ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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BIOGRAFILM 13 - Fame, di Angelo Milano e Giacomo Abbruzzese

20/6/2017

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​Ogni cosa deve avere una fine, anche quando si leva un mormorio circostante. Lieve disapprovazione, speranza di ricominciare, attesa.
Fame racconta di un progetto nato quasi per caso, quello dei primi passi per un Festival irriverente e rivoluzionario. È lo stesso Abbruzzese a parlarne nella sala del cinema Europa, con la rassegnata consapevolezza di chi ha vissuto Fame senza sottrarsi alla tempesta: quel momento elettrico di vernice, proteste e libertà di espressione è finito e non è destinato a tornare.
Ogni cosa deve avere una fine ma, se al suo posto rimane un segno indelebile, la missione può dirsi compiuta.

Muri bianchi, vicoli, un bar che sembra incastonato in un tempo immobile, la piazzetta polverosa del quartiere, qualche trattore che sfreccia per strada e le cassette di uva in vendita sotto gli occhi dei passanti. Un’aria d’oro, di luce calda, un quartiere polveroso che sembra sonnecchiare da secoli fra tetti e campanili, poi occhi scuri capaci di silenzi lunghissimi: il barbiere, il sindaco, l’artigiano, istantanee di umanità che ogni giorno respira quest’aria occupando un piccolo, solido spazio nel mondo. Sempre lo stesso.
È il quartiere della Ceramica di Grottaglie (Ta), cittadina dove Angelo Milano è cresciuto facendo i conti con la noia. Quella noia che un po’ uccide e un po’ condanna, talvolta protegge. La noia che gli ha lasciato poca, pochissima scelta: avrebbe potuto cullarsi in quei pomeriggi pigri e rassicuranti e invece ha deciso di metterli a ferro e fuoco, distruggerli, azzannarli, farli scintillare.
Boati, caos, scherzi estremi, imprese epiche: non c’è limite alla vibrante genialità di questo ragazzo, tenero e terribile domatore di leoni in un frammento di mondo che tutto avrebbe previsto tranne una rivoluzione. Angelo ha fame. E così i pianoforti volano giù dalle finestre per lanciare in aria il tonfo severo di una musica che musica non è, ma silenzio spezzato.
Sembra l’incipit di un romanzo punk rurale dove “le persone hanno tempi di reazione lunghissimi” e una sola cellula impazzita riesce a invertire le regole. A separare e unire. A indignare e rendere orgogliosi. A dispensare calci e carezze.
Lo fa con Fame, nell’arco di cinque splendidi e faticosi anni (dal 2008 al 2012) che Grottaglie non dimenticherà facilmente.
Dal porto sicuro del suo studio di serigrafia “alla cazzo” Angelo sogna muri parlanti per la città che dorme, avvia una collaborazione e un’amicizia con Ericailcane, crea una prima edizione del festival rigorosamente senza permessi. Invita artisti in numero via via crescente, writers nazionali e internazionali che amano quell’assenza di rigida organizzazione, quella voglia di montare ponteggi all’ultimo per cambiare faccia ai palazzi senza aver chiesto l’autorizzazione. Quando un gallo – simbolo del quartiere delle ceramiche – compare sulla facciata di un palazzo, il Comune interviene per farlo coprire.
Il pretesto giusto per dipingere un corteo di galline che piangono, sospirano, parlottano lungo il muro: è il funerale del gallo.
Fra i campi di grano dove si spalanca l’occhio di corvi dipinti e un vecchio monastero bisognoso di un cambio d’abito, ha inizio la vera avventura. Sono rincorse psichedeliche di disegni sui muri, evoluzioni, racconti visivi perfetti, accuse e desideri. Ed è tutto alla luce del sole, sotto gli occhi di una cittadina che non impiega molto a riconoscere il valore di quella operazione. Perché Grottaglie, poco alla volta, respira di nuovo e si innamora della ventata a colori. Perché ognuno merita un disegno sul proprio palazzo e lo chiede a gran voce. Perché quello non è vandalismo, è un dono bizzarro, è la novità.
Così il piccolo popolo dei personaggi di vernice fa amicizia con il piccolo popolo che fino a un attimo prima aspettava le sagre stagionali con moderato entusiasmo.
Sullo sfondo c’è un’amministrazione comunale – e un settore cultura – più interessato a quelle sagre, ai presepi, agli spettacoli di personaggi televisivi minori. Nessuno può aiutare Angelo a muovere montagne di creatività.
A parte Gilda, la mamma.
Con il grembiule, sorridente ed emozionata, ai fornelli per accogliere gli artisti che suo figlio convoca da ogni parte del mondo. E così felice nell’avere finalmente una possibilità: imparare l’inglese parlando con quei ragazzi, respirare la loro stessa fame, collaborare. Anche quando questo significa guidare un’auto che trasporta una curiosa statua sul tettuccio.
Così Fame vive le sue stagioni. Rivolta primitiva, arte estetica grezza e sensuale, arte pubblica scomoda. Diventa persino insulto obbrobrioso, rituale del disturbo. Ma anche quando il panico è tracciato dallo spray nero nella speranza di indignare, i grottagliesi non si indignano. Ormai hanno fame, vedono arte attorno, tengono stretto il loro strano fiore all’occhiello. Quando il Festival è pronto per spiccare il volo, la grande macchina della creatività si arresta.
Per Angelo, Fame muore prima di diventare un lavoro. In linea con il suo pensiero nobile, umile, squisitamente visionario, donchisciottesco.
Cala il sipario sull’avventura più multiforme e variopinta che un gruppo di ragazzi abbia mai saputo immaginare e restano interrogativi, inclusi quelli del pubblico in sala.
Tornerà in futuro?
Ci sarà una seconda volta?
È davvero finita così?
Chi lascia la sala, dopo la visione di questo breve film, avverte uno strano senso di speranza nel futuro.
E a chi conosce quei luoghi e li vive, resta il meraviglioso regalo di un ricordo a colori che le intemperie scalfiscono e il cuore trattiene.
Con rabbia.
Con fame.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Festival Reportage


Scheda tecnica 

Regia: Giacomo Abbruzzese, Angelo Milano
Anno: 2017
Durata: 57'

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BIOGRAFILM 13 - Tokyo Idols, di Kyoko Miyake

13/6/2017

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Il Biografilm ha ospitato il 10 giugno l’anteprima italiana di Tokyo Idols di Kyoko Miyake per Rivoluzione Digitale - The Millennials, sezione che questa tredicesima edizione del Festival vuole dedicare ai fenomeni di larga diffusione fra i giovanissimi in rapporto alla rete.
Si ripete l’incantesimo delle precedenti edizioni, quando film quali Love Hotel o Inside the Chinese Closet hanno risvegliato in platea uno stupore di taglio tutto occidentale. Quella “pericolosa meraviglia” con l’amaro sul fondo: l’inevitabile distanza fra culture, un diverso approccio morale e l’immancabile quesito. “Un fenomeno di questa portata potrebbe mai verificarsi qui da noi?”.

