ORIZZONTI DI GLORIA - La sfida del cinema di qualità
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BFM 40 – It Is Not Over Yet, di Louise Detlefsen

2/4/2022

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​Ai margini della foresta danese c’è una piccola casa di cura, i cui ospiti sono anziani affetti da gravi forme di demenza senile. I familiari li fanno ricoverare quando diventa troppo complesso occuparsene, anche perché si tratta di persone che hanno bisogno di assistenza a tempo pieno. Gran parte delle volte questi uomini e queste donne camminano attraverso l’ultimo stadio delle loro vite, in attesa di una fine ormai prossima. Alcuni hanno smarrito totalmente o quasi il contatto con la realtà, altri riescono ancora in parte a ragionare ma non a sufficienza per mantenere un appiglio continuo e solido con il mondo. Così arrivano al ricovero, chiamato Dagmarsminde, spesso ignari di cosa sia il luogo in cui trascorreranno il tempo che resta.

In Danimarca, così come altrove, pullulano case di accoglienza dove i pazienti vengono "curati" con micidiali cocktail a base di antidepressivi, sedativi e altre tipologie di stordenti farmaci. Imbottiti di medicinali, vagano come zombi inebetiti, nell’abbandono e nella solitudine, con quantitativi pressoché inesistenti di reale vicinanza umana. Un triste epilogo, nonché un umiliante approccio all’aldilà. A Dagmarsminde invece i meccanismi funzionano in modo assai differente: la fondatrice May Bjerre Eiby e le altre infermiere affievoliscono i farmaci, li riducono al minimo indispensabile, salvo casi di estrema necessità, per concentrarsi su un metodo di conforto che prevede ingredienti ben più gradevoli. Ai pazienti è quotidianamente offerta una ricetta a base di sorrisi, abbracci, carezze, passeggiate nella natura, svago al sole, attività, torte, canzoni, feste, celebrazioni, dialogo, ascolto, attenzione e comprensione.

Ciò naturalmente non serve a farli guarire. Forse nemmeno a prolungare la vita. Ma senz’altro è utile per donare loro una fine dignitosa e allegra, indipendentemente da quanto siano o meno in grado di comprendere. Le infermiere sfoggiano tanta pazienza, tanta determinazione; sopportano momenti di difficoltà, crisi improvvise di astio o smarrimento; si dedicano anima e corpo a una missione a dir poco lodevole, amano questi anziani trasformati dalla malattia nuovamente in "bambini", ma accettano quando è ora di lasciarli andare. Non c’è nessuna forzatura, nessun tentativo di prolungare un presente che non ha più energia; nell’istante in cui si rendono conto che il sentiero è giunto al termine, prendono (letteralmente) per mano i degenti e li accompagnano sino al respiro conclusivo. Prima, però, c’è spazio per il gioco, il buon cibo, fragranti bevande da sorseggiare, compleanni e anniversari da onorare; c’è terreno da coltivare con tolleranza, fratellanza, condivisione. Ci sono luce, risate, sensibilità e tanta straordinaria dolcezza.

Presentato al Bergamo Film Meeting, evento nel quale i documentari sanno sempre occupare un posto di assoluto rilievo, in virtù delle ottime scelte compiute dai selezionatori, Det er ikke slut endnu (It Is Not Over Yet) ha strappato grandi applausi alla platea. Diretto da Louise Detlefsen, già autrice di altri lavori documentaristici passati in televisione e in vari festival europei, è un forte schiaffo di bontà, capace di emozionare e commuovere senza alcuno sforzo. Le giornate all’interno della casa di cura ci sono mostrate raccogliendo spunti, attimi, situazioni normali e particolari, liete o dolorose, con dovuto rispetto, senza eccessi né superflue spettacolarizzazioni. Il quadro che ne esce smuove le lacrime di chi guarda, rifuggendo dal pericolo di artificialità insito nel significato stesso di una simile opera. Si potrebbe forse obiettare un disegno d’insieme sin troppo edulcorato e unilaterale, ma noi non vediamo ombre nella sincerità sia della realizzatrice sia di queste infermiere, Angeli custodi che oltre alla professionalità usano l’impegno del cuore, per arrivare là dove la mente ha staccato i fili.

It Is Not Over Yet è un balsamo di umanità con cui lenire la miseria e lo squallore che ci circondano. Un balsamo bellissimo che avvolge, riscalda e non si dimentica.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival Reportage


Scheda tecnica

Titolo originale: Det er ikke slut endnu
Titolo internazionale: It Is Not Over Yet
Regia e sceneggiatura: Louise Detlefsen
Fotografia: Per Fredrik Skiold
Montaggio: Julie Winding, Jakob Juul Toldam
Musiche: Jonas Colstrup
Anno: 2021
Durata: 96’
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BFM 40 – The Sailor, di Lucia Kašová

31/3/2022

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Come d’abitudine, uno dei tanti meriti del Bergamo Film Meeting è offrire uno sguardo ampio e diversificato sul mondo dei documentari, racchiusi nella ormai consolidata sezione Visti da Vicino, dalla quale si riesce sempre a estrarre spunti interessanti e storie che sanno colpire profondamente l’anima. L’edizione 40 della rassegna lombarda non fa eccezione, garantendo notevoli scelte in tale direzione; ad esempio The Sailor, diretto dalla regista slovacca Lucia Kašová, classe 1983, già autrice di apprezzati cortometraggi e qui al suo primo lavoro nel genere documentaristico.

Paul Johnson è un marinaio. Ha girato il mondo a bordo della sua barca a vela, attraversando più e più volte l’Oceano Atlantico e raggiungendo persino territori inesplorati. Ora ha 80 anni, un fisico fiaccato dalla vita avventurosa e dagli eccessi alcolici, eppure non rinuncia in alcun modo alla sua indipendenza. Nonostante l’età avanzata e i movimenti faticosi, trascorre quasi interamente il suo tempo da solo, sulla barca, unica possibile casa per un uomo che non ha mai voluto restare troppo a lungo sulla terraferma, preferendo l’immensità del mare e la bellezza dell’autonomia decisionale. Ancorato al largo di Carriacou, isola nei Caraibi del sud, il protagonista si lascia cullare dal blu del panorama, passa le giornate rimembrando tanti episodi di tempi lontani, sorseggia ampi quantitativi di vodka, birra e rhum, nutre gli uccelli che volano lì attorno e scende a riva solo saltuariamente, per andare in un piccolo supermercato e procurarsi il minimo indispensabile. È solo, ma non del tutto: alcune persone del posto lo aiutano in termini pratici, si occupano della sostituzione del motore rotto, lo trainano verso ripari sicuri se il meteo prevede tempesta, gli regalano un abbraccio o una chiacchierata di tanto in tanto: il loro sostegno è genuino, non prevede nulla in cambio e non intacca il sostanziale eremitismo di un condottiero che non rimpiange affatto il modo in cui ha scelto di condurre il suo percorso esistenziale.

