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KOREA FILM FEST - Montage, di Jeong Geun-Seop

31/3/2014

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La Corea del Sud continua a sfornare thriller di notevole spessore a un ritmo davvero invidiabile. Mentre qui da noi ogni settimana o quasi si affaccia in sala una nuova commedia, nei cinema coreani il pubblico ha la fortuna di poter trovare svariati titoli che affrontano il genere noir e affini nei modi più diversi.
Tra i più interessanti prodotti nel 2013 figura senz’altro Montage, uscito in patria la scorsa primavera con un buon riscontro al botteghino, diretto da Jeong Geun-Seop qui al suo esordio sul grande schermo nella doppia veste di regista e sceneggiatore.
A quindici anni di distanza dal rapimento e dall’uccisione di una bambina, quando mancano ormai pochi giorni alla proscrizione del reato, il poliziotto incaricato del caso continua nelle sue affannose ricerche per attribuire un volto al colpevole. In coincidenza con l’anniversario della morte della piccola qualcuno depone un fiore sulla scena del crimine, un luogo conosciuto solo dalle forze dell’ordine, dalla madre della vittima e dal killer. Pochi giorni dopo, con il reato ormai caduto in proscrizione, viene rapita un’altra bambina con una nuova, conseguente, richiesta di riscatto eseguita con lo stesso modus operandi del caso precedente. Le autorità decidono di rivolgersi allo stesso detective che aveva seguito l’indagine precedente, mentre la madre della bimba rapita e uccisa quindici anni prima non ne vuol sapere di rinunciare alla ricerca dell’assassino, continuando da sola a investigare sul crimine che le ha tolto la sua unica ragione di vita.
Il cinema coreano ci ha piacevolmente abituati a prodotti di genere di alto livello, ma non si può non rimanere stupiti quando capita d’imbattersi in titoli degni di nota sia sul piano dei contenuti che su quello della forma e della tecnica cinematografica, e realizzati da autori giovani e promettenti. Segno evidente del buono stato di salute della cinematografia sudcoreana, senza ombra di dubbio tra le più importanti dell’attuale panorama asiatico. Un’industria in costante crescita, capace di formare, valorizzare e supportare i suoi talenti fornendo loro un’adeguata preparazione teorica insieme ai mezzi e agli strumenti necessari per metterla in pratica.
Negli ultimi lustri abbiamo potuto ammirare diversi thriller che spesso e volentieri sfociano nell’horror (Bedevilled) o sono impregnati di una violenza estrema e radicale (The Chaser, I saw the devil). In Montage ci troviamo invece in tutt’altri territori, più dalle parti di Memories of Murder, con cui condivide una trama complessa e ben articolata e uno degli interpreti principali, Kim Sang-kyung, che in entrambi i casi ricopre il ruolo del poliziotto. Il film di Jeong Geun-Seop non passerà agli annali per le scene di violenza, praticamente quasi inesistenti, o per le sequenze d’azione, centellinate e ben dosate, ma per l’ottimo lavoro di scrittura che lo sorregge, costituito da un continuo andirivieni temporale in grado di tenere ben desta l’attenzione dello spettatore.
Nonostante il regista eviti d’inserire scene di forte impatto visivo, la sua opera è pervasa da una costante tensione narrativa e da un ritmo incalzante, dovuto soprattutto all’inserimento di alcuni colpi di scena ben studiati e calibrati al meglio. Jeong Geun-Seop si dimostra assai abile anche nel tratteggiare l’introspezione psicologica dei suoi personaggi, in particolar modo risultano ben delineati e caratterizzati quelli della madre - interpretata da un’intensa Eom Jeong-hwa - che dopo quindici anni non ha ancora ottenuto giustizia, e del poliziotto, letteralmente ossessionato dal trovare e inchiodare l’omicida.
Infine è interessante notare come in quasi tutti i film di questo genere siano presenti forti critiche nei confronti della società coreana, a partire dalla descrizione delle forze dell’ordine, caratterizzata da una proverbiale inettitudine, fino alla condanna di un sistema giudiziario che prevede la prescrizione anche per i delitti più efferati. Un tema, quest’ultimo, di scottante attualità in Corea del Sud, già visto e affrontato di recente in Confession of murder, presentato in anteprima nazionale italiana proprio nel corso della passata edizione del Florence Korea Film Fest.

