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I FRATELLI SISTERS (The Sisters Brothers) - Sentieri di sangue, sentieri d’amore

11/4/2019

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​Chi scrive è da sempre convinto di come il western sia il genere cinematografico per eccellenza. Nonché l’unico destinato a non poter morire mai. Per la sua universalità, i suoi codici linguistici, il respiro illimitato, la vastità del campo delle immagini filmabili e raccontabili, la capacità di autorigenerarsi e trovare nuovi sentieri selvaggi da conquistare. Era dunque intrigante vedere come vi si sarebbe approcciato Jacques Audiard, autore francese di primissimo livello abituato, nel corso di una brillante e pluripremiata carriera, ad affrontare territori vicini al noir e al dramma esistenziale, ma inedito nella navigazione tra tempi del passato, praterie, cavalli e notti al chiaro di luna.
​
Per l’esordio nel western, nonché per il suo debutto con un lavoro in lingua inglese, Audiard traspone sul grande schermo un romanzo pubblicato nel 2011 da Patrick deWitt, i cui diritti erano già stati acquistati da John C. Reilly, il quale si è ritagliato il ruolo di protagonista in coabitazione con l'affidabile e intenso Joaquin Phoenix. La storia non è poi tanto diversa da altre, perlomeno nelle basi: due fratelli, caratterialmente molto lontani tra loro, accomunati da un passato di violenza familiare e ora pistoleri provetti, incaricati di rintracciare un uomo in fuga e fargli confessare il segreto per sviluppare una sostanza chimica capace di semplificare le operazioni di raccoglimento dell’oro dai fiumi (siamo nel 1851). Ecco dunque il viaggio, gli incontri e scontri lungo la strada, i saloon, l’alcool, i sigari, le inevitabili sparatorie, i nemici nascosti in ogni dove, il sogno di una dorata ricchezza: tracce in linea retta, accompagnate dai dialoghi e dai frequenti diverbi tra i due mattatori, facce opposte della stessa medaglia. 
Charlie, il fratello minore, accoglie la violenza come dato fondante di ogni azione decisiva, è istintuale e frequente bevitore, porta con sé pensieri rivolti all’avidità, al dominio, all’innato desiderio di comando, e non prende nemmeno in considerazione l’ipotesi di interrompere una vita così pericolosa, in quanto essa è l’unica che conosce e nella quale si sente a proprio agio. Eli, il maggiore, è invece razionale e sentimentale, ama gli animali, si sottomette alle bizzarrie del fratello condotto da una ferrea volontà di protezione, ma allo stesso tempo è stanco di giocare con la morte, vorrebbe smettere di uccidere, vorrebbe fermarsi e iniziare un percorso nuovo, calmo e stabile, magari aprendo una piccola attività commerciale e ritrovando la donna che ha aperto un varco nel suo cuore, una presenza (a noi) invisibile che egli richiama ogni notte annusando uno scialle avuto in dono, per sentire e abbracciare l’odore di lei. 
​
Tutto piuttosto classico, soprattutto all’inizio. I due fratelli cavalcano, affrontano le difficoltà, bruciano le distanze che li separano da Morris, la loro vittima predestinata e dal suo nuovo amico Warm (il sempre bravo Jake Gyllenhaal), due personaggi, quest’ultimi, accomunati dall’utopico desiderio di fondare una nuova civiltà basata sul rispetto delle leggi morali, in antitesi con la brutalità colorata di sangue di cui l’America si nutre. Il film di Audiard pare così al principio usare il montaggio parallelo per adagiarsi su canoni narrativi prevedibili; la situazione però muta e non di poco nella seconda parte dell’opera, quando l’incrocio degli anti-eroi scatena svolte che conducono a legami imprevisti e idee più creative, apparecchiando i presupposti sia per eventi risolutivi che per aneliti di speranza. 
L’autore compie quindi, a conti fatti, un’operazione biunivoca: omaggia il western, lo rispetta, lo stringe nelle mani, ma allo stesso tempo, con The Sisters Brothers, Leone d'Argento a Venezia, prova a miscelarlo, destrutturarlo, reinventarlo e in qualche modo desacralizzarlo, a partire dal nome stesso dei protagonisti, fratelli sorelle, come a smitizzare la tipica virilità mascolina conducendola verso lidi anche femminili; un’operazione ben chiara in alcuni passaggi, ad esempio l’inusuale e reciproco taglio di capelli tra Eli e Charlie, o gli sguardi complici tra Morris e Warm (simboli di un suggerito legame omosessuale?). Momenti di affetto e tenerezza, da unire al già citato romanticismo di Eli, con cui rompere i confini della consueta rudezza maschile. 
Rispetto allo schematismo soffocante del precedente Dheepan, Jacques Audiard ritrova in questo lavoro le sfumature che da sempre hanno caratterizzato la meraviglia del suo cinema, capace come pochi di indagare le mille tortuosità dell’animo umano per estrarne motivi di riflessione e confronto. Non siamo ai livelli dei suoi capolavori, ovvero Un Prophète, Sur mes lèvres e De battre mon coeur s’est arrêté, ma l’abilità di uno dei migliori registi viventi del cinema europeo confluisce in una nuova ispirazione, condita da sequenze scoppiettanti, riuscite parentesi intimiste, piccoli inserti stimolanti (le inquadrature a visuale ridotta) e perfino sospiri lievi e parodistici, utili per avvalorare lo scopo di cui sopra, cioè l’omaggio al genere a stretto contatto con il contemporaneo approdo a deviazioni originali. 
​
Le avventure dei fratelli Sisters, non solo micidiali assassini ma figure assai più complesse e ramificate, sembrano seguire la via maestra di tanti killer arrivati prima e dopo di loro: un percorso di vendette e contro-vendette, persone che vogliono farti la pelle, missioni sempre nuove da terminare mettendosi a rischio. Un circolo vizioso, in teoria amaramente destinato a non finire mai. Forse. Perché in realtà, come dice a un certo punto Eli, “ci siamo divertiti, siamo ancora vivi e non siamo ancora vecchi: è il momento giusto per fermarci”. 
Ma come si fa a fermarsi prima che sia troppo tardi? È davvero possibile? Sì, può darsi che lo sia. E in quale modo? Magari, semplicemente, guardandosi non solo le spalle, ma pure alle spalle. Perché tutti dicono sempre che bisogna andare avanti, avanti, avanti. Ma qualche volta, per trovare la pace, si può anche tornare indietro.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Film al cinema

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Scheda tecnica

Titolo originale: The Sisters Brothers
Anno: 2018
Uscita in Italia: 2 maggio 2019
Durata: 121’
Regia: Jacques Audiard
Sceneggiatura: Jacques Audiard, Thomas Bidegain (dal romanzo di Patrick deWitt)
Fotografia: Benoît Debie
Montaggio: Juliette Welfling
Musiche: Alexandre Desplat
Attori: John C. Reilly, Joaquin Phoenix, Jake Gyllenhaal, Riz Ahmed, Rutger Hauer, Carol Kane

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PERSONAL SHOPPER - Le invisibili trame dell'esistenza

21/4/2017

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​Il tessuto visivo non sempre è quello che si presenta all’occhio; bisogna guardare oltre, cercare negli spazi più nascosti al bulbo oculare, negli angoli scuri, in quelle sezioni che scivolano tra visibile e (in)visibile. Nella figurazione filmica del mostrare e, al contempo, del guardare, non tutto appare nelle immagini, ma a volte è necessaria un’alterazione della percezione visiva. La variazione va ricercata nel sottotesto, tra i fili della trama, tra i simboli nascosti, perché la visione fantasmica è una scrittura stratificata di immagini sovraimpresse tra le quali si nascondono i significanti. 
L’oggettivizzazione non è nel visibile, ma vive e si nutre come coalescenza dell’invisibile; ciò che emerge è puramente sensoriale, “il senso è visibile, ma non è incompatibilità tra l’invisibile e il visibile: il visibile ha esso stesso una membratura di invisibile, e l’in-visibile è la contropartita segreta del visibile, non appare che in esso […] è nella linea del visibile, ne è il fuoco virtuale” (1).
Cosa si cerca nel visibile se non la presenza dell’invisibile, nascosto tra le immagini, tra gli interspazi dove vivono molteplici forme e si annidano i fantasmi di Derrida. Sempre in quegli interspazi lo sguardo è libero dai limiti dell’immagine, va oltre, un oltre che supera i limiti della prigione visiva, muovendosi in una zona d’ombra illuminata dal visto e dal non visto, usando, godardianamente, “la luce, come giovinezza dell’oscurità”. 