In Giappone ci sono ormai diecimila adolescenti – tutte corrispondenti al canone di giovane bellezza orientale – concentrate sul lavoro nonostante la tenera età. Un lavoro che si fa su scarpette dal tacco vertiginoso, strizzate in abitini scenografici, truccate come dive in miniatura e scatenate come cartoni animati in carne e ossa. Sono le idols e non è possibile definirle cosplayer perché il loro obiettivo è differente: sono piccoli monumenti alla purezza, alla verginità, alla freschezza acerba. Fatine con gli occhi a mandorla, cantanti pop in erba, voce acuta e sorriso plastico, gridolini, saltelli, coreografie studiate nelle proprie camerette e poi regalate al grande pubblico. Canzoni che diventano consolatorie diffondendo messaggi di libertà, amicizia, allegria, in un clima di magia e leggerezza più adatto a un videogioco che alla vita vera.
Se questo fenomeno prendesse piede in Italia – e l’associazione mentale sorge spontanea – probabilmente il pubblico si comporrebbe di adolescenti come le stesse idols. Non troveremmo niente di sbagliato nell’accompagnare nostro figlio di undici o dodici anni al concerto di una di queste nipponiche star che mandano baci dal palco atteggiandosi come anime. Complice questo ragionamento, la rivelazione di quello che è il pubblico giapponese delle girl band in questione suscita un certo scalpore.
Sono uomini adulti, in alcuni casi addirittura anziani. Persone che hanno perso tutto e vivono ormai ai margini della società: dopo amori falliti e delusioni quotidiane, hanno rinunciato a lavori stipendiati per seguire queste bamboline perfette concerto dopo concerto. Per sostenerle nelle loro acerbe carriere, hanno deciso di fare donazioni in denaro che in molti casi li hanno portati pressoché sul lastrico. Progressivamente sono stati allontanati dalle famiglie e per i più ossessivi fra loro è stato coniato il termine Otaku. 
Un Otaku è un uomo che vive in solitudine nel santuario dei memorabilia delle idols, spendendo tutto il suo tempo nella ricerca di nuove informazioni o fotografie della sua preferita e seguendola senza tregua durante la tournée: noi lo definiremmo stalker, ma in Giappone è solo un fan scatenato e anche quando qualcuno storce il naso di fronte a tale dinamica, subito le idols provvedono a confortare i loro Otaku con le canzoni. Inni all’amicizia sfrenata, cori incitanti da tifoseria e il messaggio “Viva gli Otaku perché non sono persone noiose”, una sorta di ricompensa morale per i discussi fans. Ai nostri occhi, purtroppo, il confine fra ossessione e pedofilia appare labile.
È così che un movimento musicale giovanile diventa a tutti gli effetti una studiata manovra di marketing e una fabbrica dell’autostima maschile: se compri un cd, potrai scattarti una foto con la tua preferita. Se scrivi alla tua idol, lei ti manderà un biglietto con parole gentili. Lei è tua amica e tu la stai aiutando a realizzare il suo sogno musicale, proprio tu che non hai realizzato alcun sogno finora. E poi ci sono i momenti dedicati alla stretta di mano, forse i più eccitanti dell’intera avventura Tokyo Idols.
Come spiega una sociologa, la stretta di mano è una conquista storica recente nella cultura giapponese ed è percepito come un gesto dai profondi significati sessuali. Le idols permettono ai loro fan di toccarle solo in base a determinate regole. Vengono organizzati eventi per la stretta di mano dove il codazzo di ammiratori è convogliato al cospetto delle piccole divinità ed è possibile stringere le mani delle baby cantanti per pochi (cronometrati) secondi. Una piccolezza, ai nostri occhi, che ha un impatto devastante sulla psicologia di un popolo cresciuto nella repressione delle effusioni pubbliche: sullo schermo infatti compaiono uomini più o meno giovani incapaci di staccarsi dalla manina del loro idolo, allontanati con la forza, in stato di evidente turbamento sessuale. E le idols?
Sorridono generose davanti alla schiera di benefattori, dicono di non essere infastidite dalle attenzioni di uomini adulti - definiti “carini e gentili” - e lavorano con ritmi serrati fra concerti, concorsi e video su YouTube prima di giungere alla fine della carriera. Fissata, solitamente, fra i 17 e i 22 anni.
​
“Le idols hanno una data di scadenza”, è questa la terribile frase che fa da sfondo a un lavoro documentario sgargiante, rumoroso, esagerato eppure pieno di ombre, pause e silenzi. E così affiorano le piccole vite di Amu, Rio, Ryoko, Yuka e le altre. Hanno dai 14 ai 22 anni, le loro famiglie si sono abituate all’idea di avere una idol in casa. Queste ragazzine sorridono, incassano, pianificano un futuro diverso, più serio e professionale, vorrebbero doppiare film e diventare cantanti famose. Nel frattempo inforcano la bici per raggiungere i paesi limitrofi e farsi conoscere, da piccole manager di se stesse, firmando autografi e concedendo scatti.
“Con il tasso di natalità che abbiamo le idols andrebbero proibite” ironizza un antropologo, mentre la fabbrica delle bamboline continua a crescere e – secondo alcuni – emerge la figura di una donna umiliata. “I giapponesi non hanno autostima” viene spiegato. Dopo il boom economico degli anni novanta e il successivo crollo, hanno dovuto ricostruirsi. Il mondo del lavoro li ha fagocitati, i rigidi formalismi sono diventati sempre più soffocanti e ben presto alcuni uomini hanno imparato a vivere una quotidiana depressione. Chi è rimasto indietro – chi non ha formato una famiglia o trovato un buon posto di lavoro – è diventato sgradito agli occhi della società. 
Come tale, le idols offrono a uomini adulti la possibilità di coltivare un amore casto e platonico con una donna che donna non è. Questi uomini non potrebbero mai pensare di avere a che fare con una donna vera, loro coetanea, nel mondo che li circonda: specie in una realtà popolata da donne determinate, il cui ruolo anche negli ambienti di lavoro è diventato sempre più fondamentale. Ecco allora che le idols rispolverano l’ideale perfetto di donna giapponese: casta, pura, innocente e quindi percepita come arrendevole, dolce e innocua. Una donna che ti consola e sorride, che si approccia a te con parole semplici e cerimoniose, che mai cercherà di dominarti ma si metterà al servizio della tua serenità.
Una donna che non a caso “donna” non è affatto.
Ma bambina, vestita in modo provocante, mentre le banconote fioccano nella cassetta delle donazioni.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Festival Reportage


Scheda tecnica

Anno: 2017
Regia: Kyoko Miyake
Durata: 88'
Sceneggiatura:    Kyoko Miyake
Fotografia: Van Royko
Montaggio: Anna Price
Musiche: David Drury

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BIOGRAFILM 13 - Bagnini e bagnanti, di Fabio Paleari

11/6/2017

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​Questo primo film in concorso per Biografilm Italia nasce sotto una buona stella: quella spiritosa e fuori dalle righe del suo regista Fabio Paleari, pronto a raccontare al pubblico l’avventura vissuta assieme al produttore Luca Legnani. In un momento di depressione lavorativa – “e tutti e due senza la fidanzata in previsione dell’estate” - la coppia di amici decide di girare l’Italia su una Punto nera a gas, armati di una sola macchina da presa. 
L’obiettivo è partire dalla Liguria per visitare le spiagge di Romagna, Toscana e Lazio facendo una precisa richiesta al popolo della spiaggia: “Vogliamo parlare con i bagnini, quelli veri, quelli di una volta, quelli che hanno avuto più donne in assoluto”. È esattamente ciò che fanno, sicuri di aver immortalato una carrellata di fenomeni da riscoprire. In realtà ciò che restituiscono è uno spaccato antropologico accurato, decisamente forte, molto lontano dalle loro previsioni iniziali.

Spesso sono orgogliosi spettri di una bellezza appassita, ancora gonfi di una virilità che a stento resiste ai morsi del tempo. Fanno pensare ai Vitelloni, alle cartoline sbiadite, al cocco fresco e ai tormentoni estivi che facevano vibrare la pancia delle radioline. Sono i bagnini italiani.
Come afferma Ugo Amato, psichiatra e voce narrante del film, “bagnino” ha quasi un suono dispregiativo rispetto a “bagno”. La stessa figura del bagnino nostrano è lontana anni luce dalle mitizzazioni americane alla Baywatch; quel Salvataggio scritto sulle canottiere fa pensare soltanto a qualche tuffo d’emergenza. Perché il bagnino, in Italia, è l’uomo con i muscoli ben in vista e la pelle color carbone che strizza l’occhio alle turiste: così risponde l’immaginario collettivo quando di “bagnino” si parla.
È una conferma per molti, specie per i turisti fissi che ogni anno tornano all’arenile e trovano un vecchio amico, un padrone di casa che ricorda di averti già visto e si accerta che tu possa passare le vacanze in tutta comodità. Ma per tanti – o forse è il caso di dire tante – il bagnino incarna  quell’ideale di “uomo da spiaggia” energico e cerimonioso, capace di grandi passioni consumate fra cabine e notti stellate, generoso di lusinghe. Per una settimana, almeno.
Sono proprio loro a raccontarsi, giovani e meno giovani, dalla Liguria al Lazio, custodi della spiaggia e di tanti segreti pruriginosi: l’uomo che emerge da questo ironico e dissacrante affresco di umanità è un “super maschio” sicuro della propria avvenenza (anche quando il tempo non è stato affatto clemente) eppure eternamente irrisolto in quello stile di vita così distante dalla banale routine. 
Fra tedesche, svedesi, norvegesi e austriache – tutte doverosamente collocate nella scala di valutazione da questi irriducibili cacciatori stagionali – le italiane si rivelano le conquiste più difficili. “Si portano dietro mamma e papà, hanno il coprifuoco e sono meno indipendenti. E poi vogliono le relazioni serie”. Sono definizioni semplici (e piuttosto datate) per uomini ancora più semplici e ci riportano al passato balneare che rivive ancora in qualche vecchia fotografia o negli spezzoni di filmati anni 70 – 80 che talvolta appaiono sullo schermo. 
Non si riesce a sentirsi realmente offese da certe valutazioni – per quanto offensive potrebbero sembrare –, si finisce per sorridere davanti a questi uomini nostalgici e un po’ anacronistici, di certo strampalati, che nella maggioranza dei casi hanno passato estati da leoni collezionando prede. Restando tuttavia vittime di dubbi sull’amore e le scelte importanti, congelati in quell’istantanea di baldoria e leggerezza che è propria della spiaggia e dell’estate, della gioventù. Una condizione pericolosamente deperibile.
Eppure nulla sembra deteriorare il ruggente spirito di questi uomini di mare che mettono in mostra le piume ogni anno per dare alla donna “ciò che non trova altrove” (o ciò che il marito non le procura), dedicandole attenzioni rare o arrivando dritti al punto, sempre sghignazzando all’idea di quel treno del venerdì. Il leggendario treno che porta i mariti alla spiaggia, meglio conosciuto nell’ambiente come “il treno dei cornuti”.
Eccessivo, ridanciano, spietato, a volte imprevedibilmente tenero, Bagnini e Bagnanti può addirittura sembrare “una curiosa ode alla donna” che nel suo essere perennemente cercata, conquistata e soddisfatta sessualmente diventa vero fulcro della vita di questi uomini dai muscoli non più così tonici. La donna come meta, come obiettivo, come priorità assoluta. Per qualche giorno, s’intende. Per regalare l’illusione di un amore che amore non sarà mai o almeno il ricordo di un’estate divertente.
Forse l’indignazione femminile riemerge quando alcuni di loro, alla domanda “Cosa vi hanno insegnato tutte queste donne?”, rispondono senza troppi indugi “Niente”.
Probabilmente un giudizio un po’ duro per la platea femminile presente in sala, ma alla fine è la comicità quasi involontaria di questi personaggi a pareggiare i conti, in un film che ha assicurato una cascata di risate scroscianti per tutta la sua durata, divertendo anche le signore presenti alla proiezione nonostante il demone del maschilismo, sempre lì nell’angolo, a sghignazzare.
D’altronde sono bagnini.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Festival Reportage