La figura di Johnson guida e raccoglie tutto il significato di The Sailor, lavoro emozionante per come riesce a farci penetrare negli occhi di questo vecchio girovago che dichiara con orgoglio: "non ho mai voluto dipendere da nessun altro al di fuori di me stesso". I suoi racconti spaziano dalle donne che ha avuto ("le ho amate tutte disperatamente") al dolore per la prematura scomparsa della sorella gemella, dalla fierezza per le barche innovative che nel tempo ha costruito (poi copiate a livello internazionale) alle storie di naufragi da cui ogni volta è riuscito a riemergere, da momenti di commozione quando guarda foto di persone perdute ad attimi di puro e idilliaco silenzio dolcemente accompagnati dal rollio e dai suoni del mare. La regista e il direttore della fotografia Martin Jurči lo filmano in disparte, senza prevaricarlo né dialogare direttamente con lui; il montaggio lascia fluire immagini e voce fuori campo (dello stesso Johnson), trasportandoci in un mini-universo ebbro, errante ma in fondo anche protettivo, nel quale l’attesa della morte non comporta paura, bensì pace e consapevolezza di aver consumato l’esistenza secondo i propri desideri.

Il marinaio conferma il suo status di alfiere del rifiuto all’oppressione sociale in ogni particolare: non indossa mai le scarpe nemmeno quando si reca sulla terraferma, cammina a piedi nudi anche al supermercato, sull’asfalto o in mezzo alle pozzanghere, non vede nessuna ragione per la quale dovrebbe smettere di bere, stigmatizza il "fottuto internet" e altre diavolerie del commercio e della modernità, senza per questo ergersi a eroe. La sua semplicità d’intenti ce lo fa amare senza sforzo, così come i suoi occhi non del tutto lucidi ma sinceri. Al contempo restiamo colpiti dai gesti di umana solidarietà nei suoi confronti, una solidarietà vera, concreta, non fasulla e artefatta come quella a cui troppo spesso assistiamo, in questo periodo più che mai.

The Sailor è un vero inno alla libertà, declamato piano, sottovoce, senza bisogno di affastellamenti visivi e altisonanti sollecitazioni. Un'opera limpida, come le acque su cui respirano le stanche membra di un uomo che a testa alta si prepara ad affrontare il suo ultimo viaggio.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival Reportage

Link per la visione integrale del film su Youtube con sottotitoli in inglese e per il making of del documentario. 

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Scheda tecnica

Titolo originale: The Sailor
Anno: 2021
Regia e sceneggiatura: Lucia Kašová
Musiche: Martin Turcan
Fotografia: Martin Jurci
Montaggio: Roman Kelemen
Durata: 78’
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BFM 40 – Die Saat (The Seed), di Mia Maariel Meyer

28/3/2022

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​In corso di svolgimento l’edizione numero 40 del Bergamo Film Meeting, traguardo importante per una manifestazione che continua a proporre ogni anno cinema di grande qualità, e che ha saputo resistere alle difficoltà legate alla pandemia. Programma come sempre ricco e stimolante, tra opere di fiction in concorso, documentari, omaggi e retrospettive (Costa-Gavras, Patrice Toye, Danis Tanović), animazione, classici, eventi per le scuole, proiezioni storiche e legami con altre forme d’arte.

Nella principale sezione competitiva ha trovato posto Die Saat (The Seed), secondo lungometraggio della regista tedesca (ma di origine finlandese) Mia Maariel Meyer, classe 1981, già autrice anche di corti e documentari.
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​Al centro della scena Rainer, capocantiere edile che ha appena acquistato una casa da ristrutturare in cui vivere insieme alla moglie Nadine, incinta, e alla figlia tredicenne Doreen. La situazione inizia a precipitare quando Rainer senza colpa viene retrocesso al ruolo di semplice operaio, con annessa diminuzione di stipendio: i costi per i lavori da compiere all’interno della nuova abitazione diventano complesse da gestire, la pressione sale, il senso di ingiustizia anche. Poco alla volta il lieto quadretto familiare si sfalda, la vicinanza affettiva tra i suoi membri vacilla, l’opprimente confronto quotidiano con la realtà sociale e lavorativa pone a serio rischio certezze e speranze, amore e sogni. Alla pesantezza emotiva che stringe la gola di Rainer si aggiungono i rischi derivati dalla pericolosa amicizia di Doreen con una coetanea che la spinge a gesti inconsulti e crudeli, azioni che la timida ragazza compie di malavoglia solo per sentirsi accettata e benvoluta, mentre i genitori sprofondano tra le pareti semibuie della casa ancora sottosopra, sommersi da uno spietato fardello di conti da pagare e prevaricazioni professionali.

La regista ha definito The Seed come un "thriller sociale", enunciazione che ben raccoglie le intenzioni di un film il cui obiettivo è mostrare una condizione nient’affatto estranea alla normalità del vivere contemporaneo, dove i meriti quasi mai vengono riconosciuti e il mondo scopre denti aguzzi che mordono e strappano progetti e aspirazioni. Per realizzare il suo scopo, la Meyer pone sul piatto una messinscena di per sé abbastanza standardizzata, sebbene non priva di una forza d’insieme che ne rende compatto e solido lo sviluppo.
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Passato in rassegna all'ultimo Festival di Berlino, The Seed è a tutti gli effetti un film tedesco, ma ha dentro molto cinema francese recente. Il subdolo e inesorabile percorso distruttivo di Rainer riporta alla mente il Romain Duris di Nos Batailles, con un pizzico del Vincent Lindon di La loi du marché, mentre il sottomesso rapporto di Doreen con l’amica Mara rievoca fortemente il malsano legame tra Joséphine Japy e Lou de Laâge in Respire di Mélanie Laurent.
​A toni piuttosto soffocanti, tra casa e cantiere, fatica e sudore, arsura e secondi lavori umilianti che fiaccano le residue resistenze fisiche e mentali, si alternano isolati sprazzi di gioia, sfogo e complicità (una nuotata, una passeggiata a cavallo, un gioco scherzoso tra padre e figlia), i cui effetti diventano però via via meno consistenti. I protagonisti lottano, cercano di non mollare ("in qualche modo ce la faremo anche stavolta"), affrontano le loro solitudini, provano a tenere a bada una rabbia acuta. Nonostante i lodevoli tentativi, l’amaro calice del sopruso continua a scendere in gola, viaggiando di pari passo con la costruzione scenica di un film che cammina a media andatura verso un epilogo persino necessario, senz’altro prevedibile ma rappresentato in modo efficace tramite montaggio parallelo.

The Seed non inventa nulla di nuovo, né dal punto di vista tecnico né dal lato narrativo. Sa però dotarsi di ritmi, spazi e volti giusti (in particolare il prestante Hanno Koffler, anche co-sceneggiatore, e la giovane Dora Zygouri), con cui disegnare un’opera realistica, sporca e rugginosa quanto basta e capace di raccontare una tra le tante piccole storie di sfruttamento e disperazione che proliferano intorno a noi.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival Reportage

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Scheda tecnica

Titolo internazionale: The Seed
Titolo originale: Die Saat
Anno: 2021
Regia: Mia Maariel Meyer
Durata: 99'
Sceneggiatura: Mia Maariel Meyer, Hanno Koffler
Fotografia: Falko Lachmund
Montaggio: Gesa Jäger
Attori: Hanno Koffler, Dora Zygouri, Anna Blomeier, Andreas Döhler, Lilith Julie Johna
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BFM 39 – Fantasmi, follie, rinascite e zuppe d’aragosta

30/4/2021

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​Come ogni anno, il Bergamo Film Meeting si conferma sinonimo di qualità e liete scoperte. Un festival che apre gli occhi al mondo e permette di scoprire orizzonti nuovi, spesso lontani, altrettanto spesso inattesi, in un bel labirinto di visioni che corrobora la mente. Anche l’edizione 39, pur confinata alla modalità online, non è stata da meno, proponendo storie di ogni prospettiva ed epoca, su e giù per i continenti ma con uno sguardo in particolare attento alle mutevoli traiettorie del cinema europeo, passato e presente.