1) M. Merleau - Ponty, Il visibile e l’invisibile, p. 248.

Personal Shopper, di Olivier Assayas, ruota intorno alla figura di Maureen (Kristen Stewart), una ragazza americana che lavora, appunto, come personal shopper, per una celebrità, Kyra. Il piano sequenza iniziale conduce lo sguardo dello spettatore in una villa decadente, scura e piena di ombre; la mdp segue da vicino la giovane donna nella perlustrazione della casa, nei movimenti tra l’oscurità di un luogo/non luogo, in ambienti che perdono la matericità della loro essenza divenendo astrazioni metafisiche. 
Nella ricerca di presenze fantasmiche, di corpi che hanno perso la loro consistenza tangibile e terrena, ci si muove, in realtà, tra le tenebre di Maureen, nel non luogo della sua anima, ferita, smarrita, sconosciuta. L’indagine è il tentativo di decifrare l’invisibile, muovendosi tra le sue pieghe, nelle sue zone buie, nelle zone buie di Maureen. 
Non è la trama a rivestire importanza, ma la sua funzionalità interpretativa dei simboli e delle allegorie; il tessuto metaforico è parte fondamentale della lingua filmica adottata da Assayas in questo suo ultimo lavoro. Il notturno è espanso e dilatato, penetra negli interni, come spazia negli esterni, grigi e privi di luce; Maureen si confronta sempre con l’oscurità, nella dialettica continua della sua interiorità che si riflette nello specchio convesso della realtà esteriore. Le abitazioni sono angoli stretti e cupi, illuminate da bagliori artificiali, come i fari del motorino di Maureen che si muovono nella notte. 
Il cielo è plumbeo ed il cuore è appesantito dallo smarrimento di una parte di sé; la voragine lasciata dall’assenza spinge a cercare tra gli oggetti, negli spazi vuoti, nell’invisibile che vuole restare tale, non percepito. È un deambulare incerto e cieco, l’attesa di un segno in cui lei stessa, per prima, non crede. Ciò che vede è forse solo il fantasma di se stessa; la figura ectoplasmatica è la trasposizione della sua anima che vomita domande cui non trova risposte, “un’attitudine intenzionale della coscienza tesa a confrontarsi con una cosa in quanto immagine” (2). 

2) J.J. Wunenburger, Filosofia delle immagini, Einaudi, Torino, 1999, p. 116.

La ricerca non è tanto mirata sulla conoscenza di un altrove, ma è un’indagine sull’identità di un corpo desiderante di mutarsi in altro; la percezione di incompletezza spinge Maureen, medium come il suo gemello, verso un mondo parallelo, ora nell’attesa di un segnale dal fratello scomparso, ora trascinata dalla volontà di assumere sembianze altrui, di uscire da sé. La mutazione avviene quando sveste i propri panni, tra la paura del proibito e l’eccitazione di essere altro; il suo corpo, spigoloso e androgino, si accende nel letto di Kyra indossando i vestiti che sceglie per lei. In un processo di osmosi continua tra la ragazza e la donna per cui lavora, nella confusione totale di identità tra le due, la dialettica tra i corpi delle donne è erotica, di un erotismo consumato a distanza, tra carni che chiedono di essere vestite e denudate. 
La materializzazione del desiderio è il desiderio del proibito, è l’illusione dell’occhio che imprime sulla retina ciò che desidera: essere altro, avere finalmente una forma, essere corporea. Tutto è evanescente intorno a Maureen, i rapporti sono simulacri privi di affettività, passano attraverso gli schermi, riflettendo solo l’immagine di una donna sola e (s)vuotata, un involucro di solitudine. I dialoghi con l’altro avvengono attraverso le chat e i messaggi sono privi di corpo, di consistenza, così il vuoto creato tra il reale e l’immaginario è lo spazio in cui prende forma un drammatico tentativo di comunicazione, anche se il contatto ricercato è quello con la morte; la tangibilità del fantastico è cosa più concreta dell’incomunicabilità umana. 
​
Tutto è funzionale ad instaurare una dialettica tra visibile ed invisibile, tra realtà e  irrealtà: le opere di Hilma af Klint sono la giuntura tra due mondi, composizioni dialettiche tra diverse dimensioni, tra organico e inorganico, frutto di visioni fluttuanti in un tempo sospeso, dove la carne perde la sua consistenza e i corpi la loro composizione materica. Il cigno, del 1915, nel suo contrasto geometrico e cromatico, nell’incastro perfetto di due sezioni speculari, è la congiunzione astratta tenuta da vettori ideali, tesi come corde, che uniscono l’opposizione tra due piani paralleli ed opposti e, allo stesso tempo, un salto nel contrario.
L’occhio di Maureen è travolto, girato nel suo interno; osserva e si osserva, un’interiorità vacua che si riflette nell’esteriorità architettonicamente aspra, spigolosa e ostile, come il volto e il corpo della donna, privo quasi di sessualità, spoglio di forme e di curve. La mdp la segue da vicino, come un prolungamento dei suoi arti; è parte organica, a tratti si allontana, regalando allo sguardo un campo largo e acuendo il senso di smarrimento della ragazza. La solitudine si percepisce nella bidimensionalità dell’immagine schiacciata, soprattutto tra le pareti dell’appartamento di Kyra, dove i cromatismi virati sulla carnalità del seppia accompagnano le carezze e l’eccitazione di un orgasmo solitario; il piacere non è condiviso con nessuno, ma è solo un monologo.
Tutto precipita nel vuoto che ha una sua forma, una sua consistenza, si fa materico e si muove in scena, nelle assenze, nei movimenti degli oggetti; il vuoto è soggetto stesso del filmico, è percezione e percepito, osservato ed osservante, favorendo la dinamica tra lo sguardo e l’ambiente. L’immagine ha una sua dualità, è come se fosse riflessa in uno specchio, immagine speculare ed immagine reale, trovando la sua oggettivizzazione nell’elemento simbolico. 
“I know you”. In quelle parole scritte su uno schermo, provenienti da un’entità sconosciuta, priva di corpo, è racchiusa l’indagine. La spinta è la conoscenza della propria identità; la ricerca è il contatto con se stessa: sentirsi, toccarsi, per trovarsi, per avere carne e consistenza. E il desiderio proibito risiede proprio nell’osservarsi e nell’essere osservato: “L’enigma sta nel fatto che il mio corpo è insieme vedente e visibile. Guarda ogni cosa, ma può anche guardarsi, e riconoscere in ciò che allora vede “l’altra faccia” della sua potenza visiva” (3). 

3) M. Merleau - Ponty, L’occhio e lo spirito, p.18

Dalle ombre sezionate da riflessi sporadici di luce fredda, dalle tenebre interiori di Maureen finalmente arriva l’atteso segnale; il movimento a ritroso chiude un campo largo, concentrandosi sul dolore del viso e sul miracolo della conoscenza: mentre una lacrima scende fluida sul viso, su una domanda lo schermo si inonda di luce accecante, totale. “Sono io?”. 
Come sostiene Paul Valéry: “la luce suppone d’ombra una smorta metà”.