Scheda tecnica

Regia: Fabio Paleari
Sceneggiatura: Luca Legnani, Fabio Paleari
Montaggio: Maria Fantastica Valmori
Anno: 2017
Durata: 75'

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BIOGRAFILM 13 - All this panic, di Jenny Gage

10/6/2017

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La tredicesima edizione del Biografilm Festival apre i battenti e fra le proposte del 9 giugno c’è anche un lavoro toccante, lieve e al contempo profondo, riguardante il mondo degli adolescenti. Stupore davanti alla risposta del pubblico che “nonostante sia venerdì pomeriggio” e “nonostante il tema trattato possa sembrare spinoso” si presenta in sala per una partenza puntuale, introdotta dalle parole di Maria Chiara Risoldi, psicanalista e presidentessa della Casa delle Donne. 
La Risoldi definisce questo lavoro di Jenny Gage “affettuoso, curioso e rispettoso”, fotografa questa “epoca delle passioni tristi” (citando il testo di Benasayag e Schmidt) e regala al pubblico un pensiero di Pennac: “I bambini sono dei poeti, gli adolescenti sono dei moralisti e gli adulti sono dei contabili”. Con l’eco tenero di queste parole nelle orecchie, le luci si spengono lasciando spazio a All this panic, alle sue figlie vivaci, ai suoi genitori quasi invisibili.

Una festa alla quale siamo stati invitati.
A organizzarla sono alcune ragazze di Brooklyn, adolescenti imprigionate in corpi un po’ bambini, che compaiono riluttanti sul trampolino della vita eppure stanno per tuffarsi. La macchina da presa le segue per tre anni, fra spiagge deserte e metropolitane, piccoli giardini condominiali, taxi, scuole e concerti all’aperto.
Impareremo a conoscerle in 79 minuti che diventano diario di una transizione. Tecnica ed estetica sono quelle del documentario, ma la regista rivela un tocco magico nel selezionare i giusti momenti di un percorso che le ha fornito un’ingente quantità di materiale.
Conosceremo Lena, con il suo apparecchio dentale, l’aspetto mascolino e un fascino segreto che il tempo plasmerà con calma e cura. Ginger, spregiudicata e smarrita, con i capelli che cambiano spesso colore e il sogno di diventare attrice che stenta a decollare fra un party e l’altro. Sua sorella minore Dusty, florida bellezza americana, timida e riservata. Sage, afroamericana con una cascata di treccine e lo sguardo sfuggente di chi sta crescendo troppo in fretta. Delia, con le lentiggini e la bocca sempre pronta a snocciolare qualche pettegolezzo della scuola. Olivia, che non è sicura di essere innamorata del ragazzo che frequenta. Ivy, esagerata e ingorda di esperienze da adulta.
Ognuna di queste ragazze dovrà prendere una decisione, nel corso di tre anni condensati in 79 minuti: presentarsi al mondo a testa alta scegliendo la propria identità di donna, lasciare che l’adolescenza così ferocemente difesa - “Invecchiare è la cosa più spaventosa del mondo” afferma Ginger mentre si trucca allo specchio – scivoli via di dosso quasi impercettibilmente per lasciare spazio a orizzonti più vasti e problemi di colpo molto più gravi.
Leader narrante di questo gruppo diventa inevitabilmente Lena, piovuta quasi per errore in una famiglia troppo fragile per darle sostegno: la mamma in continua ricerca di casa e occupazione, il papà sull’orlo del suicidio, il fratello Nathan autolesionista e affetto da disturbi psichiatrici. 
“Molte cose in questa casa non funzionano” dice Lena durante una visita presso il padre, quando una porta a vetri si smonta all’improvviso fra le sue mani. Sullo sfondo c’è il Servizio di Tutela dei Minori americano, presenza impalpabile che giudica i genitori “negligenti” spingendoli a una guerra di colpevolizzazioni reciproche. Eppure Lena, fra i turni “da papà – da mamma” e le tragiche notizie ospedaliere del fratello Nathan, vuole organizzare una festa e baciare il ragazzo sul quale ha messo gli occhi da un po’: “Ho pensato che se io mi ubriaco e lui si ubriaca, posso dirgli che mi piace”. E sono festicciole semplici, quelle del piccolo gruppo di amiche, con l’alcol che scorre senza permesso e qualche droga da provare per poi ritrovarsi al mattino, come pulcini dalle piume arruffate, a guardare in camera dicendo “Alla fine ho baciato un altro ragazzo. Non so, doveva essere diverso, doveva essere l’altro. Il bacio è una di quelle cose che immagini perfette e alla fine non lo sono”. 
L’amore, come il sesso, sono le implacabili correnti alle quali i corpi di queste ragazze americane si ritrovano esposti all’improvviso in un risveglio di sensi e pensieri imprevisto, di difficile gestione: “detesto perdere la verginità perché incasina tutto”, “ho capito di essere lesbica e con questa cosa farò i conti per il resto della mia vita. Forse un giorno mi renderà felice”, “io vorrei essere madre perché mi piace l’idea di fare persone”. Sono come pagine di diario scartabellate da un vento impetuoso, confessioni che affiorano nelle magnifiche immagini dei pomeriggi fra amiche, qualche bisticcio, le passeggiate, le boccacce e le corse sulle sabbia, i corpi che non si arrendono al tempo e vorrebbero restare un po’ bambini, il mondo che detta nuove regole, i capelli che crescono e gli occhi che diventano di colpo più quieti, più seri.
La scelta dell’università pone tutte di fronte ai propri spettri personali. “Non vedo l’ora che la vita ti dia un bel treno sui denti!” dice l’autoritaria mamma single di Sage gesticolando in salotto. “Mia mamma è così perché è black, è diversa” spiega quella figlia che non ha il permesso di stare fuori dopo la mezzanotte. E poi, con tutta la sua delicatezza, racconta la morte del papà mentre strappa le erbacce dal giardino che lui amava tanto e indica l’albero di corniolo rosso piantato da lui, albero che è cresciuto a dismisura dopo quel lutto. Cresciuto come una figlia afroamericana determinata a combattere per i diritti delle donne, pronta a scegliersi il proprio futuro e a frequentare un’università che permetta a un’afroamericana “di tirare il fiato dopo tanto tempo passato a trattenerlo”. 
Lena decide a sua volta di frequentare l’Università per costruire qualcosa di solido in una famiglia ormai vaporizzata, e così facendo perde di vista Ivy e Ginger. Quest’ultima è forse la principessa più triste di tutte: educata sentimentalmente secondo la regola “passa da una persona all’altra o sarai in trappola”, Ginger fa i conti con due genitori sfocati sullo schermo come nella vita, avvezzi a ripeterle “fa qualcosa per renderti interessante”. Anche la sorella minore Dusty, sempre chiusa nel suo piccolo guscio, appare più interessante di lei. Così è tempo di frenetici tagli di capelli, ciocche rosa per coprire un viso impaurito, giornate di noia saltando da una festa all’altra sotto la guida di Ivy, scatenata e dominante. Ci sono ragazzi da baciare, droghe da sperimentare e un futuro lasciato nell’angolo nel timore di affrontarlo. “Ho paura che tutti i miei amici vadano avanti e io resti un’amica delle superiori” confessa Ginger mentre gli occhi si fanno umidi.
La promessa del film è che ognuna di queste crisalidi potrà infine spiccare il volo: chi per necessità, in fuga da un ambiente domestico sbagliato, chi per scelta consapevole, chi quasi per errore ma con tutto il coraggio che occorre. Per alcune ci sarà un percorso di studio, per altre il banco di prova del lavoro e per tutte rimarrà quell’incertezza agrodolce a gravitare sul fondo: “Non ho ancora trovato un nome per questo periodo”, dirà Lena in aeroporto, alla vigilia di un viaggio importante; “diciamo che sono al punto di lancio e sto costruendo il razzo che esploderà”.
All this panic riesce a toccare la ragazza rabbiosa, intimorita e disperata che dorme dentro di noi. Parla di amori che sembravano più belli visti da lontano e problemi che sembravano più piccoli fino al giorno prima, di corpi da accettare e pulsioni da tenere per mano, di solitudini perfette che sembrano compagnia.
Di donne che, senza saperlo e senza potergli dare un nome, costruiscono qualcosa che in futuro esploderà.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Festival Reportage