Il concorso lungometraggi ha messo in mostra sette titoli, tra i quali ci piace sottolineare gli stessi tre che avevamo già evidenziato nell’articolo di presentazione del programma, se non altro per il fatto che su di essi puntavamo aspettative nient’affatto deluse, pur con qualche limite peraltro non sufficiente a inficiare la sostanza.
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Innanzitutto il belga Une vie démente, di Ann Sirot e Raphaël Balboni, racconto di una giovane coppia che vorrebbe avere un figlio ma è costretta a rivedere i piani a causa della malattia mentale degenerativa che colpisce la di lui madre. Una sorta di Alzheimer, responsabile della lenta ma inesorabile regressione di una signora di mezza età che inizia a scordare le cose, abbandonarsi a comportamenti strani, perdere il controllo di se stessa e della realtà, sino a (ri)trasformarsi in un infante da accudire a tempo pieno. Il film mette in scena una tematica alquanto dolorosa e toccante, già esplorata da altri cineasti, scegliendo però toni originali, intermedi, non troppo cupi, dove c’è spazio anche per momenti di sorriso e leggerezza, pur sempre con l’ombra inclemente degli eventi, la difficoltà di riorganizzare la propria esistenza sulle altrui esigenze, le inevitabili incomprensioni e gli attimi di sconforto e stanchezza. 
L’attrice Jo Deseure sforna un’interpretazione a tutto tondo per lasciarci entrare nella confusione di una donna che smarrisce autonomia e consapevolezze, mentre il figlio e la nuora si ritrovano loro malgrado a testare una prima esperienza “genitoriale” ben diversa da quella che avevano immaginato e sognato. Il lavoro della coppia di registi perde talvolta il giusto ritmo ma torna subito a tenere il passo, si lascia apprezzare e fa riflettere, scivolando soltanto in un finale zuccheroso, decisamente favolistico e assai poco credibile.
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Sempre dal Belgio arriva Ghost Tropic, di Bas Devos, viaggio notturno tra le strade di Bruxelles per una donna delle pulizie che alla fine del turno di lavoro si addormenta sull’ultima metro, si risveglia al capolinea, non ha i soldi per un taxi ed è costretta a un lungo tragitto a piedi per tornare a casa. Idea semplice, quasi mero pretesto per un’immersione nella città che non dorme e nelle figure saltuarie che la popolano. Senzatetto congelati, guardiani di centri commerciali, forze dell’ordine, commessi impegnati sino alle ore piccole, operatori di pronto soccorso, ragazzi errabondi: gli incontri più o meno fugaci della protagonista Khadija (Saadia Bentaïeb, ottima attrice di teatro qui alla sua prima esperienza importante nel cinema) costituiscono il cuore pulsante del film e riescono a ipnotizzare lo spettatore, abbracciato dalle ombre del buio e dalla variegata umanità che appare e scompare.
Un universo parallelo, silente, a tratti persino fantasmatico, attraversato da solitudini, disperazioni, altruismi e genuine gentilezze. Anche in questo caso, l’unico appunto lo si può forse destinare all’epilogo, disponibile a molteplici interpretazioni ma poco attinente alla (bellissima) atmosfera che avvolge tutta l’opera.
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Ci spostiamo infine nell’Europa dell’Est con il rumeno/ungherese Spirál, di Cecília Felméri, storia di un uomo e una donna che vivono isolati in una vecchia casa sulle rive del lago, sostenendosi con l’attività di pesca. Un Eden immerso nella natura, ma altresì un luogo in passato teatro di ferite mai rimarginate; un soffice cuscino ovattato, lontano dai miasmi dell’affollata civiltà, ma pure una prigione di malcelata sopportazione per chi non riesce ad adattarcisi sino in fondo. Opera controllata, tenue, molto apprezzabile per i toni dimessi e sommessi, trainata dalla sempre più evidente necessità di uscire dal nido e tentare una possibile rinascita in un indefinito altrove. 

Oltre al concorso principale Bergamo, come d’abitudine, è terreno fertile per omaggi e retrospettive: quest’anno, tra Schlöndorff, Jerzy Skolimovski, Márta Mészáros, Izabela Plucińska, João Nicolau e Mia Hansen-Løve, c’è stato davvero l’imbarazzo della scelta, senza scordare la vasta serie di incontri (virtuali), eventi collaterali e proiezioni speciali.
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Una citazione marcata la vogliamo però riservare alla sezione che si pone con piena certezza come fiore all’occhiello della kermesse lombarda, e non certo da oggi: Visti da vicino, dove albergano film documentari che ogni volta riservano sorprese a dir poco intriganti. Un esempio preminente, nell’edizione 39, l’adorabile Lobster Soup, degli spagnoli Pepe Andreu e Rafa Molés, abilissimi a condurci verso la cittadina islandese di Grindavik e il suo caffè Bryggjan, piccolo bar gestito da due fratelli da oltre 40 anni. Un bar all’apparenza modesto, vagamente pittoresco ma non certo irresistibile al primo impatto, dentro cui invece si schiudono significati straordinari. Al Bryggian, ogni giorno, si chiacchiera senza frenesia, si cercano soluzioni ai problemi del mondo, si invecchia dolcemente dopo una vita passata in mare, e poi si legge, si declamano poesie, si organizzano esibizioni musicali dal vivo, si serve zuppa d’aragosta, si accolgono turisti, si tramandano tradizioni locali e ci si scalda, corpo e anima, mentre fuori imperversano vento, gelo e neve.
Un lavoro profondamente empatico, con cui idealmente scavallare i confini e sederci anche noi là, attorno ai tavolini, tra quei volti coriacei ma cortesi, coccolati e ritemprati, sentendoci come a casa.
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Nelle terre del Nord ci sono esistenze semplici che in qualche modo diventano leggendarie, ed esistenze giovani che dopo l'oscurità provano a ritrovare un po' di luce: è il caso della diciottenne Emilie, protagonista di Alt det jeg (All that I am) della norvegese Tone Grøttjord-Glenne. Una ragazza la cui infanzia e adolescenza sono state spazzate via dai reiterati abusi sessuali subiti per interi anni dal patrigno. Ora Emilie prova a rientrare nella società, ad aprirsi con la famiglia lasciando emergere una volta per tutte ciò che per lungo tempo è stato sotterrato dall’omertà. In parallelo tenta di mettere le basi per un futuro normale, anche se gli effetti psicologici delle violenze ancora si fanno sentire e arrivano a bussare alla porta del cuore in qualsiasi situazione. Un cammino giocoforza ostico, da compiere inciampando e poi rialzandosi, alla ricerca della pace e di una nuova consapevolezza di sé, con cui farsi forza per allontanare l’orrore. 