Mariangela Sansone

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regista:  Olivier Assayas
Interpreti: Kristen Stewart, Lars Eidinger, Nora von Waldstätten
Fotografia: Yorick Le Saux
Sceneggiatura: Olivier Assayas
Anno: 2016
Durata: 105'
Uscita italiana: 13 aprile 2017

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L'ALTRO VOLTO DELLA SPERANZA - Kaurismäki e l'umana pietà

17/4/2017

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​Le parole non servono. Sono superflue. Inutili. Contano soltanto le azioni, i gesti, la volontà di dare una mano a qualcuno, chiedendo in cambio poco o nulla. Trovare vicino ai cassonetti del tuo scapestrato ristorante un profugo siriano che ha attraversato mezza Europa in cerca della sorella ed è finito in Finlandia per puro caso; sapere che le autorità lo cercano per rispedirlo in patria; farlo entrare nel tuo locale; dargli un po' di cibo, un posto dove dormire e un lavoro, umile ma essenziale; nasconderlo da chi vuole liberarsi di lui; attivarti affinché il suo sogno, ovvero riabbracciare l'unica parte della sua famiglia non uccisa dalla guerra, si possa avverare. 
Tutto qui. Gesti e azioni. Senza parole inessenziali. In questo risiede l'umana pietà, quella vera, che in teoria mal si incontra con i tuoi atteggiamenti burberi ma in realtà ben accoglie i profondi sentimenti che navigano nel cuore. E intanto cercare un modo per aggiustare la situazione economica del ristorante per il quale hai mollato tutto; provare espedienti destinati a fallire sin dal principio; tentare lo stesso, sapendo che comunque, mal che vada, c'è ancora una donna che ti aspetta, pronta a riaccoglierti, nonostante tu l'abbia gettata via senza una sola frase di commiato. 
Lei ancora è lì, per te. Insieme alla speranza. La stessa di quel profugo che ha chiesto asilo, è stato respinto e malmenato, ma ancora non perde di vista la voglia di dare un senso al presente. La stessa di chi vuole lasciare ogni cosa per trasferirsi altrove a ballare l'hula-hula (1). O di chi ormai da un anno tira avanti alla meno peggio, vagando come una trottola da un centro di accoglienza all'altro, aspettando tempi migliori. O di chi suona canzoni malinconiche in un bar per regalare un po' di conforto agli avventori. Senza lasciarsi sopraffare dal fallimento. Mai.

​1) Kati Outinen, vera e propria attrice-feticcio di Kaurismäki, anche qui presente per una pur piccola apparizione.

L'altro volto della speranza non è il miglior film di Aki Kaurismäki. Anzi, è piuttosto lontano dallo splendore di capolavori come La fiammiferaia, Nuvole in viaggio, Vita da Bohème o L'uomo senza passato. Eppure, vedendolo, si percepisce chiaramente, una volta ancora, come il cinema del finlandese sia straordinario e indispensabile. Quasi nessuno, nel panorama mondiale, è infatti in grado di schierarsi al fianco dei più sfortunati e dipingere l'umana solidarietà con tale forza, semplicità e poesia. 
Lo stile di Kaurismäki è unico. Lo è da trent'anni e tale resta, con totale coerenza. Chi lo ama sa sempre cosa troverà sullo schermo, quali ingredienti, quali suggestioni, quale lirismo. Per fortuna. Perché il maestro scandinavo non ha rinnegato se stesso in nessuna occasione, continuando imperterrito a portare avanti, sin dai tempi di Delitto e castigo, Calamari Union e Ombre nel paradiso, un'idea di cinema di sconvolgente bellezza, che non ha termini di paragone se non uno, il più grande e impegnativo possibile, quello con Charlie Chaplin, di fronte al quale il regista da pochi giorni sessantenne non sfigura affatto. Per lucidità, impegno civile e, giusto ribadirlo una volta ancora, coerenza. 
Dunque pazienza se la sua ultima opera, premiata con l'Orso d'Argento a Berlino (riconoscimento accolto con sdegno, tanto da non salire nemmeno sul palco a ritirarlo, giusto per confermare le peculiarità del personaggio), non brilla di fulgida luce come altre. Pazienza se le parti relative al discorso sull'immigrazione appaiono in qualche punto lievemente didascaliche. Pazienza se qui e là capeggia un leggero manierismo. Kaurismäki non tradisce, racconta a modo suo l'ennesima storia di disperazione e (possibile) salvezza e non manca di trascinare nuovamente lo spettatore in un vortice emozionale in cui riso e pianto si confondono sino a divenire indistinguibili. Vedasi, in tal senso, l'esilarante passaggio in cui il protagonista Wikstrom (Sakari Kuosmanen) cerca con poco senno di trasformare il locale in un ristorante giapponese, per sfruttare la moda del periodo; oppure i momenti sparsi in cui riflettendo con i camerieri si lascia andare a esplosioni comiche intrise di gusto surreale; oppure ancora gli irresistibili dialoghi laconici a cui siamo abituati (“il mio nome è Waldemar; allora i suoi amici la chiameranno Waldo; io non ho amici”). 
Kaurismäki è questo. Ancora. Da sempre e per sempre. Tra silenzi e mestizie, debordanti empatie prive di qualsiasi futile sovrastruttura e sguardi che parlano da soli, alcool a fiumi e sigarette perennemente infilate in ogni bocca. Nessuno gli chiede di cambiare. Non ce n'è bisogno. Perché grazie a lui continua a sventolare alto il sogno di una vita migliore.

Alessio Gradogna

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Toivon tuolla puolen
Anno: 2017
Durata: 98'
Regia: Aki Kaurismäki
Soggetto e sceneggiatura: Aki Kaurismäki
Fotografia: Timo Salminen
Montaggio: Samu Heikkilä
Attori: Sherwan Haji, Sakari Kuosmanen, Ilkka Koivula, Janne Hyytiäinen, Nuppu Koivu

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AUTOPSY (THE AUTOPSY OF JANE DOE) - Ogni corpo nasconde un segreto

11/3/2017

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​Grantham, Virginia. Il medico legale Tommy Tilden (Brian Cox) opera nell'obitorio del luogo, una cittadina di periferia, assistito dal figlio Austin (Emile Hirsch) e dal vecchio gatto Stanley. Da tre generazioni i Tilden eseguono autopsie in caso di decessi sospetti. Quando la polizia locale rinviene il corpo di una ragazza in una cantina, lo sceriffo Sheldon (Michael McEllhatton) porta il cadavere in camera mortuaria e chiede a Tommy di determinare le cause della morte entro la mattina del giorno successivo. La donna non ha documenti e le sue impronte non sono rintracciabili nei data base delle forze dell'ordine. Inoltre il ritrovamento è avvenuto nel seminterrato di un'abitazione dove due persone sono state massacrate e uccise. Lo sceriffo ha fretta di venire a capo dell'omicidio e dunque il coroner dovrà eseguire l'autopsia durante la nottata. 
Austin, che sta per uscire con la fidanzata Emma (Ophelia Lovibond), decide all'ultimo momento di rimanere con il padre per dargli una mano. Sin da subito il medico legale riscontra alcune incongruenze poiché il corpo non presenta alcun segno di rigor mortis e gli occhi sono di color grigio opaco, peculiarità contrastanti al fine di stabilire la data del decesso. Nonostante le numerose fratture a polsi e caviglie, non si evidenziato all'esterno lividi e traumi. La lingua è stata recisa, dalla cavità orale viene estratta una fibra tessile, dal naso spunta una mosca e, come se non bastasse, Tilden senior sostiene che il terreno incrostato sotto le unghie sembra torba, combustibile fossile caratteristico di zone situate ben più a nord. E il peggio deve ancora accadere. 
Quando il coroner seziona il corpo, ne fuoriesce un copioso flutto di sangue mentre la radio cambia stazione di propria iniziativa. Gli organi interni della donna sono orribilmente danneggiati e, nel corso dell'autopsia, emergono nuovi particolari raccapriccianti. Continuano intanto a manifestarsi fenomeni inquietanti nonché inspiegabili a rigor di logica. I Tilden comprendono di essere in reale pericolo, perché il cadavere, qualsiasi cosa esso sia, forse non è del tutto senza vita. Padre e figlio decidono di procedere comunque con l'esame autoptico, unica strada percorribile per spiegare il mistero che avvolge la sconosciuta, anche se un annuncio radiofonico parla di una violento temporale in arrivo. 
Impossibile proseguire oltre senza rivelare ulteriori colpi di scena, sottraendo così allo spettatore l'ebbrezza di un sano spavento. Basterà anticipare al pubblico che si avrà a che fare con processi alle streghe, citazioni bibliche, campanellini e una tempesta imminente.