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Scheda tecnica

Anno: 2016
Durata: 80'
Regia: Jenny Gage
Montaggio: Connor Kalista
Fotografia: Tom Betterton
Musiche: Joe Wong, Didier Leplae

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BFM 35 - Il chirurgo ribelle, di Erik Gandini

14/3/2017

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​Il chirurgo Erik Erichsen, specializzato in ortopedia, lavora per trent'anni in Svezia. Stanco dell'enorme burocrazia che appesantisce la quotidianità della sua professione, decide di lasciare tutto, agi compresi, per trasferirsi, insieme alla moglie Sennait, nella remota regione del Wollega, in Etiopia, dove i mezzi a disposizione per curare le persone non sono neanche minimamente paragonabili alle ricchezze e alla modernità del paese scandinavo. Erichsen diventa responsabile del piccolo ospedale da campo del paese di Aira, e lì inizia ogni giorno ad assistere decine e decine di pazienti, trasformandosi in “chirurgo generico” e operando tutte le parti del corpo, in tutti i modi e con tutti i mezzi di fortuna possibili e immaginabili, pur di aiutare i malati.
La fama di Erichsen si diffonde nel paese. Presto il diroccato ospedale si affolla di un'infinita moltitudine di infermi che vengono a chiedere un consulto. Lui, pur con metodi talvolta anche bruschi, non rifiuta una mano a nessuno. Insieme alla compagna interviene su tutti i pazienti nel tentativo di curare ogni tipo di patologia, senza mai prendersi pause né giorni di ferie, portando avanti la sua “missione” per ben dieci anni. 

Erik Gandini, autore bergamasco da tempo realizzato professionalmente in Svezia e già apparso di recente sui nostri schermi con La teoria svedese dell'amore, ha presentato in anteprima mondiale, durante il sempre splendido Bergamo Film Meeting, il suo nuovo documentario, Rebellkirurgen (Il chirurgo ribelle). In sala, con lui, anche i protagonisti del suo lavoro, Erik Erichsen e la dolcissima compagna Sennait, accolti al termine della proiezione da una vera e propria standing ovation. Un omaggio meritato, per un film che mette in luce la straordinaria storia di un uomo che ha abbandonato le comodità della vita occidentale per aiutare migliaia di persone prive di efficienti sostegni economici e medici. 
Nonostante il minutaggio limitato (50 minuti), il doc di Gandini, prossimamente in uscita anche al cinema grazie a Lab 80, sa essere forte, intenso, ipnotico. Si resta a bocca aperta, durante la visione, nell'atto di scoprire gli incredibili mezzi con cui Erichsen svolge ogni giorno il suo lavoro in Etiopia, ovviando alla mancanza di strumentazioni decenti con illimitata fantasia. Raggi di bicicletta, fascette, viti da ferramenta, lenze da pesca, trapani elettrici comprati per 15 euro al supermercato locale: ogni supporto può essere utile per suturare, rattoppare, aggiustare, provare a curare qualsiasi tipo di malattia, anche le più gravi ed estreme. Lance da caccia infilate nello stomaco da parte a parte, impressionanti tumori alla lingua, fratture scomposte, piedi equini, ferite infette, arti in cancrena: niente è impossibile, ogni operazione può essere tentata, leggendone le modalità sui libri se non la si è mai provata prima, scavalcando la teorica deontologia professionale e utilizzando qualsiasi oggetto disponibile pur di provare a salvare chi necessita di cure.
Non chiamatelo eroe, però. Il dottor Erichsen, convinto del fatto che il sistema sanitario occidentale sia destinato a collassare a causa della troppa burocrazia, può essere considerato allo stesso tempo un rivoluzionario, un pioniere o un genio non privo di un pizzico di follia, ma rifiuta in qualsiasi caso etichette di valore. I veri eroi, secondo lui, sono i chirurghi che rimangono in Svezia, ad affogare nei cavilli amministrativi e a occuparsi di persone che spesso non mostrano la minima riconoscenza. Lì in Etiopia, invece, tutti affrontano le più terribili malattie con un coraggio spaventoso e, se sopravvivono, aprono il cuore al sentimento dell'eterna gratitudine. Per cui si combatte con e per loro, si tenta di intervenire sempre e velocemente, affrontando qualsiasi ostacolo; e se proprio non ci sono speranze resta almeno la consolazione che, a differenza di ciò che sovente accade nel mondo ricco, ad Aira nessuno muore solo.

Il documentario di Erik Gandini, comunque non privo anche di momenti lievi, può non essere semplice alla visione: molti infatti sono i momenti duri e numerose sono le immagini piuttosto sconvolgenti per chi è impressionabile. La macchina da presa non esita a mostrare anche in dettaglio orribili tumori in avanzato stato di progresso, scioccanti deformazioni e ferite aperte con tanto di vermi brulicanti al loro interno. Eppure, anche se talvolta si ha la tentazione di chiudere gli occhi, è invece utile provare a tenerli ben aperti, per rendersi conto di quanta forza e dignità ci possa essere nella sofferenza, e di quanto importante sia il lavoro di un personaggio come Erichsen: un grande uomo, affiancato da una grande donna, pronto a donare l'anima e ogni attimo del suo tempo per mettersi al servizio di chiunque ne abbia necessità. Pensando solo e soltanto al fine ultimo: l'uso della medicina come atto di amore e salvezza. 
Ma non chiamatelo eroe. 

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival Reportage

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Scheda tecnica

Titolo originale: Rebellkirurgen
Regia: Erik Gandini
Interpreti: Erik Erichsen, Sennait Erichsen
Anno: 2016
Durata: 51'

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IL CINEMA RITROVATO 30 - Listen to me Marlon, di Stevan Riley

12/7/2016

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Marlon Brando ha parlato di sé a se stesso, e ora tocca a noi ascoltarlo. Stevan Riley, documentarista inglese il cui penultimo lavoro era sui 50 anni del James Bond cinematografico,  interpellato da Rebecca Brando (figlia dell'attore) ha avuto accesso alle circa 300 ore di materiale lasciato da Marlon nella sua proprietà di Los Angeles. Materiale soprattutto audio: cassette cui Brando ha affidato, nella sua solitudine, una sorta di autoanalisi e autonarrazione di una carriera, compresi alcuni esperimenti di autoipnosi.
L'idea di impostare un documentario da questi elementi sonori si rivela sicuramente vincente e dà forma a un biopic che gli anglofoni definirebbero “insightful”. Listen to me Marlon si distingue dai consueti documentari biografici perché non ci sono i “soliti” mezzobusti intervistati che punteggiano la visione raccontando la loro su un'altra persona: c'è invece la voce del protagonista ad accompagnarci per un'ora e quaranta e le voci di altri sono pochissime, una delle più significative quella di Bertolucci quando si giunge a Ultimo tango a Parigi. In questo modo si getta una luce ad ampio raggio non solo su un grande attore ma anche sull'uomo Marlon Brando, contribuendo a umanizzare un “mostro sacro” della storia del cinema, andando molto al di là dell'immagine che se ne potrebbe superficialmente avere, quella di un attore simboleggiante un modo di intendere la recitazione e che ha lasciato alcune interpretazioni titaniche, ma anche uomo bizzarro e presuntuoso.
​
Se il dire di sé implica inevitabilmente una visione di parte, Brando non è indulgente con se stesso; sentiamo riflessioni dal sapore wellesiano (“tutti recitiamo, tutti mentiamo”), ma l'istinto è quello di metterle da parte durante la visione, perché nonostante tutto si respira sincerità. Dice di avere vissuto con un costante senso di inadeguatezza, ma i concetti su cosa significhi la professione del recitare li ha chiari: non essere la copia di qualcun altro, arrivare alla verità, sorprendere lo spettatore, fermandogli il tragitto dei popcorn tra la mano e la bocca. 
Dalla giovinezza, segnata da genitori problematici – una madre “poetica” ma alcoolizzata e un padre violento (e vediamo una “ipocrita” intervista tv, col papà che affianca il figlio già famoso e qualche freddo segno d'affetto tra i due) – , ai germi dell'inclinazione attoriale (la curiosità nell'osservare le persone per strada), all'apprendistato Actor's Studio sotto la guida di Stella Adler,  si arriva al cinema. Per Uomini, primo ruolo, passa del tempo tra paraplegici prima di interpretarne uno. Poi i film con cui entra nel mito: Un tram che si chiama desiderio (e Brando dichiara di odiare il diversissimo da sé Stanley Kowalski), Fronte del porto, seguiti dal Technicolor di Bulli e pupe. 
Il grande schermo, però, non è tutto. Brando dice di divertirsi sul set, ma quando l'aggressiva folla alla prima del musical cerca di braccarlo è turbato e portato a riflettere sull'assurdità di fama e fanatismo. E nei riguardi della discriminazione di cui è storicamente capace il suo paese, delle basi violente su cui poggia, Brando si è sempre schierato contro, con una mai celata coscienza “politica” che lo spinge dalla parte degli afroamericani, oltre che degli indiani d'America: c'è la famosa, mancata consegna dell'Oscar per Il padrino, con la comparsa sul palco dell'Academy della giovane squaw, e un Brando che pronuncia parole di piombo contro gli Stati Uniti (“Il popolo più aggressivo, più rapace...”). L'esperienza estremamente negativa sul set de Gli ammutinati del Bounty lo porta però alla conoscenza e all'amore di un luogo e una popolazione ignari dei valori occidentali, rimanendo stregato dalla naturalità e gentilezza della sua gente – e dalla terza moglie – .