Cinque titoli, cinque storie: tasselli di un panorama ben più ampio, condito da quel sapore appassionante che il Bergamo Film Meeting non manca mai di regalare.

Alessio Gradogna
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Sezione di riferimento: Festival Report

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BFM 39 – Presentazione del programma

21/4/2021

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​Senza le sale, ma con il cuore. Il Bergamo Film Meeting, da tanti anni una delle più belle e significative manifestazioni cinefile in Italia, torna in pista. Costretto all’annullamento nel 2020, e adesso obbligato alla sola modalità online a causa delle imposizioni governative, il festival bergamasco non rinuncia alle sue peculiarità e propone un programma comunque ricco di spunti, pur con la malinconia di doversi "accontentare" di proiezioni casalinghe in streaming.
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Dunque niente Auditorium, niente cinema San Marco, almeno ancora per quest’anno, ma dal 24 aprile al 2 maggio un’edizione nella quale nonostante tutto si sprecano i motivi di interesse. A partire come sempre dal concorso lungometraggi, con 7 film in anteprima nazionale, tra i quali, sulla carta, intrigano molto ad esempio i belgi Ghost Tropic (viaggio di una donna nella Bruxelles notturna con variegati incontri lungo la strada) e Une vie démente (coppia alle prese con una madre malata da accudire) e il rumeno/ungherese Spirál (dramma psicologico ambientato in una vecchia casa sulla riva del lago). Non manca poi la consueta sezione Visti da Vicino, con documentari indipendenti (molti di coproduzione francese o di provenienza nordica) dedicati a un eterogeneo spettro di tematiche.
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Accanto alle due parti competitive, ecco aggiungersi omaggi di varia natura. Europe, Now!, altro segmento ormai storico del BFM, è stavolta incentrato sulla francese Mia Hansen-Løve (ben conosciuta dal pubblico cinefilo per Eden, Un amour de jeunesse e L'avenir con Isabelle Huppert) e sul portoghese João Nicolau, autore di John From (visto nel 2015 al Torino Film Festival) e Technoboss (già selezionato in concorso a Locarno 2019). La retrospettiva è invece rivolta al maestro tedesco Volker Schlöndorff, con opere significative come Il tamburo di latta (Palma d’Oro a Cannes), Morte di un commesso viaggiatore, La mer à l’aube e Un amour de Swann. Ulteriori panoramiche sono inoltre indirizzate a Jerzy Skolimowski (6 titoli tra cui 11 minuti e Essential Killing), ai film d’animazione a passo uno in plastilina di Izabela Plucińska, a Márta Mészáros e alla splendida Agnès Varda (5 film tra cui Le bonheur e Les glaneurs et la glaneuse).

Infine, opportunità ad hoc per bambini e ragazzi delle scuole nella sezione Kino Club (su tutti lo strepitoso The Secret of Kells di Tomm Moore), Q&A virtuali con registi e tecnici, grandi classici (L’uomo che sapeva troppo di Hitchcock in doppia versione), suggestioni che incrociano cinema e arte contemporanea, masterclass, eventi speciali e ulteriori piccole chicche sparse in un programma davvero apprezzabile in rapporto alle infinite difficoltà del periodo.

In attesa quindi di tornare a respirare dal vivo l’aria di Bergamo, luogo quasi magico dove nel corso del tempo è stato possibile vedere indimenticabili pellicole di ogni epoca e incontrare personaggi meravigliosi come Robert Guédiguian, Ariane Ascaride e Jean-Pierre Léaud, il BFM resiste, combatte e ancora una volta mette a disposizione un cartellone di prima qualità.

​Sul sito ufficiale del festival i dettagli relativi alle piattaforme coinvolte e alle modalità di abbonamento e fruizione.

Alessio Gradogna

Sezione: Festival Report

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TORINO FILM FESTIVAL 37 – La gloria del passato, i dubbi sul futuro