Autopsy (The Autopsy of Jane Doe) è il secondo film (il primo in lingua inglese) del norvegese André Øvredal, già autore del promettente mockumentary Troll Hunter. Jane Doe è il termine gergale che si utilizza per indicare una persona di sesso femminile la cui identità rimane sconosciuta (a tal proposito risulta quanto mai inspiegabile la scelta di far uscire il film nelle sale italiane con il titolo Autopsy, in inglese peraltro, stravolgendone il senso originale). 
Øvredal realizza un discreto horror senza ricorrere a sensazionali effetti speciali. Inoltre, anche nelle scene il cui il sangue non può non scorrere, come durante il sezionamento del corpo, non si sconfina mai nello splatter. Se The Autopspy of Jane Doe riesce dunque a creare una buona dose di suspense lo deve al fatto che l'intera trama si sviluppa quasi esclusivamente in un ambiente chiuso, con due soli protagonisti più un cadavere (la bellissima e immobile Olwen Kelly). È grazie all'atmosfera claustrofobica dell'obitorio, con una sala operatoria dal grigio metallico e con lunghi corridoi bui, ricoperti di legno scuro, dove da uno specchio posizionato in alto su di una parete si intravvedono oscure presenze, che si percepisce un clima da catastrofe imminente (e, a sentire il bollettino meteorologico, una minaccia incombe anche dall'esterno). Nondimeno, le battute e gli aneddoti di Tilden senior disseminati nel corso della narrazione contribuiscono a tenere alta la tensione. Ad esempio racconta a Emma di legare un campanellino attorno all'alluce dei defunti in memoria dei tempi andati, quando questo espediente serviva per sincerarsi che i cadaveri fossero effettivamente tali, oppure sentenzia: “ogni corpo ha un segreto, alcuni lo nascondono soltanto meglio degli altri.”
Purtroppo, ed è un peccato, la seconda parte della vicenda non sta al passo con la prima e si perde del tutto nel finale, piuttosto banale e prevedibile. Le carte in regola per girare un ottimo horror non mancavano di sicuro a Øvredal, però, e spiace dirlo, l'esito definitivo ha più il sapore di un'occasione sprecata. In ogni caso, se Stephen King ha speso buone parole per The Autopsy of Jane Doe,  il film qualche merito lo dovrà pur avere. 

Una curiosità: Brian Cox ha interpretato il primo Hannibal Lecter della storia del cinema in Manhunter di Michael Mann (1986). 

Serena Casagrande

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica 

Titolo originale: The Autopsy of Jane Doe
Anno: 2016
Regia: André Øvredal
Sceneggiatura: Ian Goldberg Richard Naing.
Fotografia: Romain Osin
Montaggio: Patrick Larsgaard, Peter Gvozdas.
Musica: Danny Bensi, Saunder Jurriaans.
Durata: 86'
Attori: Emile Hirsch, Brian Cox, Ophelia Lovibond, Michael McEllhatton, Olwen Kelly, Parker Sawyers, Jane Perry
Uscita italiana: 8 marzo 2017

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SILENCE - Fenomenologia di una Fede

6/3/2017

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​Silence è il più grosso flop di tutta la carriera scorsesiana. Un film tenuto nel cassetto per decenni, oggetto di diatribe produttive, realizzato e rilasciato nelle sale nel gennaio 2017 con un lavoro di marketing pessimo, al punto che è probabile che il film non sia stato visto del tutto, piuttosto che giudicato male e abbandonato dietro a un passaparola. Eppure, Silence è, ancora una volta, un lavoro profondamente in linea con il suo autore, l’ennesimo esempio di infinita maestria e consapevolezza del mezzo; un’opera già testamentaria, foss’anche esplicitamente per il suo contenuto, summa di una vera e propria fissazione psicologica che Scorsese ha bisogno di approcciare in un continuo tentativo di svisceramento. 
​
Il film prende le mosse da una quest ben precisa, prima ancora che padre Rodrigues e padre Garupe, due gesuiti portoghesi del XVII° sec., abbiano il tempo di fare le dovute presentazioni, quasi entrambi esistessero solo in virtù della loro chiamata alle armi. L’indagine è quella volta a rintracciare padre Ferreira, colui che inverosimilmente sembra essersi piegato alle torture giapponesi facendo atto di abiura, ovvero rinnegando il dio cristiano in favore di una nuova dottrina.
​Ed è così, dunque, che Martin Scorsese si muove nella personale esplorazione di una vita, ancora una volta rintracciando – mai in maniera così radicale – le figure bibliche in quelle umane, sondando ogni tipo di approccio alla fede (e il suo punto di vista non può che essere cattolico, quello della religione che conosce meglio). Tra Kichijiro, giapponese convertito al cattolicesimo, nonché colui che tradisce ripetutamene il padre, ma che in fondo non è altro che il cristiano ”prototipo”, che pecca e ricerca la confessione come atto di rinnovata depurazione;  padre Garupe e Mokichi, entrambi esempi virtuosi di un fondamentalismo che è in grado di affermare l’istituzione e le sue norme e di sacrificarsi ad esse (autorizzando, così, la morte di un mucchio di fedeli clandestini); padre Ferreira, colui che ha compiuto il primo passo, cominciando una vita da buddista (cristiano) al di fuori della chiesa; l’Inquisitore e i vertici giapponesi, divisi tra arte affabulatoria orale e vessazioni coercitive che abbiano il fine dell’apostasia, a loro modo portatori di una verità sulla fede che sanno potersi esercitare al di fuori dell’atto del tutto formale dell’abiura. 
Ma Silence è prima di tutto una (altra) disquisizione, atea se vogliamo, sulla forma caparbia di un solipsismo cieco che va manifestandosi nello spirito di un padre gesuita che perde il proprio Dio e letteralmente allucina di esser egli stesso Icona, Signore, Divinità. Il suo è un delirio egotico che non solo è esempio di un malfunzionamento del proprio rapporto con il divino (un unico Dio a cui è impossibile avvicinarsi, che necessariamente dev’essere Altro, potendosi giammai incarnare generando forme di culto della persona), ma simbolo della modalità ecclesiale cristiana che, attraverso il sacerdozio, presuppone che si possano di Dio fare le veci. Dimentichi, nel frattempo, dell’irripetibilità e della qualità materica dell’immagine sacra, che altro non è che, appunto, mera immagine. Di effigi, infatti, Silence è colmo, a esercitare un potere omogeneo di immagine nell’immagine, a cadenzare un ritmo placido eppure paradossalmente avvincente, laddove la narrazione procede senza alcun guizzo drammatico, in una postura kurosawaiana dotata di incredibile avvolgenza. 

​D’altronde, Rodrigues non abbandonerà mai il suo Dio e nemmeno la sua rappresentazione, ma si riscopre suo figlio, a lui vicino e devoto, nel momento del ripudio, quando, egli come altri, cede all’atto convenzionale della mattonella calpestata, lì dove con l’enfatizzazione stilistica di un ralenti eclatante Rodrigues ritrova la voce della divinità. Qui sta tutto l’ereticità della voce scorsesiana, quella eclissata dalla chiusa che vede Rodrigues unito all’icona anche nella morte: forse è soltanto possibile una vera comunione con il proprio Dio al di fuori della prassi di una religiosità mondana, istituzionalizzata? Perché, allo stesso tempo, l’eroe di Silence spartisce con i suoi colleghi precedenti una sostanziale naïveté nel non volersi arrendere al proprio destino, rifiutandosi di vedere prima ancora che di imparare. 
Il ricongiungimento finale al crocifisso cristiano è, quindi, parto di un’ambiguità di fondo che vede il padre gesuita abbandonare la fede ufficialmente, nel passaggio da istituzione a ossessione, fino allo spirito – cioè alla sua forma mistica. Eppure, stretto tra le sue mani, nella capsula tombale, un'altra croce, un altro simbolo: un ritorno, un attaccamento al materico. L’epilogo scorsesiano sarebbe, al primo impatto, un raccoglimento romantico e fin troppo esplicito se non fosse preceduto da una parabola esistenziale e religiosa del tutto anti-retorica. 
Ma Silence è un’opera fortissima anche, e soprattutto, per le sue innegabili qualità cinematografiche, nella sapiente coniugazione di molteplici sfumature all’interno di un lasso di durata sostanzioso, mai gravante e tedioso. Scorsese non rinuncia nemmeno al nervosismo della sua mdp, amalgamandola egregiamente all’austerità di un lavoro ancora una volta teso tra americano ed europeo, in una crasi di linguaggio e contenuto in grado di dare intelligibilità (ma mai elementarità) a una materia dal carattere introverso ed imperscrutabile come quella che fin da Mean Streets lo accompagna. 
Quali sono le forme distinguibili del vero, del falso, del credente e del creduto? Quali le forme del sacrificio, della trasgressione, della fede e quindi dell’interiorità umana? Scorsese non ha mai pretese di univocità. Jordan Belfort (The Wolf of Wall Street) non era altro che la forma più contemporanea e volgare, priva di ogni etica, dell’individualismo di padre Rodrigues. La sua fede è impugnata in una penna-simulacro. 