Se l'opportunità di accedere alla mole di parole registrate dal protagonista stesso è una carta vincente del film, un po' meno convincente a conti fatti è l'impostazione narrativa e drammatizzante. Difficile parlare di tutto, ma forse è un peccato che non ci sia traccia del lavoro di Brando negli ultimi decenni di vita, a prescindere dal livello qualitativo. Ci si ferma agli iperpagati ruoli in Superman (con Brando che riceveva le battute da un auricolare indossato dal suo personaggio) e, ovviamente, Apocalypse Now (per il quale Coppola prende insulti). Drastico che degli anni '80, '90 e dei primi 2000 – da La formula a The Score – , non si faccia cenno: lo spettatore potrebbe trarne che Brando si fosse completamente ritirato.
Dopo i colossi di fine anni '70, il film ritorna al suo incipit e fa riprendere corpo ai drammi familiari  dell'attore: i colpi d'arma da fuoco che segnarono l'omicidio, da parte del figlio Christian – poi condannato a 10 anni – , del fidanzato della sorellastra Cheyenne, proprio nella villa dell'attore, e più en passant il suicidio di Cheyenne. Per mostrare quel che non è possibile mostrare, la morte di Brando, Stevan Riley sceglie la scena del Padrino in cui Corleone si accascia mentre sta giocando col nipote. Al volto dell'attore ricreato attraverso pixel blu fluttuanti, digitalizzato, sono affidate invece apertura e chiusura del film, scelta funzionale a un discorso sul continuare a vivere.
Sono quindi possibili osservazioni rivolte a Listen to me Marlon – compreso un tappeto sonoro qualche volta al limite dell'enfasi – , che non ne mettono in discussione la riuscita. Il film cattura, ottimo nel ritmo e nel lavoro di taglio e cucito audio, frase dopo frase. Sarebbe stato interessante, considerata la personalità di Brando, anche un doc più tradizionale, ma probabilmente meno emozionante. Una curiosità: Candy e il suo pazzo mondo è citato come punto più basso della sua carriera.
Presentato l'anno scorso al Sundance, in Italia al Festival dei Popoli di Firenze e distribuito in home video (da Universal) prima della proiezione al Cinema Ritrovato come culmine dell'omaggio a Marlon, il doc ha ottenuto molte nomination nei festival e qualche premio (miglior documentario al San Francisco Film Critics Circle Awards 2015).

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Festival Report


Scheda tecnica

Regia: Stevan Riley
Sceneggiatura: Stevan Riley, Peter Ettedgui
Musiche: Stevan Riley, Gary Welch
Montaggio: Stevan Riley
Anno: 2015
Durata: 103'

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BIOGRAFILM 12 - Strike a Pose, di Ester Gould e Reijer Zwaan

18/6/2016

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​Kevin Stea è presente alla proiezione di Strike a Pose durante la dodicesima edizione del Biografilm Festival bolognese, che pare aggiudicarsi con questo titolo un altro grande successo. Giulia Sodano del Comitato Pride di Bologna introduce la visione con alcune parole di solidarietà ricollegandosi ai fatti di Orlando recentemente avvenuti. Anche Kevin commenta questo film, che ai nostri occhi apparirà come un intimo e appassionato diario dell’avventura che consacrò sei ragazzi qualsiasi – o forse no – alla celebrità. Celebrità pagata a caro prezzo e finalmente raccontata al pubblico dopo venticinque anni di silenzio, con luci e inevitabili ombre.

A parlare sono i corpi danzanti e i volti di sei ballerini che nel 1990 dicono addio per un istante alla normalità e vivono un picco di successo. Rispondono a un annuncio, fanno un provino, vengono notati e, contro ogni previsione, vengono ricontattati da Madonna in persona: ha scelto loro per il suo tour Blonde Ambition, che segnerà un punto di svolta nel mondo della musica. Sono anni di brividi e scossoni, l’irriverente personaggio di Madonna si impone sullo scenario musicale creando scompiglio, per quei sei ragazzi di diversa etnia lavorare con lei è una vera benedizione. Si mostrano dunque davanti all’obiettivo per ciò che sono oggi, uomini consapevoli. Ciascuno di loro avrà una piccola grande confessione da fare.
Per comprendere a fondo l’esperienza di questi ragazzi può essere importante recuperare Truth or Dare, una visione propedeutica: si tratta di un documentario diffuso nel 1991, in cui la telecamera segue Madonna attraverso il backstage del tour Blond Ambition, fra iniziative eccentriche e sfrenata provocazione, scandagliando i silenzi della vita di una diva giovane. Strike a Pose attinge a molti spezzoni di quel documentario, ogni concerto è una scommessa con quarantamila fan da non deludere, Madonna è molto esigente con il suo corpo di ballo e diventa un’eroina che grida al mondo “Express yourself”. I ballerini si esibiscono con orecchini, eyeliner e appariscenti copricapi, non più indici di debolezza ma punti di forza in una nuova era che prende forma.
Oliver viene dal mondo dell’hip hop e quando arriva alla crew si dichiara apertamente omofobo: è l’unico eterosessuale del gruppo e lui stesso dice “prima dell’esperienza di Blonde Ambition ero il tipo che avrebbe potuto picchiare i ragazzi gay; mai ci avrei lavorato a contatto”. A sgretolare le sue antiche convinzioni è la nuova famiglia viaggiante che Madonna gli ha appena regalato: un gruppo di amici, fratelli, vite nell’acquario. “Noi qui e il mondo fuori”, diranno i ragazzi stessi e faticheranno ad abituarsi alla burrasca di grida e applausi che accompagnerà i concerti. Fra questi giovani c’è anche Gabriel Trupin, presenza pacifica e brillante, definito dai compagni “il cocco di Madonna”. Lui non è più qui a raccontare la sua esperienza, l’HIV l’ha spento prematuramente.
Scopriamo, con Strike a Pose, che il vero obiettivo del film non è ammorbarci con i lustrini di una vita edulcorata, bensì mostrarci la cruda realtà di una malattia che nel 1990 cominciava a essere motivo di manifestazioni e cortei. La comunità gay sfila esibendo cartelli con scritto “Abbiamo bisogno di ricerca, non di isteria”, ci troviamo di fronte al quadro allarmante di una malattia “nuova” che esplode diffondendo il panico fra i giovani. In questi anni difficilissimi la funzione del Blond Ambition Tour si rivela duplice: da un lato Madonna non fa mistero del suo sostegno nei confronti della comunità gay e vuole che i suoi ballerini sollevino un polverone praticando liberamente la filosofia ”Express Yourself”. Dall’altro incita alla prevenzione dell’AIDS, porta sul palco i preservativi, si batte per la causa ricordando l’amico scomparso Keith Haring.
Nel documentario Truth or Dare la sessualità dei ballerini è ampiamente svelata al pubblico. Madonna si comporta come un’amorevole figura materna, gioca e ironizza, punzecchia i ragazzi e li mette alla prova. A tratti sembra una grande amica affidabile, a volte è quasi una marionettista, ma non sta a noi giudicare. Possiamo solo osservare come quel documentario diventi importantissimo per molti ragazzi gay: per la prima volta viene mostrato un bacio appassionato fra i ballerini nel corso del gioco Truth or Dare (obbligo o verità), un forte segnale nel 1991, una grande presa di posizione che sarà da esempio a molti per uscire dall’ombra, in ogni parte del mondo. Quel bacio esplode, poi i riflettori si spengono e il tour si conclude. Per i ballerini, ora uniti da un’amicizia profonda, è tempo di cercare un futuro di carriera ed è solo a quel punto che la grande macchina della celebrità comincia a cigolare.
Giovani, speranzosi e sedotti da Madonna, ciascuno di loro si ritrova sbalzato nella nuova, caotica realtà: improvvisamente ricchi, famosi, desiderati da tutti e non più sorretti da quella diva che li ha creati. Mai giudicati “bravi ballerini”, sempre giudicati “i ballerini di Madonna”. 
Così perdono velocemente il controllo. Alcolismo, eroina, depressione, incapacità di stabilire rapporti durevoli. Salim e Carlton, due delle colonne portanti della crew, vorranno affidare a Strike a Pose un messaggio sinora taciuto: all’epoca del Blond Ambition tour entrambi scoprirono di essere positivi all’HIV e nonostante l’imperativo “Express yourself” non lo ammisero mai pubblicamente. Mentre i sei ragazzi assaggiano il declino si ha l’impressione che Madonna si faccia da parte gradualmente: “Devi farti curare” suggerisce a Luis, uno dei ballerini, quando scorge in lui i sintomi di una dipendenza da eroina. Dopo quelle parole i rapporti fra i due si interrompono. 
Per tre dei ragazzi inizia persino una battaglia legale dovuta proprio alle immagini diffuse con Truth or Dare: i ballerini sostengono di essere stati filmati in atteggiamenti compromettenti dietro promessa di un compenso mai corrisposto. Subentra anche l’ipotesi di un danno morale, “Mio figlio Gabriel non voleva che il mondo sapesse della sua omosessualità” dice la madre, ricordando il bacio gay del figlio sullo schermo. Emerge dunque un’esigenza di ostentazione propria di Madonna e non dei ragazzi. Pare dunque che fosse lei a volerli spingere alla spettacolarizzazione del proprio orientamento sessuale, loro volevano solo ballare.
Si crea attorno a quel documentario quello che a tutti gli effetti è percepito come un mistero: in che misura i ragazzi volevano che la loro immagine venisse sfruttata? Quali accordi c’erano fra loro e Madonna? Non bastava essere eccellenti nella danza per essere ricordati?
Sono quesiti ai quali Strike a Pose non risponde, ma ci lascia l’emozione di una scena finale con l’incontro dei ballerini 25 anni dopo. Abbracci, pianti e sollevanti confessioni, l’occasione per raccontare le loro vite scivolate sul fondo e poi tornate a galla, alla normalità. Oliver (colpito dalla sindrome di Bell) insegna hip hop ai bambini e durante il giorno fa il cameriere; Luis è faticosamente uscito dal tunnel della droga; Jose vive a casa con la madre, e dopo una lunga depressione ora insegna danza e portamento; Salim insegna danza e convive con l’HIV. Anche per Carlton la battaglia con la malattia è all’ordine del giorno, ma ciò non gli impedisce di tenere corsi all’aperto. Kevin Stea, presente a Bologna, ha lavorato con Lady Gaga, Beyonce, Micheal e Janet Jackson, Prince, Bowie e molti ancora. Ognuno di questi ballerini è uscito dall’ambizione bionda e infine è riuscito a costruirsi una serenità quotidiana, dopo crolli e smarrimento.
“Se ora Madonna ci vedesse penserebbe che siamo dei falliti”, dice uno di loro, “ma non importa, perché noi siamo diventati una famiglia e ci vogliamo bene”.
Infine quei ragazzi si sono espressi – express yourself – assieme. Decisamente più oggi che nel 1990.
Kevin Stea saluta il pubblico bolognese in un italiano quasi perfetto e lascia intendere che prossimamente l’antico gruppo di ballo si ricomporrà per nuovi spettacoli. Aggiunge che Madonna ha ricevuto il filmato e sorride: chissà se un giorno si ritroveranno e faranno pace, la diva e i ragazzi che rese famosi.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Festival Report