2/12/2019

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​Dal 22 al 30 novembre si è svolta l’edizione numero 37 del Torino Film Festival, l’ultima affidata alla direzione di Emanuela Martini, in attesa di sapere se ci sarà una conferma con ulteriore mandato per lei e il suo staff o se la manifestazione finirà in mani nuove. Un’annata di transizione, apparsa in tono minore rispetto alla grazia a cui i giorni sotto la Mole ci avevano abituato, anche se come sempre non sono mancati titoli in grado di assicurare al pubblico torinese un ampio e diversificato ventaglio di visioni, in alcuni casi molto interessanti.
​Se da un lato va sottolineata la sempre più netta (ed eccessiva) preponderanza del cinema statunitense, a discapito in particolare del cinema francese, quest’anno quasi del tutto assente (perlomeno dalle sezioni principali), dall’altro la vastità del programma ha comunque saputo regalare momenti suggestivi un po’ per tutti i gusti.
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Il Concorso Internazionale, con giuria capitanata da Cristina Comencini, ha decretato la vittoria del finlandese A White, White Day, apprezzato dalla critica così come altri titoli di valore, su tutti il potente russo Dylda/Beanpole e il sorprendente film distopico spagnolo El Hoyo. Meritano senz’altro una citazione anche il tunisino Le rêve de Noura, vincitore del premio Fipresci, intensa storia di una donna in lotta per la propria emancipazione sentimentale, con una magnetica e magnifica protagonista (Hind Sabri) che avrebbe avuto tutte le carte in regola per ottenere il riconoscimento di miglior attrice (andato invece alle interpreti di Dylda), e il cileno Algunas Bestias, spietato e disarmante dramma familiare in stile hanekiano con una parte finale durissima, forse persino troppo, ma in grado di cogliere nel segno. È piaciuto (perlomeno al pubblico) anche l’italiano Il grande passo, nonostante faccia piuttosto sorridere il premio, palesemente patriottico, assegnato come migliori attori alla coppia Fresi/Battiston. 
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Una delle qualità che rendono il TFF un evento da anni imprescindibile nel panorama nostrano è la sua varietà, sempre in equilibrio tra attenzione al cinema d’autore e istanze più commerciali. Come accennato alcuni titoli, in particolare di provenienza statunitense, sono sembrati trascurabili, tutt’altro che necessari, così come è apparso superfluo l’inserimento di (troppe) pellicole non esaltanti di già stabilita e imminente distribuzione. Ma c’è stato comunque spazio pure per visioni di notevole pregio.
​Ci teniamo, ad esempio, a spendere qualche riga per Tommaso, di Abel Ferrara, lavoro autobiografico sospeso tra (poca) finzione e (tanta) realtà, in cui il grande autore, in una sorta di personalissima seduta psicanalitica, si mette a nudo per parlarci di sé stesso, attraverso il suo magistrale alter ego Willem Dafoe. Su e giù per le strade di Roma, tra bar di quartiere, spezzoni di umanità, giochi al parco, incontri con ex alcolisti, caffè serviti da donne completamente nude e lezioni di teatro, ed esprimendosi in tre lingue diverse, Ferrara/Dafoe racconta le sue esistenze passate e presenti, le paure inconsce, le insicurezze, le tentazioni, le nevrosi, generando un quadro filmico appassionante, con attimi di oscurità e polveri di sensualità. Una rappresentazione a tratti tenerissima e priva di pudori, al punto che il regista non si fa alcun problema a porre davanti alla macchina da presa la sua vera compagna (a cui fa simulare anche una scena di sesso abbastanza spinta con Dafoe) e la reale figlioletta di tre anni, traslando nell’oggetto cinema il centro focale del cuore e i tormenti dell’anima. Un’opera apparentemente bislacca e improvvisata, in realtà concreta e validissima. 
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Oltre al Concorso Internazionale, alla pantagruelica Festa Mobile e ad After Hours (quest’anno sottotono), gli spettatori del TFF hanno potuto dividersi tra documentari, cortometraggi, mini-retrospettive (come quella dedicata all’autrice macedone Teona Strugar Mitevska) e omaggi di varia natura, finendo poi in molti casi per confluire nelle meraviglie di Si può fare!, abbondante viaggio all'interno della storia del cinema horror dagli anni ’20 alla fine degli anni ’60, e nelle suggestioni impegnative ma brillantissime di Onde, dove sono stati mostrati tra gli altri Vitalina Varela di Pedro Costa (Pardo d’Oro a Locarno 72) e Synonymes di Nadav Lapid (Orso d’Oro a Berlino), titoli che avrebbero giovato di una collocazione più centrale. 
​Va poi sottolineata, una volta ancora, la bontà di Torino Film Lab, sezione spesso trascurata (da alcuni purtroppo perfino ignorata) ma come sempre capace di offrire incanti ben superiori rispetto ad altre zone del festival assalite con molta più veemenza. Un’ennesima conferma, con ottime produzioni come il ceco HRA/The Play, racconto poetico e vibrante in bianco e nero dove il dramma in scena corre in parallelo con il dramma della vita, e Port Authority, storia di un amore che supera confini, barriere culturali, omertà e pregiudizi.
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A fronte di una proposta contemporanea comunque nel complesso non entusiasmante, è nel cinema del passato che il TFF 37 ha trovato un decisivo sostegno, a partire dai film scelti dal guest director Carlo Verdone (che bello rivedere Divorzio all’italiana di Germi, Viale del tramonto di Wilder, Ordet di Dreyer), fino appunto ai capolavori che hanno seminato orme immortali nella leggenda del cinema del terrore, da La maschera del demonio di Bava a Il pozzo e il pendolo di Corman (entrambi presentati in sala dall’iconica Barbara Steele), dai Frankenstein di Fisher a La bambola del diavolo di Browning, da Ho camminato con uno zombie di Tourneur a Gli invasati di Wise, dal Nosferatu di Murnau a Rosemary’s Baby di Polanski, e molti altri. Peccato però che pochi di questi splendori siano stati proiettati in 35 millimetri.
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Non sapendo al momento cosa accadrà a livello istituzionale, va detto che il successo del TFF, con pubblico sempre numeroso e location affollatissime, necessiterebbe ormai di un ampliamento degli spazi e in qualche caso di strutture più consone (la sala 5 del Cinema Reposi, sede di Onde, è totalmente inadeguata per un evento di tale portata). Al contempo vige la speranza che i continui tagli al budget, e/o eventuali scelte artistiche deleterie, non finiscano per decretare l’inesorabile declino di un festival che negli ultimi 2/3 lustri ci ha donato un’infinità di memorabili ipnosi collettive (la febbre per i Masters of Horror, le strepitose retrospettive su Sion Sono e Polanski, la visione in anteprima nazionale di Holy Motors, Broken Trail, Les Bien-Aimés, La guerre est déclarée, Maniac, The Lords of Salem, L’économie du couple, solo per citare i primi luminosi ricordi che bussano alla mente). 
Nel tempo il festival ha acquisito un’identità più che consolidata; un pregio mai neanche avvicinato, tanto per fare un paragone, dalla Festa di Roma. Bisogna solo auspicare che la suddetta identità sia mantenuta ben salda e che il TFF, dalla cima del suo carattere al contempo “alto” e popolare, possa e voglia continuare anche in futuro a proporre tanto cinema di qualità. 

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Torino 34-36-37

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NOVARA INDIE FILM CONTEST – Nel nome del cinema indipendente

28/9/2019

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​Interessante appuntamento quello a cui si è potuto assistere il 26 settembre all’Araldo di Novara. Una maratona dedicata al cinema indie, con 7 ore ininterrotte di proiezioni rivolte a titoli estratti dall’edizione 2019 del Torino Underground Cine Fest, manifestazione capace di ricavarsi un ruolo al contempo ormai definito ma anche in costante crescita, utile per ammirare film di valore che ben difficilmente trovano spazio nelle pieghe contorte della distribuzione ufficiale. La giornata ha dunque assunto il ruolo di una sorta di spin off della casa madre torinese, la prima di altre costole dell’evento che avranno luogo nei prossimi mesi in città come Asti, Tortona e Savona, al fine di espandere sempre più le infinite suggestioni di un cinema poco visibile ma non per questo meno ricco di spunti e talenti.

Tanti i film proposti a Novara, tra corti e lungometraggi di provenienza in gran parte europea, con tematiche talvolta affini talaltre assai distanti, ma accomunate dal gusto per la sperimentazione e le traiettorie oblique del racconto. Una prima citazione in tal senso non può che essere rivolta a Ultra Pulpe, mediometraggio selezionato a Cannes 2018, diretto da Bertrand Mandico (conosciuto dai cinefili per Les Garçons sauvages) e interpretato da Elina Löwensohn (apprezzata ad esempio in Nadja, Un long dimanche de fiançailles, Vénus noire di Kechiche e La guerre est déclarée di Valérie Donzelli), Vimala Pons (Fidelio, l’odyssée d’Alice) e Lola Creton (Les Salauds). 
Un’opera lisergica, ambientata tra le viscere di un mondo fuori dal mondo in cui una regista (di nome Joy D’Amato!) sta completando le riprese del suo nuovo film, cercando al contempo di non far spegnere la storia d’amore che ha in corso proprio con la protagonista della pellicola. Celebrale, ipnotico, ad alto tasso erotico, deprivato di un unico senso di lettura per lasciare spazio a una molteplicità di strati e sotto-strati pregni di simbolismi, Ultra Pulpe si sviluppa tra connessioni uomo-macchina di cronenberghiana memoria, baci saffici che lasciano tracce di sangue sulle labbra e nel cuore, dialoghi surreali tra vivi e morti, rapporti carnali con la macchina da presa, approdi a pianeti in cui cercare la libertà e trovare invece paura e solitudine, tentativi di regredire allo stato primordiale per allontanare le contaminazioni del presente, trionfo dell’immagine come elemento destinato a durare in eterno in contrapposizione all’imputridimento del corpo, disperate richieste di contatto fisico con cui combattere il fallimento insito nell’illusorietà della creazione culturale. Un lavoro affascinante, dove si citano Max Ophuls, Emmanuelle e gli ultimi cannibali e Buio Omega, in una fusione tra cinema alto e (presunto) cinema di serie B, oltre la riva di una definitiva (e impossibile) verità dell’arte.