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Festival

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Scheda Tecnica

Titolo originale: Mong-ta-joo
Regia: Jeong Geun-Seop
Sceneggiatura: Jeong Geun-Seop
Fotografia: Lee Jong-Youl
Anno: 2013
Durata: 120’
Interpreti principali: Eom Jeong-hwa, Kim Sang-kyung, Song Young-chang 

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KOREA FILM FEST - New World, di Park Hoon-jung

25/3/2014

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Con New World ha preso il via la retrospettiva della dodicesima edizione del Florence Korea Film Fest, quest’anno dedicata a Choi Min-sik. A conti fatti non si poteva pretendere un inizio migliore per l’omaggio a uno degli interpreti più versatili, importanti e conosciuti del cinema sudcoreano. Scritto e diretto dal talentuoso Park Hoon-jung, qui al suo secondo lungometraggio in cabina di regia dopo aver firmato a inizio carriera le sceneggiature di due thriller importanti e apprezzati come The Unjust di Ryoo Seung-wan e I Saw the Devil di Kim Jee-woon, il film in patria ha vinto un Blue Dragon Award ed è già stato presentato a svariati festival internazionali ottenendo il Focus Asia Award a Sitges.
Dopo la morte a seguito di un incidente stradale dell’anziano leader della Goldmoon, una delle più potenti organizzazioni malavitose coreane, si scatena una lotta intestina per determinarne il successore. I due principali e agguerriti pretendenti sono Cheong, gangster sopra le righe dai modi rozzi e grossolani e l’ambizioso e imperscrutabile Joong-gu. Ja-sung, l’uomo più fidato di Cheong, non è un semplice delinquente ma un poliziotto infiltrato da ben otto anni nella Goldmoon, in procinto di diventare padre e desideroso di terminare al più presto questa logorante e rischiosa missione sotto copertura. Tuttavia Kang, il suo diretto superiore, ha in serbo altri piani per lui e vuole sfruttare l’influente posizione raggiunta nel corso degli anni da Ja-sung per scardinare dal suo interno l’organizzazione criminale. Ovviamente non tutto filerà liscio in questo complicato e temibile scacchiere che ben presto si trasformerà in un gioco al massacro senza esclusione di colpi.
Nella primissima parte New World ricorda non poco Infernal Affairs, il cult hongkonghese rifatto pochi anni dopo da Martin Scorsese, che con The Departed ottenne il suo primo e al momento unico Oscar come miglior regista. Con il passare dei minuti invece ci si rende conto che il film sudcoreano prende un’altra direzione, ben più intricata e complessa, smarcandosi nettamente dai titoli appena citati. Merito di una sceneggiatura talmente curata, profonda e articolata da risultare uno degli elementi di maggior forza del film. Un fatto non certo casuale dato che - come abbiamo già avuto modo di sottolineare - Park Hoon-jung è approdato alla regia dopo aver mosso i primi passi come sceneggiatore, continuando a firmare i suoi copioni anche dopo esser passato dietro alla macchina da presa.
New World si presenta come un gangster movie visivamente potente e raffinato, capace di crescere a mano a mano che sullo schermo si dipana l’intreccio narrativo e di rilanciarsi continuamente tramite un susseguirsi di efficaci e calibrati colpi di scena, costituiti da intricati rapporti tra doppiogiochisti, informatori, spie e spiati. Numerose e di ottima fattura le scene dove la violenza deflagra con forza inaudita, come la memorabile e magistrale sequenza della mattanza in ascensore realizzata con grande perizia tecnica e virtuosismo, con la cinepresa che prima riprende lo scontro dall’alto per poi calarcisi dentro con rabbia e foga.
Chi conosce il cinema coreano sa bene come nella stragrande maggioranza dei casi le forze dell’ordine siano dipinte come del tutto inefficienti e incompetenti, al limite del grottesco. Nella pellicola di Park ci troviamo invece al cospetto di un poliziotto, il capitano Kang impersonato da Choi Min-sik, capace di mettere in atto un piano labirintico e machiavellico per far implodere la potente organizzazione mafiosa che si ritrova a fronteggiare. Cinico e calcolatore, l'uomo è disposto a tutto pur di perseguire il suo scopo, anche a costo di perdere sul campo i suoi infiltrati, costretti loro malgrado a vivere alla stregua di feroci e spietati malavitosi che nel film appaiono come eleganti e influenti uomini d’affari di una qualsivoglia multinazionale. Nell’indossare i panni del capitano Kang, Choi Min-sik muta nuovamente pelle e dimostra ancora una volta la sua estrema poliedricità, tratteggiando il suo personaggio con fare misurato e controllato, con uno stile recitativo tutto in sottrazione fatto di sfumature e piccoli dettagli. Non sono certo da meno le prove dei suoi illustri colleghi, due attori del calibro di Hwang Jeong-min e Lee Jung-jae, a dir poco perfetti nei rispettivi ruoli di Cheong e Ja-sung.
Un noir in salsa coreana ambizioso e stratificato, che indaga in modo scrupoloso il mondo del crimine e le sue regole ma affronta anche temi universali come l’amicizia e la lealtà, che qui sembrano essere più ad appannaggio dei malviventi che non dei tutori della legge: un dato quantomeno originale, imprevedibile e spiazzante che provocherà in Ja-sung, agente sotto copertura che per anni ha desiderato unicamente di tornare a indossare la divisa, scelte estreme e radicali.
In conclusione New World è da considerarsi uno dei migliori esempi nel suo genere prodotti in questi ultimi anni anche sotto l’aspetto prettamente tecnico, grazie al ricorso a un commento musicale avvincente e incalzante, un montaggio teso e serrato e una fotografia volutamente fredda e plumbea.