Speciale Biografilm 2016:    See You in Texas         Porno e Libertà          Inside the Chinese Closet
                                                         Ma Ma - Tutto andrà bene                 Yo Yo Ma and the Silk Road Ensemble

Scheda tecnica

Titolo originale: Strike a Pose
Regia: Ester Gould, Reijer Zwaan
Musiche: Bart Westerlaken
Montaggio: Dorith Vinken
Con: Luis Camacho, Oliver Crumes, Salim Gauwloos, Jose Xtravaganza, Kevin Alexander Stea. 
Durata: 90'
Anno: 2016

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BIOGRAFILM 12 - See You in Texas, di Vito Palmieri

14/6/2016

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​A introdurre la visione di questo quinto film in concorso nella sezione Biografilm Italia è il direttore della fotografia Michele D’Attanasio, portavoce del regista Vito Palmieri. Una bella notizia va a motivare l’assenza di Palmieri: il film è stato selezionato come unico titolo italiano per il Festival di Shangai; il regista fa dunque avere al pubblico bolognese un contributo video dove ringrazia e saluta a distanza. Questo titolo promette Texas e ci porta in Trentino, sullo sfondo c’è un sogno immenso, i ritmi della vita in una fattoria e l’amore incredibilmente solido di due giovanissimi di fronte al sogno americano, fra finzione e documentario.

Si chiamano Silvia Beltramolli e Andrea Bazzoli, una coppia che vive in un angolo poco turistico del Trentino. La loro vita è fatta di latte, fumo, paglia, fango e ruota tutta attorno a una fattoria che i ragazzi governano da soli. Pur essendo giovanissimi dimostrano la tempra di esperti fattori, la loro quotidianità è fatta di alzatacce, sono circondati da un grande e faticoso popolo di animali. 
All’alba Andrea è impegnato a maneggiare formaggi nel vapore di uno stanzone, mentre a Silvia spetta il compito di sfamare i maiali con un secchio. Li sentiamo mormorare imprecazioni in un dialetto strascicato, li sentiamo vicini e sotto sforzo, determinati, abituati al lavoro schiacciante. I due si rivolgono poche parole e molti sguardi, si scambiano un bacio fuori dalla stalla, viaggiano su sentieri scoscesi a bordo della stessa auto, si affaccendano con il forcone in una distesa di paglia e conoscono bene gli sbalzi d’umore del cielo e i comportamenti degli animali.
Osservare Silvia così da vicino stupisce, è una ragazza gracile ma piena di nervo, di energia, diversa dalle sue coetanee: si misura con le mansioni più ardue senza battere ciglio, unita ad Andrea da una sorta di silenzioso patto, quello che porta due ragazzi giovani più vicini al lavoro della terra che alla discoteca, contando l’uno sull’altra e offrendo al pubblico un limpido esempio di dedizione rurale e talento per la sopravvivenza. 
Il paesaggio circostante appare aspro e roccioso, non è un Trentino da cartolina, le montagne gigantesche soffiano venti freddi sulla fattoria e la neve attecchisce al suolo fangoso ricoprendo ogni cosa. È un amore che germoglia a temperature bassissime e che ogni tanto si concede una coccola, un bicchiere di grappa o un attimo di svago al Caval Negher, birreria locale, per una birra e due chiacchiere con gli amici, a volte qualche speranza buttata in una slot machine. Poi di corsa a casa per le poche ore di sonno che precedono un’altra giornata di fatiche.

A sparpagliare le carte in tavola è il desiderio irrefrenabile di Silvia di specializzarsi nel Reining, disciplina di equitazione americana che prevede il controllo del cavallo basandosi sull’uso delle redini. Il suo ingombrante sogno sgomita per trovare spazio nella vita della fattoria e Silvia ritaglia a fatica le occasioni per esercitarsi con il suo cavallo Patou, in un boccone di terra sassosa inadatta allo scopo. Sorgono dunque nella coppia alcune brevi discussioni che spesso scivolano via senza giungere a idee risolutive: la ragazza si dice stanca di fare esercizio su un terreno inadeguato e vorrebbe ampliare i propri orizzonti. “Quella è la terra che abbiamo” risponde Andrea. Fine del discorso.
Ecco allora che la rete tentatrice porta agli occhi di Silvia un’opzione alternativa: c’è una prestigiosa scuola del Texas che in soli sei mesi le garantirebbe notevoli competenze di equitazione. Le basterebbero sei mesi per tornare in Trentino preparata a vincere diversi concorsi. Così si propone come allieva, viene ritenuta idonea e riceve una mail di congratulazioni che si conclude con un incoraggiante “See you in Texas”. Non rimane che parlarne con Andrea.
La scuola texana rappresenta una vera e propria spaccatura fra questi due ragazzi che sino a un attimo prima sono bastati a loro stessi lavorando a testa bassa nelle stalle; l’America è una prospettiva irriverente in quello scenario sempre uguale fatto di ritmi ferrei e di silenzi insistenti. Mentre Andrea riflette e cerca di accettare la novità, Silvia si rinchiude in un magico mondo virtuale che la rende disinteressata alla vita di sempre e proiettata in un futuro di successi. 
Starà ad Andrea deglutire l’amaro boccone dell’assenza: accontenterà la sua compagna restando solo nella fattoria impegnativa che ha immaginato per due persone. Il recinto sembrerà di colpo vuoto, i cavalli di Silvia si guarderanno attorno come cercandola e lei partirà nel giorno esatto in cui la scrofa darà alla luce i suoi piccolini, a lungo aspettati e immaginati dai ragazzi.
In questa attesa - assenza ritroviamo i rapporti sentimentali del mondo. Sacrificarsi e rinunciare a qualcosa per amore dell’altro è un duro banco di prova per molti di noi, ci si chiede se Andrea ne sarà capace e si giunge a un personale e silenzioso esame di coscienza. Lasciamo all’altro la libertà che merita per potersi esprimere appieno? Potremmo sopportare un distacco necessario per il bene delle nostre coppie?
Il lavoro di Palmieri, nato quasi per caso da un’idea di D’Attanasio a seguito dell’incontro con i due ragazzi al Caval Negher, riporta in noi dapprima la calma dei tempi che la montagna impone e poi la scossa elettrica della prospettiva americana, che potrebbe segnare un punto di svolta. O di rottura.
In questo lavoro semplice che mette in primo piano i giovanissimi e il coraggio delle loro scelte troviamo spunto per riflessioni personali, veniamo a contatto con gli ostacoli della convivenza, forse addirittura della “coesistenza” come persone innamorate l’una dell’altra eppure divise dagli obiettivi personali diversi. Silenziosa e rincuorante è l’idea che l’amore, infine, sappia attendere e preparare il terreno sul quale un giorno si erigeranno i nostri sogni.
Silvia e Andrea, ospiti di Biografilm, sono presenti in sala e uniti come sullo schermo. Ammettono con timidezza ai microfoni: “abbiamo rinunciato al pernottamento offerto dal Festival, ci rimettiamo subito in auto per tornare a casa”.
Gli animali li aspettano; è la vita che hanno scelto.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Festival Reportage