Più ancorato a strutture narrative di immediato riconoscimento invece Zauberer (Sorcerer), lungometraggio dell’austriaco Sebastian Brauneis, abile balletto corale durante il quale si dipanano storie contemporanee legate a perversioni dell’anima, storture della mente, desideri profondi e rapporti anaffettivi. Un labirinto di situazioni che iniziano per vie parallele salvo poi poco alla volta incrociarsi e ricongiungersi, permettendo ai personaggi di trovare inconsapevoli punti di contatto tra le singole mancanze.

Numerosi gli altri titoli di buon livello che meritano una sottolineatura, molti dei quali provenienti dalla Francia: Vire-Moi si tu peux, di Camille Delamarre, tenero cortometraggio in cui un capo del personale convoca un tecnico per licenziarlo ma resta rapito dalla gentilezza e dalla genuina innocenza del dipendente; Arthur Rambo, di Guillaume Levil, con un bambino che recita poesie di Rimbaud ai semafori per guadagnare qualche soldo e cerca non senza difficoltà di integrarsi con i suoi coetanei; Mon Royaume, di Guillaume Gouix, in cui tre fratelli, al grido di “on emmerde la nostalgie!”, provano ad allontanare la malinconia per chi non c’è più, salvo però sentirne ancora forte la mancanza di fronte alla bellezza di un’alba silenziosa.
Lodevoli inoltre l’olandese Dante Vs Mohamed Alì, di Marc Wagenaar, premiato nel 2019 al Torino Underground, intenso dipinto di un complesso amore omosessuale tra due ragazzi costretti a combattere uno contro l’altro, schiavi di una realtà troppo limitata e soffocante per comprendere i loro sentimenti; l’italiano Il tratto mancante, di Riccardo Roan, elegante corto sul tema della ricerca, della cecità di fronte alla parte inconoscibile di sé, di porte chiuse che forse possono finalmente aprirsi al sorriso di un sentimento; l’austriaco Up and Down, di Christopher Aaron, film d’animazione in cui un uomo si trova imprigionato in un universo in loop dove tutto si ripete ogni volta daccapo, senza alcuna plausibile via d’uscita. 

La rassegna di Novara ha proposto un panorama vario, eterogeneo, efficace nel fornire una piccola ma significativa dimostrazione di quanto il cinema indipendente sia fremente e carico di idee e coraggio; lo stesso coraggio di chi cerca di promuovere questi eventi anche in località dove la ricezione purtroppo risulta spesso a dir poco ostica.
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Appuntamento alla settima edizione del Torino Underground Cine Fest, in programma sotto la Mole a marzo 2020.

Alessio Gradogna
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Sezione di riferimento: Festival Report

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BFM 37 – Holy Boom, di Maria Lafi

15/3/2019

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​Non è semplice la vita per Ige, adolescente filippino immigrato in un paese della Grecia dove i suoi genitori gestiscono un ristorante. Integrarsi in una realtà molto diversa rispetto a quella delle sue origini è operazione complessa, la ragazza di cui è invaghito lo snobba e lo deride, molti dei compagni di scuola lo escludono perché in fondo, anche all’alba del 2018/2019, uno come lui è ancora soltanto un “muso giallo” da cui stare alla larga.
​Così, per sfogare un po’ di rabbia repressa, Ige, con la complicità degli unici due amici che ha, ogni tanto si diverte a far esplodere le cassette della posta di gente estranea. Un gesto condannabile, senz'altro, anche se il ragazzo nemmeno si immagina che quell'atto vandalico, compiuto nuovamente durante una notte di bagordi, possa essere sufficiente per cambiare radicalmente i destini di alcune persone. Ad esempio quello di Lena e Manou, che in quella cassetta avevano un pacchetto a loro indirizzato con dentro dei francobolli di LSD indispensabili per pagare il debito verso uno spacciatore; oppure quello di Adia, immigrata clandestina albanese che avrebbe dovuto ricevere il certificato di nascita del figlio; oppure ancora quello di Thalia, signora di mezza età in attesa di una lettera molto importante. Documenti e fogli bruciati, polverizzati dallo scoppio. Con conseguenze nefaste.
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Holy Boom, inserito in concorso al 37° Bergamo Film Meeting, è il lungometraggio d’esordio di Maria Lafi, nata ad Atene, già autrice di corti, spettacoli teatrali, video musicali e serie televisive. Un’opera corale che segue con il classico escamotage del montaggio parallelo i destini di personaggi assai diversi tra loro, per etnie, abitudini e sogni, ma accomunati da solitudine, esclusione e disperato bisogno di trovare un’esistenza migliore. 
Il punto focale del racconto non è tanto Ige, il giovane filippino autore del gesto che tutto smuove, quanto piuttosto Thalia, signora anziana acida e razzista che spia tutte le persone che estrano ed escono dalla palazzina in cui abita, si allontana sdegnata quanto nota un nuovo inquilino con un colore della pelle diverso dal suo, inveisce contro gli extracomunitari che le invadono il territorio invece di starsene a casa propria. In apparenza la figura della donna assume dunque stilemi piuttosto evidenti e schematici, salvo però mutare in corso d’opera la propria fisionomia comportamentale: sarà infatti proprio lei ad aiutare prima Lena e Manou e poi Adia, in parte per spirito di umanità, in parte per espiare il dolore dovuto a un trauma di tanti anni prima, mai superato.
Dalla figura a doppia valenza di Thalia si muovono le pedine dello scacchiere intessuto da Maria Lafi: una musicista greca ribelle che per amore si allontana dai genitori, una donna albanese sola che non avendo i documenti in regola non può nemmeno andare in obitorio a riconoscere il corpo del marito morto in un incidente, un ragazzo asiatico che cerca una personale e pericolosa vendetta contro le ingiustizie subite. Intorno a loro delinquenti e aguzzini, approfittatori e corruzione, violenza ed egoismi assortiti. A fare da contrappunto la sacralità solenne, le celebrazioni in chiesa a cui Thalia partecipa con fervore, la festa della Domenica delle Palme. Liturgia del rispetto e dell’amore reciproco, mentre dietro alle odi si consumano i drammi dei personaggi.

Holy Boom è un film sull’immigrazione, le difficoltà di radicamento, la povertà, sul sentirsi stranieri in terra straniera. Ma è anche, per usare la definizione della stessa regista, “un film sulla fede, non in senso religioso, ma nel senso di una profonda fiducia umana nella sopravvivenza”. Un lavoro multiforme, tanto da apparire talvolta indeciso sulla strada da seguire, tra humour nero, thriller, denuncia sociale, improvvisi squarci di lirismo, canti sacri e trascinanti sonorità vicine al metal. Eppure, anche nelle sue variazioni di forma e in un equilibrio estetico non facile da assemblare, l’opera della Lafi sa unire con brillantezza le tessere del mosaico, regalando allo spettatore un detonatore il cui sinistro ticchettio accompagna ogni minuto della visione, sino a saltare inevitabilmente in aria, come alcuni dei protagonisti.

