e piuttosto datate) per uomini ancora più semplici e ci riportano al passato balneare che rivive ancora in qualche vecchia fotografia o negli spezzoni di filmati anni 70 – 80 che talvolta appaiono sullo schermo. 
Non si riesce a sentirsi realmente offese da certe valutazioni – per quanto offensive potrebbero sembrare –, si finisce per sorridere davanti a questi uomini nostalgici e un po’ anacronistici, di certo strampalati, che nella maggioranza dei casi hanno passato estati da leoni collezionando prede. Restando tuttavia vittime di dubbi sull’amore e le scelte importanti, congelati in quell’istantanea di baldoria e leggerezza che è propria della spiaggia e dell’estate, della gioventù. Una condizione pericolosamente deperibile.
Eppure nulla sembra deteriorare il ruggente spirito di questi uomini di mare che mettono in mostra le piume ogni anno per dare alla donna “ciò che non trova altrove” (o ciò che il marito non le procura), dedicandole attenzioni rare o arrivando dritti al punto, sempre sghignazzando all’idea di quel treno del venerdì. Il leggendario treno che porta i mariti alla spiaggia, meglio conosciuto nell’ambiente come “il treno dei cornuti”.
Eccessivo, ridanciano, spietato, a volte imprevedibilmente tenero, Bagnini e Bagnanti può addirittura sembrare “una curiosa ode alla donna” che nel suo essere perennemente cercata, conquistata e soddisfatta sessualmente diventa vero fulcro della vita di questi uomini dai muscoli non più così tonici. La donna come meta, come obiettivo, come priorità assoluta. Per qualche giorno, s’intende. Per regalare l’illusione di un amore che amore non sarà mai o almeno il ricordo di un’estate divertente.
Forse l’indignazione femminile riemerge quando alcuni di loro, alla domanda “Cosa vi hanno insegnato tutte queste donne?”, rispondono senza troppi indugi “Niente”.
Probabilmente un giudizio un po’ duro per la platea femminile presente in sala, ma alla fine è la comicità quasi involontaria di questi personaggi a pareggiare i conti, in un film che ha assicurato una cascata di risate scroscianti per tutta la sua durata, divertendo anche le signore presenti alla proiezione nonostante il demone del maschilismo, sempre lì nell’angolo, a sghignazzare.
D’altronde sono bagnini.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Festival Reportage


Scheda tecnica

Regia: Fabio Paleari
Sceneggiatura: Luca Legnani, Fabio Paleari
Montaggio: Maria Fantastica Valmori
Anno: 2017
Durata: 75'

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BIOGRAFILM 13 - All this panic, di Jenny Gage

10/6/2017

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La tredicesima edizione del Biografilm Festival apre i battenti e fra le proposte del 9 giugno c’è anche un lavoro toccante, lieve e al contempo profondo, riguardante il mondo degli adolescenti. Stupore davanti alla risposta del pubblico che “nonostante sia venerdì pomeriggio” e “nonostante il tema trattato possa sembrare spinoso” si presenta in sala per una partenza puntuale, introdotta dalle parole di Maria Chiara Risoldi, psicanalista e presidentessa della Casa delle Donne. 
La Risoldi definisce questo lavoro di Jenny Gage “affettuoso, curioso e rispettoso”, fotografa questa “epoca delle passioni tristi” (citando il testo di Benasayag e Schmidt) e regala al pubblico un pensiero di Pennac: “I bambini sono dei poeti, gli adolescenti sono dei moralisti e gli adulti sono dei contabili”. Con l’eco tenero di queste parole nelle orecchie, le luci si spengono lasciando spazio a All this panic, alle sue figlie vivaci, ai suoi genitori quasi invisibili.