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Speciale Biografilm 2016:     Porno e Libertà                         Ma Ma - Tutto andrà bene    
                                                         Inside the Chinese Closet       Yo Yo Ma and the Silk Road Ensemble
    
Scheda tecnica


Anno: 2016 
Durata: 80' 
Regia: Vito Palmieri
Sceneggiatura: Vito Palmieri, Vanessa Picciarelli, Francesco Niccolai
Fotografia: Michele D'Attanasio
Montaggio: Paolo Marzoni Paolo, Corrado Iuvara

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BIOGRAFILM 12 - Inside the Chinese Closet, di Sophie Luvara

12/6/2016

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​Il film di Sophie Luvara arriva in questa dodicesima edizione del Biografilm Festival introdotto dalle parole di Vincenzo Branà, presidente del Cassero. Branà invita il pubblico a fare un esperimento a pochi minuti dall’inizio del film: tenere ben presente quel closet (armadio) che stiamo per vedere sullo schermo e cercare di portare questa esperienza nella nostra quotidianità e in questa città. 
Bologna è fatta anche di ragazzi cinesi che spesso vengono scacciati da casa a diciotto anni e cercano di esprimere la propria identità sessuale in un altro paese. Le famigerate chat, quali Grinder, offrono possibilità di incontro anche a quei ragazzi; peccato che spesso siano proprio gli italiani a dare indicazioni circa il loro compagno ideale specificando “no asian”. C’è un razzismo nel razzismo e Inside the Chinese Closet va a sbirciare proprio nella difficile situazione cinese, fatta di ragazzi ai quali spesso, noi italiani stessi, voltiamo le spalle.

Il doc si apre con le immagini di una felicità costruita: è quella delle coppie di sposini che si fanno immortalare al ciglio di strade trafficate in quella Cina lontanissima da noi. Pose alquanto studiate e sorrisi surreali, incredibili matrimoni attorno ai quali la regista compirà una serie di riflessioni. 
A guidarci attraverso il paese “dell’amor proibito” sono Andy e Zhouyang. Lui è gay, lei è lesbica. Se Zhouyang ha già abbracciato l’idea di un matrimonio di copertura continuando tuttavia ad avere le proprie relazioni omosessuali, Andy è in procinto di fare il grande passo. Anche per lui sarebbe consigliabile – stando a quanto suo padre gli intima ripetutamente al telefono – procurarsi una moglie che lo aiuti a difendere quella rispettabilità di facciata del tutto necessaria nella cultura cinese. 
Siamo di fronte a un’evoluzione spaventosa di una rigida mentalità perbenista. Se da un lato non ci stupisce pensare che in passato le famiglie imponessero ai figli gay di sposarsi e spacciarsi per eterosessuali, la Cina scavalca questa ingiustizia e arriva a un increscioso peggioramento: i capifamiglia possono ammettere che un figlio gay abbia relazioni con uomini, a patto che si procacci una sposa, la metta incinta e possa esibire dei figli di fronte alla sete di conferme degli altri. Il consiglio è dunque “fallo, ma in segreto”. 
Questa Cina ha mille occhi; sono gli occhi di coloro che scrutano nel matrimonio del vicino di casa e di fronte all’assenza di figli danno il via a un fiume di pettegolezzi in piena. Non importa con chi ci si corichi, l’importante è che l’immagine austera della famiglia tradizionale cinese venga tutelata. Ed ecco spiegato perché questo fenomeno ha preso piede in Cina in modo sconvolgente: ragazzi gay a caccia di mogli lesbiche, per stringere silenziosi patti coniugali dando in pasto un falso amore ai curiosi. 
La grande fabbrica dei matrimoni cinesi contempla largamente l’idea di questa ricerca. Per Andy significa affrontare una serie di questioni: è fondamentale che ci sia affetto con la futura moglie, laddove arrivino figli ci saranno problemi da porsi e sarà bene riflettere in anticipo sulle interferenze da parte delle rispettive famiglie. “Quando i miei genitori saranno anziani tu dovrai occupartene e io farò lo stesso per la tua famiglia” dice Andy a un’aspirante moglie, durante un appuntamento. È questa la genesi di un matrimonio con obblighi e doveri, con diritti silenziosamente accordati in privata sede. Sullo sfondo c’è l’alternativa: psicologi che affermano di poter curare “la patologia”.
L’eventualità dei figli pone di fronte a un limite prevedibile, il concepimento. Come tale subentra un altro oscuro settore di questa incredibile fabbrica: si ricorre così alla fecondazione assistita, alle madri surrogate in Thailandia e al traffico di bambini.
Per Zhouyang, sorridente e mascolina ragazza dal nome che significa “ciliegia”, la maternità è una croce imposta dal contesto famigliare. La seguiamo increduli attraverso una porzione di Cina assai povera, un piccolo mondo di pescatori, una casa misera dove i pasti si consumano animati soltanto dal suono delle bacchette che raccolgono riso nelle ciotole. I suoi genitori non si accontentano di saperla sposata e sollecitano l’arrivo di quel figlio che darebbe loro una rinnovata rispettabilità. Madre e figlia pianificano persino l’acquisto di uno dei tanti neonati che vengono abbandonati all’ospedale. 
Ecco che il figlio diventa articolo, oggetto, valore aggiunto, obbligatorio indicatore di serenità coniugale, scelta strategica: di lui si parla come soppesandolo, “preferirei che fosse maschio anche se costa di più”, “dobbiamo essere certe che ce ne diano uno sano”. Nell’ombra della stanza c’è sempre quel padre che nega il dialogo alla figlia, e che in passato ha sedato le turbolenze con sberle e voce grossa. Zhouyang è stata espulsa dalla scuola per un primo grande amore che racconterà a bassa voce sulla veranda di casa, un amore osteggiato dalla famiglia e dalla scuola, punito con la violenza e tuttavia talmente prezioso da resistere e portarla a scavalcare un muro alle due del mattino per un solo, breve e liberatorio bacio a quella ragazza che l’aveva fatta innamorare.
L’armadio cinese, l’armadio dei segreti, è quella condizione che impedisce ai ragazzi omosessuali di uscire allo scoperto. Ciò che questi ragazzi hanno compreso è che una volta usciti dalle loro prigioni e trovato il coraggio per dire ai genitori “sono omosessuale”, sono stati i genitori stessi a rifugiarsi nell’armadio. Ora sono loro a vivere nell’ombra del segreto scottante, a non saper sostenere il peso della realtà, a nascondersi tenendo ben chiuse le ante di quel luogo segreto perché nessuno venga a sapere.
“Dobbiamo proteggerli dalla verità” dicono i ragazzi. Così si sposano dopo lunghe ricerche, messaggi in chat, fotografie, descrizioni virtuali di coloro che potrebbero essere le compagne o i compagni di vita. Senza amore ma al solo fine di tranquillizzare le famiglie.
Si esce dalla sala riflettendo sugli armadi del nostro paese, di altri paesi. C’è la triste consapevolezza di fondo legata all’idea di quei luoghi segreti dove qualcuno da qualche parte del mondo, anche adesso, è costretto a nascondersi.
C’è l’amore che vorremmo uguale per tutti, e il desiderio irrealizzabile di armadi spalancati.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Festival Reportage


Scheda tecnica

Titolo originale: Inside the Chinese Closet
Regia: Sophie Luvara
Anno: 2015
Durata: 72'

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BIOGRAFILM 12 - The Music of Strangers: Yo Yo Ma and the Silk Road Ensemble