​Non tutti, per fortuna. Perché il cielo non è soltanto nero, e almeno per qualcuno di loro si aprirà forse un piccolo orizzonte di speranza.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival

Scheda tecnica

Titolo originale: Holy Boom
Regia: Maria Lafi
Sceneggiatura: Elena Dimitrakopoulou, Maria Lafi 
Attori: Nena Menti, Luli Bitri, Anastasia Rafaella Konidi, Samuel Akinola, Spiros Ballesteros 
Fotografia: Ilias Adamis
Montaggio: Kenan Akkawi, Yorgos Paterakis
Anno: 2018
Durata: 99’

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BFM 37 – Røverdatter (My Heart Belongs To Daddy), di Sofia Haugan

14/3/2019

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​Sofia Haugan non vede suo padre da diversi anni. Lui trascorre la maggior parte del tempo in prigione. Il suo cruccio maggiore è aver perso la figlia, a causa di tanti errori peraltro mai interrotti. Un giorno i due si rincontrano: è da poco passato il compleanno di Sofia, così il padre si presenta con un regalo: un’autoradio, probabilmente rubata poche ore o pochi minuti prima.
​Sofia, giovane laureanda in regia documentaria, decide di iniziare a riprendere il padre, criminale e tossicodipendente, nel tentativo di raccontare con parole e immagini la complicata vita di lui e insieme con l’intento di scoprire se il cinema può aiutarla a trovare un riavvicinamento, a conoscere un uomo diventato in pratica un estraneo. Il primo risultato di questo esperimento è un cortometraggio intitolato A Little About My Dad. Ma Sofia capisce che la strada è solo all’inizio: c’è molto altro da mostrare, da analizzare, da capire. Così l’esperimento continua e si intensifica: la ragazza filma il padre per 6 anni consecutivi, dal 2012 al 2018, seguendone passo per passo le vicissitudini, senza rinunciare a proporre davanti alla macchina da presa anche momenti dolorosi e crudi; allo stesso tempo insegna al genitore come filmarsi da solo, in modo che lui possa riprendersi in autonomia anche quando la figlia non gli è accanto.
​Da questo doppio registro narrativo si accumulano ore di materiale, che la Haugan poi taglia e cuce per completare Røverdatter (My Heart Belongs To Daddy nella versione internazionale, anche se il titolo originale norvegese è in realtà traducibile come “figlia monella”), selezionato per la sezione Visti da vicino del 37° Bergamo Film Meeting.
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Chi è Kjell Magne Haugan? Se lo chiede la figlia Sofia, senza poter fornire una risposta esauriente. Un uomo malato, senza dubbio. Dipendente dalle anfetamine, dalla delinquenza, dalla voglia mai doma di autodistruggersi. Un antieroe che tanti anni prima si è perso, per non ritrovarsi più. Ma anche un bambino capriccioso, un adolescente fuori tempo desideroso di remare sempre controcorrente per sfidare la società, un vecchio tenero e stanco che alterna sprazzi di energia a momenti di abbandono. Kjell Magne Haugan è tutte queste persone in una. Un cleptomane che va negli hotel a rubare asciugamani, souvenir e perfino il menù del ristorante (!). Un reietto che rifiuta un'occupazione normale e allaga o brucia gli appartamenti in cui vive. Un pazzo che balla in mutande davanti alla macchina da presa, gioca con le armi e non si fa problemi a filmarsi anche mentre si infila la siringa in vena. Un fuggitivo che scompare proprio la mattina in cui deve essere ricoverato per cominciare un percorso di riabilitazione. Un debole che fa della droga e dell’alcool amici fedeli e indispensabili. Alla stregua della compagna Trude, anche lei tossicomane. 
Eppure Kjell Magne e Trude si vogliono bene. E questo padre snaturato vuole bene anche a Sofia, a modo suo. Sofia che cerca di aiutarlo, di seguirlo, di dargli nuove possibilità, puntualmente disattese. Sofia che durante questi 6 anni spesso accantona la sua vita per dedicare gran parte delle energie al genitore, ricevendone in cambio quasi sempre delusioni. Ma c’è qualcosa, tra loro. Un fil rouge poco visibile che però si sente nell’aria, nelle occhiate complici che si scambiano, negli sprazzi di humour nero che condividono, nella perseveranza con cui inseguono con determinazione i propri obiettivi, chiari o incomprensibili che siano. 
​
Il lavoro della Haugan in molti passaggi non è gradevole. Tutto il contrario. Eppure attrae, conquista, appassiona. Esiste anche un po’ di finzione scenica in qualche punto, come ammesso dalla stessa regista nell’incontro con il pubblico post-proiezione, ma c’è soprattutto tanta verità, tanto cuore, tanta rabbia. E qualche sorriso, in grado di riscaldare gli occhi e farci entrare ancora più a fondo in questa storia che magari non è nemmeno così lontana da altre storie che forse noi stessi abbiamo vissuto o stiamo vivendo. 
Sofia si copre inorridita lo sguardo mentre il padre si buca proprio davanti a lei. Sofia lo guarda ciondolare ubriaco provando un mix di angoscia e impotenza. Sofia telefona di qua e di là cercando soluzioni. Sofia gira per Oslo carica di livore, cercando il padre disgraziato che puntualmente scompare nei momenti meno opportuni perché “ha delle cose da fare” e non vuole essere di nuovo rinchiuso in gabbia. Sofia cerca spiegazioni e non ne trova, perché ogni volta che tira in ballo in passato o cerca di capire come mai si sia ridotto così, lui svia il discorso. Sofia corre e inciampa, si fa in quattro e combatte, crolla e piange, si asciuga le lacrime e riparte. Poi basta uno sguardo d’intesa, una battuta scema, un momento di pseudo intimità domestica e Sofia ride, assaporando attimi di felicità in cui recuperare, almeno in parte, gli anni di rapporto perduti. 

Lei ride. Noi con lei. Sempre più catapultati nelle pagine di un documentario davvero bello, emozionante e ricco di profondi significati. 
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A Bergamo, dopo i titoli di coda, alla domanda di uno spettatore sulle attuali condizioni del padre, la Haugan ha raccontato di come lui e Trude da alcuni mesi siano andati a vivere in una piccola isola. Passano il loro tempo creando decorazioni. Stanno meglio, si disintossicano, non vogliono tornare nelle squallide condizioni di prima. Cercano di tenersi fuori dai guai e sono “quasi” sobri e puliti. 
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Un lieto fine? Forse. Per merito del cinema? Anche. Quindi il cinema può salvare la vita? Magari no. Ma può essere di grande aiuto. Questo è certo.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Festival

Scheda tecnica
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Titolo originale: Røverdatter
Anno: 2018
Regia: Sofia Aronsen Haugan
Musiche: Hanne Hukkelberg
Sceneggiatura: Sofia Aronsen Haugan
Fotografia: Magnus Tombre Bøhn
Cast: Sofia Aronsen Haugan, Kjell Magne Haugan
Durata: 86’

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IL CINEMA RITROVATO 31 - Nel tempo e nello spazio