Laura Delle Vedove

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Regia: Martin Scorsese
Sceneggiatura: Jay Cocks, Martin Scorsese
Interpreti: Andrew Garfield, Adam Driver, Liam Neeson, Tadanobu Asano, Ciarán Hinds, Shin'ya Tsukamoto, Yoshi Oida
Fotografia: Rodrigo Prieto
Musiche: Kathryn Kluge, Kim Allen Kluge
Anno: 2016
Durata: 161’
Uscita italiana: 12 gennaio 2017

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SPARROWS (PASSERI) - Il canto della sconfitta

3/3/2017

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Ari è un giovane ragazzo di sedici anni, suo malgrado costretto ad abbandonare il suo nido d’infanzia, Reykjavik, a causa della partenza della madre verso l’Africa, accompagnata dal nuovo compagno danese. Il giovane si ritrova così costretto ad andare a vivere col padre e con la nonna in uno sperduto villaggio nel nord dell’Islanda: un “buco” in cui tutto è uguale a se stesso e la quotidianità sfugge grazie all’abuso di alcool.
Il canto di Ari, splendido e incantevole, su cui si apre il film del regista islandese Rúnar Rúnarsson, è un simbolo di candore, dal quale l’opera si discosta gradualmente per mostrare le difficoltà che la vita porta ad esperire, un gioco in cui bianchi e neri, bello e brutto, buono e cattivo non esistono, e le cui sfumature costringono Ari ad accettare i propri tormenti.
L’universo di Passeri è sicuramente grigio e triste: a questo proposito il cineasta afferma che «bisogna rendersi conto che ci sono degli ostacoli da superare nel corso della vita, che è inevitabile dover affrontare piccoli e grandi drammi. Ma bisogna evidenziare le cose belle. E se nel mio film ci sono uno o due eventi che possono essere scioccanti, la mia intenzione non è quella di impressionare gratuitamente, ma di far provare la bellezza che ne segue. È un errore lasciar pensare allo spettatore che tutto è bello e luminoso come succede nelle produzioni hollywoodiane o che la vita è un inferno senza speranze come in alcuni film d’essai. Nessuna delle due opzioni è corretta, perché nella vita, quando si cade, ci si rialza e il sole splende di nuovo. C’è sempre speranza, non bisogna mai perderla».
L’imbruttimento di giovani e adulti a cui Ari è “invitato” ad assistere è certo inevitabile ma non innocente; ognuno è a suo modo chiamato alle proprie responsabilità e puntualmente fallisce. Esempio lampante è proprio il padre di Ari che negli ultimi sei anni ha sempre dimenticato i compleanni del figlio a causa della sua dipendenza dall’alcool, ingigantita, probabilmente, dalla inadeguatezza ad essere una solida figura paterna. Eppure le due generazioni messe a confronto – l’occasione è la festa di metà estate a cui il regista dedica uno sguardo spietato – non sono così distanti: birra, donne e rapporti occasionali non sono celebrazione ma strumento di allontanamento dalla routine giornaliera.
Il canto di Ari non è però dimenticato: vi sono episodi di fuga o di commozione (il funerale della povera nonna, ad esempio) in cui a quei pochi spiragli di bellezza è dato brillare.
Il giovane protagonista e il padre sono, nelle maglie della narrazione, due facce della stessa medaglia. Entrambi sono abbandonati dalla stessa donna, madre e moglie – sebbene con tempistiche assai diverse – ed entrambi cercano un equilibrio che appare impossibile.
L’opera filmica di Rúnar Rúnarsson, premiata in numerosi festival nel mondo e ora distribuita anche nei cinema italiani grazie a Lab 80, ha il pregio di essere un solidissimo coming of age che si colloca nel panorama di quel cinema nordico capace di affrontare piccole situazioni e di renderle meravigliose. Il pallore della fotografia – caratteristica e “fenomeno” del cinema scandivano tutto – illumina e non sbiadisce le forme e le figure che compongo le inquadrature: esse risplendono assieme ai colori intensi delle emozioni e delle sventure dei protagonisti.
Passeri è in sostanza il perfetto “film medio” proveniente da quella Scandinavia “allargata” che  con costanza e generosità dona ai propri spettatori vicende tragicamente umane. E quella di Ari ne è la rappresentazione ideale: prova ne è il sacrificio finale, atto a conservare, per quanto possibile, l’aura virginale della amata Lara. 

Emanuel Carlo Micali

Sezioni di riferimento: Film al cinema, Eurocinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Þrestir
Regia: Rúnar Rúnarsson
Sceneggiatura: Rúnar Rúnarsson
Fotografia: Sophia Olsson
Montaggio: Jacob Schulsinger
Musica: Kjartan Sveinsson
Durata: 99’
Uscita italiana: 2 marzo 2017
Attori principali: Atli Óskar Fjalarsson, Ingvar E. Sigurðsson, Rakel Björk Björnsdóttir, Rade Serbedzija

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AUSTERLITZ - La crisi della memoria

25/1/2017

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​In occasione del Giorno della Memoria, il 27 gennaio, esce nei cinema l’ultimo film di Sergei Loznitsa: Austerlitz, un racconto riflessione sul turismo di massa nei campi di concentramento con la distribuzione di Lab80.
​Presentato in concorso all’ultimo Toronto Film Festival e fuori concorso alla Mostra del Cinema di Venezia, il film propone un’osservazione dei visitatori dell’ex campo di concentramento di Sachsenhausen attraverso uno straordinario documentario sulla memoria e sulla persistenza, sulla fruizione individuale e collettiva di un luogo di morte e di dolore. Loznista, durante una calda giornata estiva, piazza una telecamera ad altezza d’uomo e registra: il percorso turistico che le persone seguono per visitare il campo è lo stesso che facevano i prigionieri un tempo. Qualcuno passeggia tra i viali delimitati dai dormitori, e altri scattano in continuazione selfie all’interno dei forni crematori; altri ancora consumano il pranzo al sacco sul lastricato della strada delle fosse comuni. Con questo film il regista pone una vera e propria riflessione sul senso della testimonianza e della memoria della Shoah. 

<< L’idea di fare questo film mi è venuta perché visitando questi luoghi ho sentito subito una sensazione sgradevole nel mio essere lì. Sentivo come se la mia stessa presenza fosse eticamente discutibile e avrei voluto davvero capire, attraverso il volto delle persone, degli altri visitatori, come ciò che guardavano si riflettesse sul loro stato d’animo. Ma non nascondo di esserne  rimasto, alla fine, abbastanza perplesso. Ciò che induce migliaia di persone a trascorrere i fine settimana estivi in un ex campo di concentramento è uno dei misteri di questi luoghi della Memoria. Si può fare riferimento alla buona volontà, al desiderio di compassione e pietà che Aristotele collega con la tragedia. Ma questa spiegazione non risolve il mistero. Perché una coppia di innamorati o una madre con il suo bambino vanno a fare visita ai forni crematori in una giornata di sole estivo? Ho concepito questo film per cercare di confrontarmi con queste domande >>.

Il titolo del film si riferisce al romanzo omonimo scritto da W. G. Sebald, dedicato alla memoria della Shoah. Loznitsa si affida alla profondità dello sguardo del protagonista, Jacques Austerlitz, professore di architettura che svela attraverso i luoghi la dolorosa Memoria di quel terribile periodo.
​
Austerlitz diventa un itinerario di ricerca assolutamente angosciante e tragico dove il cinema rigoroso e umanista del regista ucraino sceglie di rendere invisibile la propria presenza, di non pedinare le persone ma di immergersi insieme a loro. Il regista guarda con una giusta distanza e si avvicina man mano mostrandoci il rapporto della storia con il presente. Il campo di concentramento di Sachsenhausen sembra aver perso tragicamente la sua identità trasformandosi in un luogo di attrazione turistica. Sembra addirittura non far parte più di questo presente, non c’è nessuna interazione con i turisti, il bianco e nero utilizzato per indicare una memoria sbiadita è completamente discordante con quella presente, non ci sono prigionieri condannati a morte e non vi è traccia di nessun dolore, solo echi lontani, proveniente dalle descrizioni delle guide. 