10/6/2016

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​È la prima serata ufficiale della dodicesima avventura targata Biografilm. Il cielo su Bologna è di umore imprevedibile, fra un capriccio piovoso e l’altro una folla curiosa ed elegante si avvicina all’Unipol Auditorium ed è per noi che, di lì a poco, il prodigio del Biografilm prende forma per una prima e già memorabile volta. 
In sala si respira la magia della straordinaria visione che Biografilm propone per la serata di gala, una scelta che ha già il suono di una promessa: “anche in questa edizione 2016 avremo cura per l’animo umano”. Sembra dire questo, la grande e ben oliata macchina del Biografilm, accogliendoci in una sala impreziosita da presenze prestigiose fresche di Giuria Internazionale: Antonio Martino, regista di Black Sheep, Olivia Corsini, Chad Gracia, regista di The Russian Woodpecker e reduce da centosedici festival. Non mancano poi le madrine: Gianna Serra della prima edizione Biografilm, l’attrice bulgara Margita Gosheva per l’edizione corrente e la cantante Nada, alla quale è affidato l’evento di inaugurazione del Bioparco di venerdì 10 giugno. Sarà la stessa Nada a salire sul palco per commentare l’importanza delle grandi storie, storie che a sua volta racconta attraverso la musica con immutata energia. 
A fare gli onori di casa sono Alberto Federici di Unipol e Andrea Romeo, direttore del Festival, innovatore dalle intuizioni brillanti e un limpido, manifesto amore per la bellezza della cultura. Cultura che può rivoluzionare linguaggi e spargersi come linfa risanatrice in una platea, cultura ancora una volta celebrata per portare il cinema di nicchia al grande pubblico. 
Romeo ringrazia i ventidue collaboratori che hanno reso possibile il sogno di una dodicesima edizione assieme. In un crescendo di curiosità generale, il direttore prepara il pubblico alla storia di Yo Yo Ma: “abbiamo scelto questo film perché contagia le persone, è il film che non ti aspetti”. Dopo una prima visione a Toronto e un trionfo a Berlino, viene distribuito in USA da The Orchard (nuova etichetta Sony) e in Italia spetterà a Unipol Biografilm Collection il compito di portarlo nelle sale. In attesa della visione aperta al pubblico – prevista per il giorno 16, alla presenza di Cristina Pato – Yo Yo Ma è piovuto sullo schermo con la sua ironia e semplicità. Ha acceso nel pubblico una fiammella di speranza, ha sussurrato al nostro orecchio i suoi segreti, ha zittito le bombe con tamburi, violoncelli e grandi talenti raccolti per il mondo.
Sullo schermo, in questa prima magica notte, c’è la promessa di un Festival all’altezza dei precedenti. Una celebration of lives che ancora una volta fa incetta di vite indimenticabili.

Il film

Può il coraggio della musica zittire la paura della guerra?
Per Yo Yo Ma non è impossibile, basta quel pizzico di incoscienza che muove le grande missioni.
Per lui, enfant prodige abituato a domare il violoncello fra gli applausi di Kennedy e Bernstein, la musica è sempre stata l’unica risposta possibile; così l’ha portata in giro, in spalla e in tasca, negli occhi e in valigia, per il mondo. Teme le interviste, teme le domande e ironizza persino sul grande successo che l’ha portato a suonare in piazze prestigiose: Yo Yo Ma, violoncellista umile nell’animo, si presenta così, fra una barzelletta da risata a denti stretti e una risposta imbarazzata. L’amico John Williams, parlando di lui, sottolinea il grande pericolo che corrono i bimbi prodigio: come mantenere vivo l’interesse? Come crescere assieme alla musica e puntare a un’evoluzione?
Sono domande che si è posto anche Yo Yo Ma, genio irrequieto, quando è andato alla ricerca della propria voce. Perché la musica, a sentir lui, “gli è capitata, l’ha fatta, ma non si è impegnato”, è una sorta di dono caduto dal cielo al quale un giorno si è visto costretto a dare un taglio personale. Per non scomparire inghiottito da una trasmissione televisiva, per non scivolare nel buio dei vaghi ricordi altrui, per darsi un significato.
L’idea è folgorante e ambiziosa: riunire in un workshop 60 elementi di ogni parte del mondo, musicisti che rechino in dote la propria cultura, i propri strumenti tradizionali. Sono sessanta musicisti sulla via della seta e si riuniscono per la prima volta nel 2000, in Massachusetts, mentre gli amanti dei repertori classici storcono il naso e accusano Yo Yo Ma di aver creato un fenomeno di turismo culturale. Per il coraggioso violoncellista però le critiche fanno parte del gioco, e il gioco stesso continua in una festosa fusione di suoni che va perfezionandosi e trova un nome: The Silk Road Ensemble.
Si intrecciano così i racconti che il regista Morgan Neville carezza uno ad uno, con tatto e profondo rispetto.
Possiamo sbirciare negli occhi umidi di un clarinettista siriano che definisce casa “il luogo dove sei libero di dare il tuo contributo senza sentirti in dovere di giustificarti” e suona lontano dalla terra natale, serbando nel cuore l’orrore per le esplosioni e la devastazione, tornando talvolta a casa per insegnare la musica ai bambini senza futuro.
Wu Man non vuole essere “solo una suonatrice cinese di pipa”, è una bizzarra rockstar che ha imparato a suonare per fuggire. Nel 1966 la Cina conosce la Rivoluzione Culturale e mentre le passioni artistiche si plasmano sui modelli imposti, Wu Man sente che il Conservatorio non le basta più: lì non si respira l’aria occidentale e lei “vuole uscire dalla Cina per vedere che sta succedendo là fuori”. Così raggiunge l’America, è una ragazza giovane e agguerrita e viaggia con uno strumento sconosciuto a molti, è tutt’altro che “una suonatrice cinese di pipa”, è pura innovazione.
Per Kayhan Kalhor la casa ha un nome e si chiama Iran. Costretto a lasciare la famiglia all’età di 17 anni, si arrabatta lavorando come contadino e si porta appresso un piccolo zaino e un Kemence, antico strumento che solo gli anziani insegnano a suonare. Per lui, quella tradizione è come una foto ricordo di casa, e diviene il punto di inizio per una crescita musicale ininterrotta. Anche quando la famiglia viene sterminata, anche quando il suo stesso paese rifiuta di accoglierlo giudicandolo “pericoloso”. Costretto a passare lunghi periodi separato dalla moglie, Kayhan suona per gli amici che ha perduto, per l’amore che non può abbracciare, per il paese che ha chiuso le porte all’arte libera.
Cristina Pato – a Bologna il giorno 16 – è una ragazza galiziana armata di gaita. La cornamusa ha per lei la voce di un padre, è la sua radice e la accompagna fra orizzonti tersi e campagne magiche, quando torna in quella terra aspra ed economicamente debole: la Galizia, nord ovest della Spagna, da sempre isolata per costumi e lingua dal resto del paese. La casa di Cristina è umile, calda, attorno alla tavola c’è una famiglia chiacchierona e allegra, una mamma dalla memoria vacillante, i piatti saporiti della tradizione. Cristina è la figlia artista un po’ ribelle, sorriso sincero e capelli screziati di verde, un fascio di energia e sentimento a servizio di una cornamusa e dei suoi lamenti toccanti.
Sullo schermo scorrono così sogni e paure. Davanti ai fatti dell’11 settembre i musicisti si chiedono “Da oggi saremo forse un gruppo di nemici?”. Nessuna xenofobia, tuttavia, può sopravvivere al ritmo indiavolato di questi strumenti uniti. L’ensemble gira il mondo per un totale di 6 album, 2 milioni di persone accorse a concerti in 33 diverse piazze. Questo film diviene così una vera missione: la missione di una come Wu Man, che torna alla ricerca della sua Cina di tradizioni musicali polverose, da scantinato, da piccolo cortile. Diventa l’opera minuziosa di un violoncellista di nome Yo Yo Man che ha fuso talenti in un ensemble che grida “Non apparteniamo a nessuno se non alla voglia di stare uniti”. La musica volta le spalle ai potenti e ai tiranni, lo stesso Kayhan sorride in camera e dice “Nessuno ricorda chi fosse il Re ai tempi di Beethoven”.
In quella frase è racchiusa la via della seta e le sue curve imprevedibili, la potenza dei suoi suoni e la forza dei suoi componenti, ciò che di bello rimarrà alle generazioni successive, i fiori sbocciati fra le bombe.
Questa dodicesima edizione del Biografilm Festival si apre con un messaggio di libertà creativa, fa danzare i piedi fra le file di poltroncine immerse nel buio e giunge ai titoli di coda con una pioggia scrosciante di applausi davanti al genio di Yo Yo Ma e dei suoi amici. Amici del mondo.

Maria Silvia Avanzato

Sezione di riferimento: Festival Reportage

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Scheda tecnica

Titolo originale: The Music of Strangers: Yo-Yo ma and the Silk Road Ensemble
Regia: Morgan Neville
Anno: 2015
Durata: 96'
Con: Yo-Yo Ma, Kinan Azmeh, Kayhan Kalhor, Cristina Pato, Wu Man
​Uscita italiana: 24 novembre 2016

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