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Festival

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Scheda Tecnica

Titolo originale: Sin-se-gae
Regia: Park Hoon-jung
Sceneggiatura: Park Hoon-jung
Fotografia: Chung Chung-hoon
Anno: 2013
Durata: 134’
Interpreti principali: Choi Min-sik, Hwang Jeong-min e Lee Jung-jae

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KOREA FILM FEST - Crying Fist, di Ryoo Seung-wan

24/3/2014

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Presentato nel corso della dodicesima edizione del Florence Korea Film Fest all’interno della retrospettiva dedicata a Choi Min-sik, Crying Fist è uscito in patria nel 2005 per poi sbarcare sul mercato italiano tre anni dopo – con il consueto ritardo - direttamente in home-video. La regia è affidata a Ryoo Seung-wan, autore di notevole talento che negli anni successivi ha realizzato opere di grande successo e spessore come City of Violence, The Unjust e The Berlin File.
Vincitore del premio Fipresci alla Quinzaine des réalisateurs a Cannes nel 2005, il film segue le vicende di Tae-shik, ex campione di boxe finito sul lastrico, con un matrimonio in frantumi e un figlio di cui non riesce ad occuparsi e di Saung-hwan, un giovane malvivente finito in prigione dopo l’ennesima malefatta. A prima vista le loro vite non hanno niente in comune, se non il destino avverso, ma a un certo punto le loro strade si incroceranno sul ring, nella finale di un torneo amatoriale di boxe che rappresenta un momento cruciale delle loro esistenze.
I due protagonisti di Crying Fist faticano a trovare il loro posto nel mondo e nella società che li circonda, segnati come sono da un male di vivere costante e perenne. Nel ruolo di Tae-shik, ex pugile caduto in disgrazia, si registra l’ennesima, grande interpretazione di Choi Min-sik che tratteggia il suo personaggio con un’umanità davvero commovente. Sconfitto dalla vita, che gli ha tolto dignità e orgoglio, per sopravvivere s’inventa un lavoro – farsi prendere a pugni per strada in cambio di denaro da chiunque abbia voglia di sfogarsi – che ogni giorno lo umilia sempre di più. Choi Min-sik dimostra ancora una volta di essere un interprete maiuscolo, sfaccettato e poliedrico, capace di suscitare con le sue caratterizzazioni una profonda empatia da parte del pubblico ma altrettanto bravo nel calarsi in ruoli sgradevoli e respingenti, talvolta semplicemente mostruosi e orripilanti.
Riuscita ed efficace anche la prova di Ryu Seung-beom, fratello del regista, nei panni del giovane teppista che dopo essere stato rinchiuso in carcere trova nella boxe una valvola di sfogo. La risalita sarà dura e faticosa per entrambi, fatta di lacrime e sangue, dolore e sudore come impone lo schema classico e tradizionale dei film incentrati sul mondo del pugilato, uno sport che è da sempre metafora della vita.
Nel finale, catartico e liberatorio, i due protagonisti si ritrovano sul ring uno di fronte all’altro, in un match che da solo rappresenta il riscatto da una vita difficile e accidentata. Un incontro che può salvarli o farli sprofondare per sempre, a cui arrivano carichi di aspettative e speranze e che infine li vedrà entrambi vincitori, specie agli occhi dei loro cari, perché a volte la sconfitta non è contemplata, a prescindere dal verdetto del ring. Esausti, doloranti, sfiniti e caracollanti al termine dell’ultima ripresa si abbracceranno felici, consapevoli di aver dato il massimo e di aver sconfitto il proprio “nemico” che, come abbiamo avuto modo di vedere in svariate pellicole sul mondo della boxe, non è il rivale sul ring, bensì uno ben più minaccioso e temibile, il proprio demone interiore, che si nutre e si rafforza con le nostre debolezze e le nostre sconfitte.
Un film autentico e vitale nel mostrarci il percorso travagliato e affannoso dei due protagonisti, con l’occhio-cinepresa del regista sudcoreano tutto rivolto dalla loro parte, capace di restituirci le loro sofferenze e di farci sentire sulla nostra pelle i lividi e le ferite della carne e dell’anima.

Boris Schumacher

Sito ufficiale: Florence Korea Film Fest

Sezione di riferimento: Festival


Scheda Tecnica

Titolo originale: Jumeogi unda
Regia: Ryoo Seung-wan
Sceneggiatura: Ryoo Seung-wan, Jeon Cheol-Hong
Fotografia: Jo Yong-gyu, Jung Jung-hoon
Anno: 2005
Durata: 134’
Interpreti principali: Choi Min-sik, Ryu Seung-beom, Byeon Hie-bong

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