Siamo travolti da persone indifferenti che cercano di trovare le tracce di qualcosa, ma senza nessuna possibilità di ricostruire il passato. L’atmosfera è gelida e ci ritroviamo a osservare attentamente questi personaggi svogliati, distratti, che si trascinano con in mano il loro cellulare e le loro macchine digitali, per tutto il campo. L’unico modo di tenersi occupati e di farsi coinvolgere e fare uno scatto e riprendere quello che stanno vedendo. Non c’è nessuna possibilità di connessione emotiva o empatica con il passato. Si rimane esterrefatti mentre si osservano i turisti che si scattano selfie posando con un sorriso all’ingresso del campo, di fronte alla scritta “Arbeit macht frei”. 
E’ palese che le persone non pensano e non riescono a capire dove sono. Il turista risulta cieco e l’architettura è l’unico soggetto che rimane sempre a fuoco in ogni scena, mantenendo una sorta di dignità. Le persone sono un elemento secondario. Se si prende come riferimento la persona, al centro dell’inquadratura la composizione potrebbe venir intesa come "sbagliata". L’individuo non è mai l’oggetto principale. A volte le persone sono tagliate a metà fuori dall’inquadratura, a volte sono lontane dal centro. 
Per aumentare la resa, l'autore ha effettuato un lavoro sopraffino per il suono: tre mesi di lavoro sull’audio, registrazione dei suoni sul set, dopodiché il sound design, con foley e altri. E’ interessante osservare come il suono cambi la nostra attenzione. Il regista e i suoi collaboratori hanno raccolto migliaia di clic ossessivi e incessanti, ricavati da ogni tipo di fotocamere o marchio. Hanno scelto i migliori e li hanno arrangiati come in una specie di composizione musicale.
 
<< Ho girato Austerlitz perché la tematica mi toccava molto da vicino. Quando ci sono andato (per la prima volta), ero sorpreso e non sapevo se mi era permesso stare lì, eticamente . Mi sono chiesto se era un luogo da osservare da un punto di vista morale: mi sono detto “Perché no”? >>

Ecco allora che la nostra attenzione si focalizza sui dettagli monumentali che il Tempo ha conservato e che la Memoria dovrà preservare, e sui dettagli umani, sulle parole dei visitatori, sui rumori dei gruppi organizzati, sui gesti: le voci delle guide, i cartelli insistentemente fotografati, i forni crematori, le stanze buie, soffocanti e claustrofobiche, le docce, i panini e le bibite, i luoghi delle torture, le code per entrare, i selfie, le t-shirt fuori luogo, le risate. 
Austerlitz è un documentario che ci invita costantemente a sensibilizzare il nostro sguardo: guardare, osservare e assimilare la memoria aprendo un nostro archivio segreto, per riportare alla luce informazioni preziose che la trascuratezza o, peggio ancora, la volontà di dimenticare possono occultare. Un potente strumento per capire e per rispondere alle sollecitazioni del presente. Ma forse la Shoah è stata a tal punto mostruosa da risultare incomprensibile con le comuni capacità della mente umana. L’inadeguatezza e la spensieratezza del loro muoversi sono elementi che saltano all’occhio vividi sin dalla prima inquadratura, in una dinamica di crescente evidenza che il regista non cerca ma che, piuttosto, si rivela da sola attraverso l’estremo e dirompente realismo del flusso di immagini catturate.
Dopo il poderoso Shoah di Claude Lanzmann, Loznitsa sottolinea l’importanza dell’osservazione, realizzando un’opera che pone una nuova e necessaria riflessione sul senso e il valore della Memoria. Austerlitz ci invita a riflettere affinché la dignità della memoria storica non venga sopraffatta, irrimediabilmente, dal sonno della ragione, ricordandoci che conservare il valore dell’atto di ricordare non è solo un gesto morale dovuto, ma un continuo richiamo al senso del rispetto e della responsabilità da parte di tutti, perché un’umanità cieca e senza memoria è un’umanità destinata alla perdizione.

“Voi che vivete sicuri 
Nelle vostre tiepide case, 
voi che trovate tornando a sera 
Il cibo caldo e visi amici: 
Considerate se questo è un uomo 
Che lavora nel fango 
Che non conosce pace 
Che lotta per un pezzo di pane 
Che muore per un sì o per un no. 
Considerate se questa è una donna, 
Senza capelli e senza nome 
Senza più forza di ricordare 
Vuoti gli occhi e freddo il grembo 
Come una rana d’inverno. 
Meditate che questo è stato: 
Vi comando queste parole. 
Scolpitele nel vostro cuore 
Stando in casa andando per via, 
Coricandovi alzandovi; 
Ripetetele ai vostri figli. 
O vi si sfaccia la casa, 
La malattia vi impedisca, 
I vostri nati torcano il viso da voi
”.

(Se questo è un uomo, Primo Levi)

Erica Francesca Bruni

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo: Austerlitz
Regia e Sceneggiatura: Sergei Loznitsa
Attori: --
Durata: 93'
Fotografia: Sergei Loznitsa, Jesse Mazuch
Musica: Vladimir Golovnitski
Anno: 2016
Uscita al cinema: 25 gennaio 2017

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ALLIED - Un’ombra nascosta - Verità e finzione

14/1/2017

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​“Faccio in modo che le emozioni siano autentiche”

A un anno di distanza dal flop commerciale di The Walk, incentrato sull’incredibile traversata delle Torri Gemelle compiuta su un cavo d’acciaio dal funambolo francese Philippe Petit nel 1974, Robert Zemeckis torna a far parlare di sé con un nuovo lungometraggio poco compreso – o meglio frainteso – dalla stampa americana, decisamente più interessata al gossip legato all’eventuale e ipotetico flirt tra Marion Cotillard e Brad Pitt, che avrebbe poi (sempre secondo i rumors) sancito la fine del matrimonio di quest’ultimo con Angelina Jolie.
Marocco, 1942, seconda guerra mondiale. Il comandante d’aviazione franco-canadese Max Vatan arriva a Casablanca per incontrarsi con Marianne Beausejour, combattente della Resistenza Francese. I due ancora non si conoscono, sono agenti segreti sotto copertura che devono fingere di essere marito e moglie per portare a termine una missione rischiosissima. Durante l’operazione, terminata con successo, s’innamorano l’un l’altra e qualche tempo dopo si sposano a Londra. Un giorno Max viene convocato dai servizi segreti, da cui riceve delle informazioni che potrebbero far crollare la sua vita familiare. 
​
È chiaro ed evidente fin da subito, a partire dal meraviglioso incipit in cui vediamo Brad Pitt paracadutato su un soffice e vasto deserto rosa, che Zemeckis nell’approcciarsi a una spy story ambientata durante la seconda guerra mondiale non è interessato al realismo e alla verosimiglianza storica, ma alla creazione di un mondo volutamente posticcio e artefatto. Da qui in poi tutto quanto, compresi i costumi e la resa scenografica, evidenzia e sottolinea la messa in scena da parte di Zemeckis di un universo fatto di finzione, inganni, bugie e tradimenti, che rende omaggio a classici della vecchia Hollywood come Casablanca di Michael Curtiz e Notorious di Alfred Hitchcock ma al contempo si autocita con espliciti rimandi a Le verità nascoste, dove erano già presenti sostanziosi riferimenti al cinema del maestro della suspense. 
La trama giallo/spionistica è un puro pretesto per dare vita a un mélo postmoderno intriso di un romanticismo enigmatico e ambiguo dove la tensione e la suspense, di stampo hitchcockiano, crescono e aumentano col dipanarsi della storia fino ad arrivare alla resa dei conti tra i due protagonisti, col disvelamento delle menzogne e il venire meno dei ruoli da interpretare e delle maschere da indossare. Cosa rimane dunque alla fine? Cosa emerge in mezzo a tanta, sbandierata, finzione? Restano le emozioni e i sentimenti, ciò che ci rende umani e ci fa battere il cuore. 
L’umanesimo di Zemeckis è tutto qui, nel suo interesse primario, ovvero nel farci capire se Marianne sia o meno innamorata di Max. Tutto il resto non conta, finisce in secondo piano (compresa la vera identità della donna) di fronte all’importanza e alla centralità dei sentimenti. È qui che deve nascere l’autentico coinvolgimento del pubblico, che in primis s’interessa e si appassiona alla trama spionistica per poi essere rapito e risucchiato dal pathos sprigionato dalla componente romantico/sentimentale, che è il vero cuore pulsante del film. 