3/7/2017

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Il Cinema Ritrovato, al 31° atto, offre ormai un programma persino troppo pieno, al punto da generare un po' di frustrazione anche nel riepilogarlo.
Come sempre ci si muove nel tempo e nello spazio. Nel tempo perché si sono visti film del 1897, di Alexandre Promio, addestratore di operatori Lumière che firma centinaia di vedute, anche dall'Africa. E cinema del 1917, anno di guerra e delle rivoluzioni in Russia: da lì, alcuni film di Evgenij Bauer.
​Poi, pescando: Fear fa incontrare il regista Robert Wiene e l'attore Conrad Veidt prima de Il gabinetto del dottor Caligari. Protagonista un uomo che ha paura, perché per avidità ha sottratto un idolo sacro da un tempio. Un sacerdote si manifesta annunciandogli la morte di lì a sette anni: che saranno di bella vita, prima della tragedia. Soggetto impegnativo, che Veidt rende con una recitazione marcata. Un film di Victor Sjöström, La ragazza della torbiera, che ha deluso un po' ma vanta almeno qualche riuscito passaggio (come quello di imbarazzo familiare alla presenza della cameriera co-protagonista, considerata una ragazza immorale) ed è curioso, nella seconda parte, il suo basarsi su un particolare di cui il protagonista si è dimenticato al pari, probabilmente, dello spettatore. Brevi film animati, più i 41' de La guerra e il sogno di Momi di Segundo de Chomón, gioiello a passo uno che sotto le spoglie di un film per ragazzi mostra la crudeltà del conflitto mondiale.
Il regista italiano omaggiato è Augusto Genina, con muti quali il dramma L'innocenza del peccato con Maria Jacobini, film con un ritmo e una capacità di agganciare alla storia narrata superiore ad altri muti italiani. E sonori come l'interessante Les amours de minuit (1931) nella versione francese co-diretta con Yves Allégret – all'inizio sembra un talkie lentissimo ma poi si rivela praticamente un noir, attentamente padroneggiato – e Maddalena nella versione francese, a colori. Il che ci porta alla sezione sul colore nel cinema, e relativi lungometraggi in Technicolor e 35mm: Rancho Notorious di Fritz Lang e tre film di Douglas Sirk tra cui Magnifica ossessione sono solo alcuni esempi.
In “Colette e il cinema”, film sceneggiati o recensiti dalla scrittrice, oppure tratti da suoi romanzi. Come Divine di Max Ophüls e la prima versione di Gigi (che lui avrebbe dovuto girare). Il film sfoggia qualche motto di spirito colettiano, ma ci sarebbe voluto forse più umorismo e personaggi, come quello dello spasimante della protagonista, più a fuoco.
Tra le cose viste in Piazza Maggiore spicca il prologo de La roue di Abel Gance: 25 minuti che catturano, tra un drammatico incidente ferroviario e più leggere immagini di felicità familiare, in un montaggio rapido con molteplici effetti di colorazione. È l'assaggio del restauro di un'opera monstre, che si vedrà tra un paio d'anni. Seguiva La corazzata Potemkin con partitura originale eseguita dal vivo: chi scrive l'ha persa, ma chi c'era dice di una proiezione semplicemente esaltante. Poi The Patsy, con una vivace Marion Davies diretta da King Vidor. Tre serate di proiezioni con lanterna a carbone nella piazzetta Pasolini: Innocence-Little Veronika di Robert Land valorizza con la regia una storia parzialmente banale, quella di una fanciulla ingenua che va ad abitare con la zia maîtresse e cade tra le braccia di un seduttore.
Continua il progetto Buster Keaton, che oltre a corti e lunghi – come Io e il ciclone – ha proposto un programma di apparizioni tv, difficilissimo da organizzare per l'ottenimento dei materiali e frutto di un ridimensionamento. Spicca The Awakening (1954), episodio di una serie antologica. Storia distopica e rivoluzionaria ispirata a Il cappotto di Gogol', è un breve lavoro compiuto in cui Keaton interpreta un ruolo serio.
Nei documentari: l'ultimissimo lavoro di Rossellini, Beaubourg – del 1977, sull'inaugurazione del Centre Pompidou – , Becoming Cary Grant e (ancora in progress) Nice Girls Don't Stay for Breakfast su Robert Mitchum. Dell'attore omaggiato dall'immagine ufficiale di questa edizione si sono visti tra gli altri l'imprescindibile Le catene della colpa e il piccolo cult noir Gli amici di Eddie Coyle.
Viaggio nel tempo, si diceva, e nello spazio: torniamo alle cinematografie lontane. Per il cinema messicano dell'epoca “d'oro” (ma si spazia tra 1933 e 1960), film sulla rivoluzione nel paese come La sombra del caudillo di Julio Bracho, a lungo censurato. Dall'Iran, Samuel Khachikan, regista rimosso di cinema di genere negli anni '50 e '60, il thriller Strike tra i suoi titoli più apprezzati. E, ovviamente, una sezione giapponese. In una selezione di jidai-geki e drammi della seconda metà degli anni '30 spicca Umanità e palloni di carta, noto per essere uno dei pochissimi sopravvissuti di Sadao Yamanaka.
Usa: cinema degli anni '30 sia nella seconda parte dell'omaggio alla Paramount guidata da Carl Laemmle jr. sia nel focus su William K. Howard. Nella prima sezione si è visto E adesso, pover'uomo? di Frank Borzage: sfortune e ripartenze di una coppia positiva, nella poetica del regista. Di Borzage, in altra sezione, pure Secrets, muto con Norma Talmadge un poco deludente, curioso per il succedersi di toni ma anche di generi (c'è una parte western, con violento assedio), però lento e serioso. Howard è un regista relativamente sfortunato, noto soprattutto per Il potere e la gloria con Spencer Tracy che anticipa Quarto potere. L'uso di set interconnessi e uno stile fotografico con “geometrie di ombre e audaci effetti in controluce” sono citati dal catalogo tra i suoi segni stilistici, e li si ritrova anche in un film che intrattiene come Transatlantico, tra commedia corale e thrilling, aperto da movimenti di macchina che si fanno notare.
“Cauto sognatore: la malinconia sovversiva di Helmut Käutner” ha presentato otto film di un regista tedesco che definire eclettico pare banale (ma pertinente), tra Under the Bridges, girato tra le distruzioni del dopoguerra e Mad Emperor: Ludwig II; mentre A Glass of Water (1960), commedia a colori bagnata di musical, è molto interessante per l'antinaturalismo del set – gli ambienti di una corte – ma completamente autoreferenziale.
Nella macro-sezione “Ritrovati e restaurati” di tutto, da Giungla d'asfalto a Blow-Up, ma da citare due chicche italiane: “il primo grande film sul motociclismo” (almeno nostrano e secondo la stampa d'epoca), I fidanzati della morte di Romolo Marcellini (1956), e Romano Scavolini che ha presentato la versione pre-censura del suo sperimentale A mosca cieca – che Zomia Cinema ha intenzione di far circolare prossimamente – .
Infine il lavoro sulla scarna filmografia di Jean Vigo, con L'Atalante restaurato dalla copia originale, con altro materiale proiettato a parte, e Zero in condotta dalla copia della Cineteca Italiana, leggermente più lunga e “integrale” della versione vista in seguito.

Alessio Vacchi

Sezione di riferimento: Festival Reportage

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