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THE HATEFUL EIGHT - La lettera di Lincoln

6/2/2016

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Per una volta, partiamo dalla fine (con buona pace dei fanatici dello spoiler, messi in guardia sin da ora). Partiamo cioè da quella lettera di Lincoln, ricoperta di sangue e sputi, letta davanti a un cadavere impiccato - ma già mostrata più volte nel corso del film - in attesa che sopraggiunga la propria morte per dissanguamento.
​Un falso storico riconosciuto come tale, vero e proprio punto di riferimento per molti dei personaggi di The Hateful Eight; una menzogna architettata a tavolino per mitigare e condizionare le relazioni interpersonali, piegando così il susseguirsi della diegesi grazie a un espediente di pura finzione. 
Messinscena, sceneggiatura, artificio. Non stupisce più di tanto che, limitatamente a questo aspetto, il riferimento più immediato sia quello con Lincoln di Steven Spielberg, altro grande film sulla e con la parola, altro grande film che rifiuta gli spazi aperti per chiudersi dentro le stanze. Ma soprattutto, altro grande film sull’inganno e il sotterfugio come basi fondanti dei principi di libertà, eguaglianza e democrazia. 
​
La verità nasce dalla bugia, la libertà dalla violenza. Dopo Grindhouse - A prova di morte e Bastardi senza gloria, Quentin Tarantino prosegue la sua opera di riscrittura della Storia attraverso il cinema, questa volta non modificandone esplicitamente gli esiti, ma (ri)partendo dalle origini e dal Mito – il western, da John Ford e Howard Hawks. Ripartendo anche da se stesso, da quell’esordio con Le iene (da cui anche la presenza di Tim Roth e Michael Madsen in ruoli speculari a quelli interpretati nel 1992) qui rivisto e ampliato, deformato, ingigantito e radicalizzato. 
Un’operazione che nasce da Django Unchained, che aveva segnato una sorta di ripiegamento delle ambizioni a favore di una dimensione più superficiale e spensierata, ma dal quale ne prende le distanze; se non negli intenti almeno nelle conseguenze, poiché qui la posta in gioco viene alzata a dismisura portando alle estreme conseguenze il patto con lo spettatore: quasi tre ore di dialoghi serratissimi (qualcosa in più nella versione in 70mm), all’insegna della pressoché totale unità di luogo e senza nessun personaggio positivo con il quale potersi identificare. 
​
Il risultato è il film più radicale mai realizzato dal suo autore, ma anche quello più scopertamente politico: The Hateful Eight è innanzitutto la rappresentazione di un Paese chiuso in se stesso e vittima del proprio passato, incapace di sanare i conflitti interni generati dall’odio, dal razzismo e dalla sete di potere, sullo sfondo della guerra di secessione appena conclusasi. Otto personaggi per altrettanti caratteri: mentre dentro si consuma lentamente il progredire di una tragedia annunciata, fuori il mondo è una distesa ghiacciata senza alcuna forma di vita, un fuoricampo assoluto che esiste solamente in virtù dell’immaginario al quale fa riferimento. Un nulla nel quale non trovano posto nemmeno le comparse, totalmente assenti nel film perché anche i personaggi secondari hanno comunque un ruolo e un nome tali da garantire loro un’identità. 
È in questo contesto che allora il western si contamina con il giallo classico e il cinema da camera deraglia nello splatter: se è vero, come hanno già detto e scritto in molti, che i principali punti di riferimento siano da identificare in La cosa di John Carpenter (fosse anche solamente per il personaggio di Jennifer Jason Leigh: vedere per credere) e in Agatha Christie, allo stesso tempo il film rifiuta il citazionismo più immediato come mai era accaduto finora con Tarantino. Forse solamente come in Bastardi senza gloria, ma qui ancora in maniera più netta, il modello non è più (solamente) un film, un autore o un genere ma il cinema tutto, visto come vera e propria forza centripeta in grado di dare vita all’universo stesso. O almeno, a questo universo. 
​
Si comincia con il primo piano di un Cristo di legno sfregiato dalla neve per poi andare oltre, grazie a un campo lungo profondissimo che, immediatamente, si trasforma in Cinema. Perchè The Hateful Eight è anche e soprattutto un film sul Cinema, e non potrebbe essere altrimenti; un film sui luoghi del Cinema attraverso i quali rifondare uno sguardo e una visione del mondo. Come la diligenza, altro richiamo incredibilmente Fordiano sul quale Tarantino si sofferma a dismisura, spazio ristretto che per contrasto ha sempre raccontato il western e i suoi orizzonti sconfinati; perché per mettere in scena l’infinitamente grande ci si rinchiude sempre nell’infinitamente piccolo, e questa è una delle grandi eredità del classico. 
Infine, naturalmente, l’Ultra Panavision 70 mm utilizzato per filmare gli interni e i volti, gli occhi e il sangue, come il cinemascope costretto e soffocato nei corridoi di La valle dell’Eden di Elia Kazan. Un atto di fede totale e incondizionato nei confronti del proprio lavoro, meravigliosa menzogna a 24 fotogrammi al secondo attraverso la quale è possibile afferrare la verità delle cose. Come quella lettera di Lincoln, un’ultima sospensione dell’incredulità prima che sopraggiunga il buio.

Giacomo Calzoni

Sezione di riferimento: Film al cinema


Scheda tecnica

Titolo originale: The Hateful Eight
Regia: Quentin Tarantino
Sceneggiatura: Quentin Tarantino
Attori: Kurt Russell, Samuel L. Jackson, Jennifer Jason Leigh, Bruce Dern, Tim Roth, Michael Madsen, Channing Tatum
Anno: 2015
Durata: 187’ (70mm), 167’ (DCP)
Fotografia: Robert Richardson
Musica: Ennio Morricone
Uscita italiana: 4 febbraio 2016 

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