​In una Londra martoriata dai bombardamenti tedeschi Max vede crollare anche il suo mondo, la sua famiglia, i suoi affetti più cari. Emblematica e magistrale in tal senso la lunga e tesa sequenza della festa organizzata da Marianne, con la macchina da presa che si sposta incessante da un ambiente all’altro per seguire i due protagonisti, impegnati in un ansiogeno gioco di sguardi da cui emerge e traspare il dubbio e il sospetto. Max, attonito e straniato in mezzo a persone festanti impegnate in flirt, musiche e danze, non riesce più a fingere e a dissimulare difronte agli sguardi intensi e penetranti della moglie che lo percepisce e lo sente diverso, cambiato nei suoi confronti. Al crollo e allo spaesamento emotivo dell’uomo segue – con metafora dichiarata ed esibita – l’ennesimo bombardamento nel cielo notturno londinese che pone fine alla festa. 
A terrorizzare nel profondo Max non è tanto che la moglie possa essere una spia nazista, ma ciò che ne consegue, il fatto che abbia sempre finto nei suoi confronti. È la tremenda e inquietante ipotesi di non essere mai stato amato dalla madre di sua figlia, l’idea di essere stato ingannato e usato da Marianne che lo devasta nel profondo. Un cortocircuito beffardo e paradossale tra finzione e realtà ha fatto sì che i due si fossero incontrati e conosciuti come marito e moglie nella finzione, ad uso e consumo della missione da eseguire a Casablanca, per poi unirsi davvero in matrimonio a Londra. Per l’uomo è un legame reale e autentico, testimoniato dalla nascita di una bambina; per la donna potrebbe essere solo l’ennesimo ruolo da mettere in scena. 
Sceneggiato senza sbavature da Steven Knight, interpretato da un efficace e funzionale Brad Pitt e da una sensuale, intensa e ipnotica Marion Cotillard, il diciottesimo lungometraggio in oltre quarant’anni di attività di Robert Zemeckis ci restituisce un autore in gran forma, ancora voglioso di mettersi in gioco e di continuare a sperimentare con un’opera coraggiosa, stratificata e gloriosamente fuori dal tempo.

Boris Schumacher

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Allied
Regia: Robert Zemeckis
Sceneggiatura: Steven Knight
Fotografia: Don Burgess
Anno: 2016
Durata: 124’
Interpreti principali: Marion Cotillard, Brad Pitt, Jared Harris
​Uscita italiana: 12 gennaio 2017

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PATERSON - La poesia delle cose semplici

9/1/2017

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​“Tradurre una poesia è come farsi la doccia con l’impermeabile. Eppure io ci provo. Questo è quel poco che ho capito e che ho scritto. Avrei dovuto lasciare la pagina bianca. Ma è quel che ho vissuto. Non è molto, lo so”.

Jim Jarmusch, cantore della cultura underground newyorkese, è stato colui che più di tutti ha riletto in chiave critica la mitologia on the road e il rapporto fra uomo e paesaggio americano. Con Paterson dà vita ad un altro di quei suoi sradicati personaggi che osservano una realtà di cui cercano di tracciare il senso con uno sguardo disincantato e a volte stralunato - che non ha fretta - e che si posa sul mondo con l’ostinata insistenza capace di restituire alle cose la densità perduta.
Paterson vive a Paterson, una piccola città del New Jersey che ha un passato del tutto singolare; lo stesso Jarmusch ha dichiarato di aver scelto questa località in particolare proprio per la sua storia e perché sembra un luogo rimasto in sospeso nel tempo tra passato e disperazione. E’ stato il primo centro industriale degli Stati Uniti con fabbriche tessili, ha visto le prime proteste dei lavoratori ed è stata anche la città di grandi poeti come Williams Carlos Williams e Allen Ginsberg.

“Quando sei un bambino impari che ci sono tre dimensioni, altezza, larghezza e profondità, come una scatola da scarpe. Più tardi capisci che c’è una quarta dimensione: il tempo… “

Jarmusch definisce Paterson “un film d’osservazione”, un’opera che raccoglie le piccole variazioni del quotidiano, celebrando e esaltando i dettagli della vita. Non sono presenti conflitti o situazioni precarie, ma si parla semplicemente della vita semplice di un uomo e di una donna – incarnati in maniera sublime da due attori in stato di grazia, Adam Driver e Golshifteh Farahani - che si amano e si sono scelti e accettati per quello che sono. Si completano l’un l’altra, e la loro sopravvivenza deriva dall’autenticità e dalla purezza del loro amore, come nei bellissimi amanti vampiri, Adam e Eve, di Only Lovers Left Alive. 
Sì perché qui, come nel suo film precedente, il regista si sofferma sull’intimità di coppia, sulla condivisione e sulla riflessione disincantata del mondo contemporaneo, e questa volta sceglie di farlo attraverso  lo sguardo malinconico di un poeta. La sua vita è scandita da una classica routine giornaliera, i giorni si ripetono e sono del tutto identici: la sveglia alle 6:15, uno sguardo dolce e un bacio alla sua compagna, la colazione e via a lavoro diretto verso il suo autobus, l’uscita serale con il suo cane furbo e pasticcione, Marvin, e la rituale sosta al bar. 
Ma Paterson è proprio questo, la beatificazione e la contemplazione del quotidiano, perché parafrasando Eve di Only lovers left alive “la vita è sopravvivenza delle cose e apprezzamento della natura...” e il protagonista si ferma e si sofferma su tutto cercando la rima interna tra le cose per farne uscire un segno, poiché “ogni cosa fecondata viene fecondata di ogni senso”. Non è il solo: anche il ragazzo che rappa dentro una lavanderia automatica cerca un modo per rivelare il suo sguardo sul mondo e lo stesso vale per la poetessa bambina e il turista poeta giapponese. E non è da meno la sua vibrante e magnetica compagna, Laura, che ha bisogno anch’essa di vedere il mondo attraverso una sua espressione artistica; anche lei cerca a suo modo la poesia nel mondo, ma soprattutto un modo per esprimerla e lo fa in svariati modi, con i suoi fantasiosi Cupcake, i cerchi bianco e neri disseminati ovunque per la casa in tende, vestiti, muri e tappeti, ed è anche bianca e nera la chitarra che acquista per realizzare il suo sogno di diventare una folk singer. In questo risalta il tipico stile minimalista del regista, sottolineato dall’utilizzo del bianco e  nero, stesso “colore” del film che la coppia decide di vedere al cinema - chiaro omaggio del regista alla settima arte - Island of Lost Souls, un classico horror della Paramount di Erle C. Kenton con Charles Laughton del 1932.

Paterson, uomo antimoderno, non possiede cellulare e non scrive le sue poesie su computer, ma solo sul suo taccuino. Egli vive nel suo universo fatto di irregolarità e di silenzi, in una sorta di trance meditativo che gli permette di cogliere le piccole casualità della vita, fatte di sensazioni anche visive o di corrispondenze strane, di piccoli e grandi oggetti del quotidiano che si intrecciano in fitte trame di percezione e di immagini che si riflettono sul parabrezza e sul suo volto; le uniche interruzioni arrivano dai brevi, ma coinvolgenti frammenti di dialoghi ascoltati sull’autobus, come i due studenti che inseriscono anche un pizzico di anarchia raccontando le gesta di Gaetano Bresci che prima di passare alla storia per aver ucciso Umberto I di Savoia, è stato a Paterson, oppure i bambini che ricordano il pugile “Hurricane” Carter , o gli sfoghi serali di uno dei clienti abituali del bar che soffre le pene per un amore non corrisposto. Mentre Paterson rimane sempre fisso e immobile, lascia che il mondo si manifesti davanti a sé e lo attraversi per assorbirlo e poi cercare una chiave di lettura attraverso le proprie riflessioni ed emozioni tradotte in versi nelle sue poesie, che si fondono con la passione per Williams Carlos Williams, Allen Ginsberg e O’Hara, con la speranza di trovare una luce sempre nuova che illumini la sua vita e che dia pace ai propri sogni, esorcizzando le sue paure più intime e nascoste.