Una festa alla quale siamo stati invitati.
A organizzarla sono alcune ragazze di Brooklyn, adolescenti imprigionate in corpi un po’ bambini, che compaiono riluttanti sul trampolino della vita eppure stanno per tuffarsi. La macchina da presa le segue per tre anni, fra spiagge deserte e metropolitane, piccoli giardini condominiali, taxi, scuole e concerti all’aperto.
Impareremo a conoscerle in 79 minuti che diventano diario di una transizione. Tecnica ed estetica sono quelle del documentario, ma la regista rivela un tocco magico nel selezionare i giusti momenti di un percorso che le ha fornito un’ingente quantità di materiale.
Conosceremo Lena, con il suo apparecchio dentale, l’aspetto mascolino e un fascino segreto che il tempo plasmerà con calma e cura. Ginger, spregiudicata e smarrita, con i capelli che cambiano spesso colore e il sogno di diventare attrice che stenta a decollare fra un party e l’altro. Sua sorella minore Dusty, florida bellezza americana, timida e riservata. Sage, afroamericana con una cascata di treccine e lo sguardo sfuggente di chi sta crescendo troppo in fretta. Delia, con le lentiggini e la bocca sempre pronta a snocciolare qualche pettegolezzo della scuola. Olivia, che non è sicura di essere innamorata del ragazzo che frequenta. Ivy, esagerata e ingorda di esperienze da adulta.
Ognuna di queste ragazze dovrà prendere una decisione, nel corso di tre anni condensati in 79 minuti: presentarsi al mondo a testa alta scegliendo la propria identità di donna, lasciare che l’adolescenza così ferocemente difesa - “Invecchiare è la cosa più spaventosa del mondo” afferma Ginger mentre si trucca allo specchio – scivoli via di dosso quasi impercettibilmente per lasciare spazio a orizzonti più vasti e problemi di colpo molto più gravi.
Leader narrante di questo gruppo diventa inevitabilmente Lena, piovuta quasi per errore in una famiglia troppo fragile per darle sostegno: la mamma in continua ricerca di casa e occupazione, il papà sull’orlo del suicidio, il fratello Nathan autolesionista e affetto da disturbi psichiatrici. 
“Molte cose in questa casa non funzionano” dice Lena durante una visita presso il padre, quando una porta a vetri si smonta all’improvviso fra le sue mani. Sullo sfondo c’è il Servizio di Tutela dei Minori americano, presenza impalpabile che giudica i genitori “negligenti” spingendoli a una guerra di colpevolizzazioni reciproche. Eppure Lena, fra i turni “da papà – da mamma” e le tragiche notizie ospedaliere del fratello Nathan, vuole organizzare una festa e baciare il ragazzo sul quale ha messo gli occhi da un po’: “Ho pensato che se io mi ubriaco e lui si ubriaca, posso dirgli che mi piace”. E sono festicciole semplici, quelle del piccolo gruppo di amiche, con l’alcol che scorre senza permesso e qualche droga da provare per poi ritrovarsi al mattino, come pulcini dalle piume arruffate, a guardare in camera dicendo “Alla fine ho baciato un altro ragazzo. Non so, doveva essere diverso, doveva essere l’altro. Il bacio è una di quelle cose che immagini perfette e alla fine non lo sono”. 
L’amore, come il sesso, sono le implacabili correnti alle quali i corpi di queste ragazze americane si ritrovano esposti all’improvviso in un risveglio di sensi e pensieri imprevisto, di difficile gestione: “detesto perdere la verginità perché incasina tutto”, “ho capito di essere lesbica e con questa cosa farò i conti per il resto della mia vita. Forse un giorno mi renderà felice”, “io vorrei essere madre perché mi piace l’idea di fare persone”. Sono come pagine di diario scartabellate da un vento impetuoso, confessioni che affiorano nelle magnifiche immagini dei pomeriggi fra amiche, qualche bisticcio, le passeggiate, le boccacce e le corse sulle sabbia, i corpi che non si arrendono al tempo e vorrebbero restare un po’ bambini, il mondo che detta nuove regole, i capelli che crescono e gli occhi che diventano di colpo più quieti, più seri.
La scelta dell’università pone tutte di fronte ai propri spettri personali. “Non vedo l’ora che la vita ti dia un bel treno sui denti!” dice l’autoritaria mamma single di Sage gesticolando in salotto. “Mia mamma è così perché è black, è diversa” spiega quella figlia che non ha il permesso di stare fuori dopo la mezzanotte. E poi, con tutta la sua delicatezza, racconta la morte del papà mentre strappa le erbacce dal giardino che lui amava tanto e indica l’albero di corniolo rosso piantato da lui, albero che è cresciuto a dismisura dopo quel lutto. Cresciuto come una figlia afroamericana determinata a combattere per i diritti delle donne, pronta a scegliersi il proprio futuro e a frequentare un’università che permetta a un’afroamericana “di tirare il fiato dopo tanto tempo passato a trattenerlo”. 
Lena decide a sua volta di frequentare l’Università per costruire qualcosa di solido in una famiglia ormai vaporizzata, e così facendo perde di vista Ivy e Ginger. Quest’ultima è forse la principessa più triste di tutte: educata sentimentalmente secondo la regola “passa da una persona all’altra o sarai in trappola”, Ginger fa i conti con due genitori sfocati sullo schermo come nella vita, avvezzi a ripeterle “fa qualcosa per renderti interessante”. Anche la sorella minore Dusty, sempre chiusa nel suo piccolo guscio, appare più interessante di lei. Così è tempo di frenetici tagli di capelli, ciocche rosa per coprire un viso impaurito, giornate di noia saltando da una festa all’altra sotto la guida di Ivy, scatenata e dominante. Ci sono ragazzi da baciare, droghe da sperimentare e un futuro lasciato nell’angolo nel timore di affrontarlo. “Ho paura che tutti i miei amici vadano avanti e io resti un’amica delle superiori” confessa Ginger mentre gli occhi si fanno umidi.
La promessa del film è che ognuna di queste crisalidi potrà infine spiccare il volo: chi per necessità, in fuga da un ambiente domestico sbagliato, chi per scelta consapevole, chi quasi per errore ma con tutto il coraggio che occorre. Per alcune ci sarà un percorso di studio, per altre il banco di prova del lavoro e per tutte rimarrà quell’incertezza agrodolce a gravitare sul fondo: “Non ho ancora trovato un nome per questo periodo”, dirà Lena in aeroporto, alla vigilia di un viaggio importante; “diciamo che sono al punto di lancio e sto costruendo il razzo che esploderà”.
All this panic riesce a toccare la ragazza rabbiosa, intimorita e disperata che dorme dentro di noi. Parla di amori che sembravano più belli visti da lontano e problemi che sembravano più piccoli fino al giorno prima, di corpi da accettare e pulsioni da tenere per mano, di solitudini perfette che sembrano compagnia.
Di donne che, senza saperlo e senza potergli dare un nome, costruiscono qualcosa che in futuro esploderà.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Festival Reportage

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Scheda tecnica

Anno: 2016
Durata: 80'
Regia: Jenny Gage
Montaggio: Connor Kalista
Fotografia: Tom Betterton
Musiche: Joe Wong, Didier Leplae

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