Il film prende le mosse da una quest ben precisa, prima ancora che padre Rodrigues e padre Garupe, due gesuiti portoghesi del XVII° sec., abbiano il tempo di fare le dovute presentazioni, quasi entrambi esistessero solo in virtù della loro chiamata alle armi. L’indagine è quella volta a rintracciare padre Ferreira, colui che inverosimilmente sembra essersi piegato alle torture giapponesi facendo atto di abiura, ovvero rinnegando il dio cristiano in favore di una nuova dottrina.
Ed è così, dunque, che Martin Scorsese si muove nella personale esplorazione di una vita, ancora una volta rintracciando – mai in maniera così radicale – le figure bibliche in quelle umane, sondando ogni tipo di approccio alla fede (e il suo punto di vista non può che essere cattolico, quello della religione che conosce meglio). Tra Kichijiro, giapponese convertito al cattolicesimo, nonché colui che tradisce ripetutamene il padre, ma che in fondo non è altro che il cristiano ”prototipo”, che pecca e ricerca la confessione come atto di rinnovata depurazione; padre Garupe e Mokichi, entrambi esempi virtuosi di un fondamentalismo che è in grado di affermare l’istituzione e le sue norme e di sacrificarsi ad esse (autorizzando, così, la morte di un mucchio di fedeli clandestini); padre Ferreira, colui che ha compiuto il primo passo, cominciando una vita da buddista (cristiano) al di fuori della chiesa; l’Inquisitore e i vertici giapponesi, divisi tra arte affabulatoria orale e vessazioni coercitive che abbiano il fine dell’apostasia, a loro modo portatori di una verità sulla fede che sanno potersi esercitare al di fuori dell’atto del tutto formale dell’abiura.
Ma Silence è prima di tutto una (altra) disquisizione, atea se vogliamo, sulla forma caparbia di un solipsismo cieco che va manifestandosi nello spirito di un padre gesuita che perde il proprio Dio e letteralmente allucina di esser egli stesso Icona, Signore, Divinità. Il suo è un delirio egotico che non solo è esempio di un malfunzionamento del proprio rapporto con il divino (un unico Dio a cui è impossibile avvicinarsi, che necessariamente dev’essere Altro, potendosi giammai incarnare generando forme di culto della persona), ma simbolo della modalità ecclesiale cristiana che, attraverso il sacerdozio, presuppone che si possano di Dio fare le veci. Dimentichi, nel frattempo, dell’irripetibilità e della qualità materica dell’immagine sacra, che altro non è che, appunto, mera immagine. Di effigi, infatti, Silence è colmo, a esercitare un potere omogeneo di immagine nell’immagine, a cadenzare un ritmo placido eppure paradossalmente avvincente, laddove la narrazione procede senza alcun guizzo drammatico, in una postura kurosawaiana dotata di incredibile avvolgenza.
D’altronde, Rodrigues non abbandonerà mai il suo Dio e nemmeno la sua rappresentazione, ma si riscopre suo figlio, a lui vicino e devoto, nel momento del ripudio, quando, egli come altri, cede all’atto convenzionale della mattonella calpestata, lì dove con l’enfatizzazione stilistica di un ralenti eclatante Rodrigues ritrova la voce della divinità. Qui sta tutto l’ereticità della voce scorsesiana, quella eclissata dalla chiusa che vede Rodrigues unito all’icona anche nella morte: forse è soltanto possibile una vera comunione con il proprio Dio al di fuori della prassi di una religiosità mondana, istituzionalizzata? Perché, allo stesso tempo, l’eroe di Silence spartisce con i suoi colleghi precedenti una sostanziale naïveté nel non volersi arrendere al proprio destino, rifiutandosi di vedere prima ancora che di imparare.
Il ricongiungimento finale al crocifisso cristiano è, quindi, parto di un’ambiguità di fondo che vede il padre gesuita abbandonare la fede ufficialmente, nel passaggio da istituzione a ossessione, fino allo spirito – cioè alla sua forma mistica. Eppure, stretto tra le sue mani, nella capsula tombale, un'altra croce, un altro simbolo: un ritorno, un attaccamento al materico. L’epilogo scorsesiano sarebbe, al primo impatto, un raccoglimento romantico e fin troppo esplicito se non fosse preceduto da una parabola esistenziale e religiosa del tutto anti-retorica.
Ma Silence è un’opera fortissima anche, e soprattutto, per le sue innegabili qualità cinematografiche, nella sapiente coniugazione di molteplici sfumature all’interno di un lasso di durata sostanzioso, mai gravante e tedioso. Scorsese non rinuncia nemmeno al nervosismo della sua mdp, amalgamandola egregiamente all’austerità di un lavoro ancora una volta teso tra americano ed europeo, in una crasi di linguaggio e contenuto in grado di dare intelligibilità (ma mai elementarità) a una materia dal carattere introverso ed imperscrutabile come quella che fin da Mean Streets lo accompagna.
Quali sono le forme distinguibili del vero, del falso, del credente e del creduto? Quali le forme del sacrificio, della trasgressione, della fede e quindi dell’interiorità umana? Scorsese non ha mai pretese di univocità. Jordan Belfort (The Wolf of Wall Street) non era altro che la forma più contemporanea e volgare, priva di ogni etica, dell’individualismo di padre Rodrigues. La sua fede è impugnata in una penna-simulacro.
Laura Delle Vedove
Sezione di riferimento: Film al cinema
Scheda tecnica
Regia: Martin Scorsese
Sceneggiatura: Jay Cocks, Martin Scorsese
Interpreti: Andrew Garfield, Adam Driver, Liam Neeson, Tadanobu Asano, Ciarán Hinds, Shin'ya Tsukamoto, Yoshi Oida
Fotografia: Rodrigo Prieto
Musiche: Kathryn Kluge, Kim Allen Kluge
Anno: 2016
Durata: 161’
Uscita italiana: 12 gennaio 2017