“Passo attraverso trilioni di molecole che si fanno da parte per lasciar passare me, mentre su entrambi i lati altri trilioni restano dove sono. ”

A questa contemplazione e ricerca del bello si contrappone anche una sorta di senso di angoscia e di rassegnazione nei confronti della vita, perché Paterson gira in cerchio, proprio come sottolineano i cerchi che disegna in manieri ossessiva Laura. La sua vita ha un percorso circolare, senza cambiamenti o evoluzioni apparenti e, di fronte all’infinito ripetersi dei cicli, la volontà di potenza si scopre limitata e alla fine spegne l’azione umana, svelando la solitudine personale non solo di Paterson, ma anche di una città - non a caso il suo nome è lo stesso del luogo in cui vive - attraverso l’isolamento di un singolo individuo sperduto, che non sembra avere nessuna possibilità di interazione con il mondo esterno. 
L’attesa/desiderio di una catastrofe rappresenta la sensazione di inquietudine che si vive ogni giorno a Paterson, accentuata dalla colonna sonora degli Sqürl. Ma non è la catastrofe la svolta, mentre diventa decisiva  e fondamentale la figura del cane che, come in Ghost Dog: The Way of the Samurai, interviene e assume un ruolo determinante e si trasforma  nell’artefice del cambiamento, cercando di spezzare quella routine in cui è imprigionato Paterson. Lo fa obbligando il suo padrone a cambiare direzione durante le passeggiate, attirando l’attenzione stortando la buca delle lettere, fino a fare a pezzi letteralmente il suo taccuino delle poesie; ecco allora che Marvin diventa l’elemento rivoluzionario, perché “la vita è sovvertitrice della vita stessa, quale era un attimo prima: sempre nuova e priva di regole. E nel verso perché esso viva, qualcosa deve essere infuso che abbia il colore stesso dell’instabile, qualcosa nella natura di un’impalpabile rivoluzione”. 
Marvin diventa l’agitatore e il rinnovatore necessario per dare nuova linfa vitale a Paterson, che nel finale, perso e rassegnato - per via del suo taccuino distrutto - si dirige verso la cascata che tanto ama per rivolgere lo sguardo su di lei - sempre con meravigliosa costanza - per contemplarla e ascoltare il suo suono incoerente e incessante ricercandovi quella luce che accende di bellezza la sua solitudine, con lo scopo di ritrovare il senso dei suoi versi perduti e ridare unità alle cose. "Sono solo parole scritte sull’acqua", dice, ma il senso di ogni cosa non perde di significato: puoi disseminarlo, polverizzarlo, ma non si distruggerà mai, intero o per frammenti riapparirà anche sottoforma di una pagina vuota che, a volte, presenta molte possibilità. 

"Shadows cast by the street light
under the stars,
the head is tilted back,
the long shadow of the legs
presumes a world taken for granted
on which the cricket trills
"

Il cineasta punk ci regala un altro viaggio on the road, un capolavoro, un miracolo, un’opera poetica e esistenziale di rara e autentica bellezza. In Paterson il mondo diventa un luogo vivibile in cui i semplici gesti del quotidiano acquistano un valore unico e eccezionale, dove emerge con naturale bellezza il dono della vita. Pregno di tutto il suo milieu creativo qui, come in tutte le sue opere, si riflette il suo sguardo un po’ sbilenco sul mondo, da sempre attento ai contorni e alle sfumature della quotidianità in cui si viene magicamente travolti dalla consueta e immancabile malinconica ironia di uno dei pochi grandi autori americani realmente indipendenti e davvero controcorrente.

Erica Francesca Bruni

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo: Paterson
Regia: Jim Jarmusch
Sceneggiatura: Jim Jarmusch
Attori: Adam Driver, Golshifteh Farahani
Anno: 2016
Durata: 117 min
Fotografia: Frederick Elmes 
Musica: Sqürl
Uscita italiana: 29 dicembre 2016

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SULLY - Restare umani

9/12/2016

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Sembrano già lontani i tempi in cui il cinema americano rileggeva a modo suo la tragedia dell’11 settembre, almeno da La guerra dei mondi di Spielberg in poi. Dopo un decennio, quello degli anni Novanta, trascorso prevalentemente ad esorcizzare la paura per la catastrofe (che di lì a breve sarebbe effettivamente avvenuta), attraverso un utilizzo di effetti speciali man mano sempre più pionieristico nel mettere in scena la distruzione dei simboli iconografici degli Stati Uniti (per mano di alieni, meteoriti e quant’altro), una volta compiutasi realmente la sciagura sono rimasti solamente lo sgomento e l’impotenza. 
Oggi invece, a dispetto di una contemporaneità che sembra fare di tutto pur di allontanare qualsiasi desiderio di ottimismo, sul grande schermo è ricomparsa una gran voglia di rimboccarsi le maniche e di far fronte al futuro, accettando il passato più prossimo come punto di partenza da cui ricominciare. Insieme. E allora, ad esempio, ritorna alla mente il bellissimo The Walk di Robert Zemeckis, ancor più del suo Flight (nonostante le ovvie analogie tematiche), ovvero il film in cui il World Trade Center viene rappresentato come luogo della memoria, vivo e presente, e non più come mausoleo; quello in cui la CGI viene utilizzata non per distruggere bensì per ricreare, ricostruire, e questo è già di per sé un risultato straordinario. 

Clint Eastwood dal canto suo riparte proprio dall’immaginario della tragedia, e lo fa in una maniera che più esplicita non si potrebbe: non è quindi un caso che il film cominci con gli incubi del protagonista, nei quali vediamo un aereo di linea sfrecciare attraverso i grattacieli di New York prima dell’inevitabile schianto. Ma quello che stava per trasformarsi nell’ennesimo evento da ricordare con il lutto al braccio si trasforma in una grande storia americana: la mattina del 15 gennaio 2009 il volo US Airways 1549 proveniente dall’aeroporto La Guardia compie un eroico ammaraggio sul fiume Hudson, dopo la collisione con uno stormo di uccelli che ne aveva mandato in avaria i motori. “Sai, era da un po' che New York non aveva notizie così buone” dicono al protagonista dopo il mancato compimento del disastro, e in queste parole è racchiuso tutto l’umanesimo di un film che guarda al futuro con inusitata speranza, dettata in primo luogo dalla nostra natura di esseri umani.  
Questa è l’America più bella, ed è tale non per partito preso o per chissà quale buonismo, ma in quanto il cambiamento stavolta viene reso possibile da chi lo insegue con fede e tenacia, attraverso le proprie azioni. Perché, forse insieme solamente a Michael Mann, Clint Eastwood è l’autore che più di tutti gli altri, nella Hollywood contemporanea, mette l’Uomo al centro della sua opera: l’Uomo con le sue scelte e le conseguenze che ne derivano, gli unici parametri in grado di stabilirgli di diritto un posto nel mondo. E questa posizione deriva anche dall’aderenza a un ruolo e a un’uniforme: dopo aver appreso che tutti i 155 passeggeri a bordo dell’aereo sono stati portati in salvo, Sully si lascia sopraffare da un breve e contenuto moto d’orgoglio, non prima di essersi rimesso la cravatta attorno al collo, simbolo della sua appartenenza e devozione a un mestiere che lo identifica non come un numero, bensì come essere umano. E ancora, poco dopo: accolto trionfalmente in albergo, chiede al personale di servizio di poter lavare a secco la propria divisa. Forse il vero Sullenberg non ha mai detto nulla di simile nella realtà, o forse sì, chissà: ma il Sully di Eastwood e Tom Hanks sì, e la differenza sta tutta qui. 
Ecco, è in questi gesti, apparentemente banali e insignificanti, che si trova tutto un universo e tutto un uomo. Il fattore umano, esplicitato pure nei dialoghi, come quei 35 secondi che separano le decisioni umane dalla fredda e calcolatrice (nonché opportunistica) simulazione al computer, è il dettaglio che più di tutti riesce a dare un senso all’intero film, come il gesto fulmineo di un poliziotto che sistema la coperta della Croce Rossa sulla schiena di uno dei superstiti dopo il salvataggio: un momento brevissimo, ma che l’occhio di Eastwood cattura e immortala con tutta la passione possibile. 
Ogni cosa è così semplice, in Sully, che si fa persino fatica a credere che sia reale: un cinema così vero, diretto e cristallino, lontanissimo da qualsiasi estremismo autoriale, che riesce in un attimo a raggiungere il cuore delle cose. Anche questa è una lezione di vita, oltre che di stile: prendiamone esempio, tutti. 

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: Sully
Regia: Clint Eastwood
Sceneggiatura: Todd Komarnicki
Attori: Tom Hanks, Aaron Eckhart, Laura Linney, Anna Gunn, Autumn Reeser, Ann Cusack, Mike O’Malley
Anno: 2016    
Durata: 96’
Fotografia: Tom Stern
Musica: Clint Eastwood
Uscita italiana: 1 dicembre 2016 

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